31. Il dolore della verità

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É tardi, tardi, tardi. Maledicevo me stessa come il coniglio matto di Alice. Avevo passato tutto il pomeriggio a lavorare all'agenzia di Costa e pagavo ancora le conseguenze della serata trascorsa fino a tardi al Madama. Seguire Marcello tra feste e appuntamenti era diventato un'abitudine, nonostante avesse accettato che lavorassi nello studio di Gloria. Avevo ballato tutta la notte e avevo bevuto parecchio. Nella mia mente facevo una lista di cose da fare, senza accorgermi che poi ripetevo sempre le stesse.

Il progetto della villa Anselmi, il contratto della fornitura... No, quello l'ho già dato ieri a Gloria. Nel frattempo cercavo le chiavi della macchina nella borsetta, ma le avevo lasciate nello svuotatasche sul lungo mobile alle mie spalle. Eppure c'è qualcosa che sto dimenticando, ne sono certa. Mi guardai allo specchio, truccata e con una pettinatura impeccabile. Eccole. Presi il mazzo di chiavi senza farmi altre domande e uscii.

Guidando veloce nel traffico, arrivai al Bar dove avevo appuntamento con Marta, solo con qualche minuto di ritardo. Ci incontravamo per fare un breve riassunto della settimana, il nostro appuntamento fisso a cui non potevo rinunciare. Avevamo scelto quel locale tra i tanti che Roma offriva perché si trovava a breve distanza sia dall'ufficio di Marta che dallo studio Costa, dove lavoravo ormai da più di un mese. Ogni settimana, senza neanche un messaggio di conferma, ci incontravamo lì per bere un caffè. Dieci minuti per aggiornarci sulle novità più succulenti della settimana. In un certo senso, avevamo ripristinato il nostro rituale del tè che ci accompagnava di sera in sera quando condividevamo l'appartamento. Marta mi aveva raccontato nelle settimane precedenti che stava cercando di acquisire nuovi clienti e che con Giorgio, il suo fidanzato, stavano pensando di aprire uno studio legale insieme. Nel frattempo, io avevo deciso di mettere in pausa la mia vecchia vita per cercare di capire quale direzione avrebbe preso la relazione con Marcello. Le raccontai che mi aveva portato in un vivaio e, in mezzo a cento rose bianche, si era inginocchiato per farmi la proposta di matrimonio. Ero ancora più legata a lui e come una zattera alla deriva, seguivo Marcello, correndo dietro a tutti i suoi impegni e cercando di farmi apprezzare da Gloria. Provavo a capire se ero davvero in grado di gestire il lavoro nello studio di Costa e mi sforzavo di non cadere nell'abisso dei miei malumori. Mi chiedevo se essere un funambolo senza una rete di sicurezza significasse diventare una donna.

«Le cose vanno talmente bene con Giorgio che stiamo persino pensando al matrimonio,» mi disse con un sorriso complice. «Tu, ovviamente, sarai la mia testimone. Anzi, ruberò entrambi i testimoni a tuo padre».

«Forse così potrò finalmente parlare di nuovo con Paolo» sottolineai amara mentre tuffavo il cucchiaino nel caffè.

«Siete di nuovo in rotta di collisione, immagino».

«Mi sembra di rivivere un déjà vu, ancora una volta come l'anno scorso, ha deciso di non parlarmi più» mi lamentai mentre con la punta del cucchiaino umettavo il bordo rovente della tazzina bianca.

«Ma tu gli hai scritto, lo hai chiamato?» chiese la mia amica.

«Perché avrei dovuto? È lui che dovrebbe chiedermi scusa per le cose che è andato a raccontare proprio a mia madre» risposi. Avevo nascosto alla mia amica il bacio dettato dal troppo vino, ma le raccontai del litigio con Carla.

«Be', in fondo non le ha raccontato bugie, stai con Marcello» puntò lo sguardo sull'anello vistoso al mio dito. Per tutti poteva sembrare un segno d'amore, ma per me era un marchio che doveva ricordare a me, e a chi mi stava intorno, che gli appartenevo. «Anche se poi non mi hai più spiegato cosa è successo tra te e Valerio».

«Far funzionare la storia con Valerio è difficile. Ogni volta che ci incontriamo, mi mette in situazioni pericolose e poi Marcello non mi fa mancare nulla» mi ritrovai a tessere le lodi del mio stesso carceriere, usando le parole di Rafael. «Ci sarebbero mille altre ragazze che farebbero di tutto per vivere la vita che mi offre lui». Sembrava quasi che volessi convincere me stessa.

«Ma a te questo basta, ti va bene? Con chi ti senti davvero te stessa».

«Caspita, Marta, è troppo presto per discorsi così importanti. Ho bisogno di almeno un paio di bicchieri di vino", risposi con una risata forzata, cercando di evitare l'imbarazzo. Le sue domande erano le stesse che mi tormentavano nello stomaco ogni giorno.

«L'amore non è solo passione o avventura,» disse con aria sognante, come se stesse leggendo le pagine di una rivista per adolescenti. «È la condivisione tra due persone che si cercano e si accettano al di là dei propri difetti».

«Tu non stai parlando né di Valerio né di Marcello» la guardai con sguardo critico, convinta di sapere dove volevano arrivare le sue parole.

«È da quando vi conosco... Voi siete sempre stati questo l'una per l'altra,» mi guardò dritta negli occhi prima di continuare. «Prima di Giorgio, quando vi vedevo insieme, speravo di trovare una persona come Paolo era per te. Lui c'è sempre stato per te».

«Giuro che se adesso mi dici anche che l'amore significa invecchiare insieme, mi sento male» esclamai, svuotando i polmoni con un profondo sbuffo dopo il primo tiro di una delle mie tante sigarette.

«Sì,» mi sfidò Marta, sorridendomi beffarda. «E poi inizia la condivisione dei gesti quotidiani, semplici, stare bene insieme semplicemente guardando la TV».

«Oh mio Dio, che visione banale» commentai con sarcasmo facendo un gesto con la mano nell'aria.

«Be',» Marta mi riprese, con un tono leggermente risentito scacciando uno sbuffo di fumo finito sulla sua faccia. «Allora, cosa preferisci? Soffrire o scappare? Essere preda o predatore?».

«Non lo so, non so neanche cosa mi stai dicendo. Mi sta scoppiando la testa» spensi la sigaretta con astio nel posacenere e cominciai a cercare le chiavi della macchina nella borsa.

Mi bloccai un attimo, allertata da una notifica sul cellulare.

«Stasera abbiamo un grande evento, devo andare ed è già maledettamente tardi». Era la scusa perfetta per scappare dalla severa occhiata della mia amica. Le stampai un bacio sulla guancia senza preoccuparmi di lasciarle un po' di rossetto.

Il traffico fluiva lento come miele lungo le strade secondarie che mi riportavano all'appartamento di Marcello. Ormai mi muovevo con disinvoltura tra il parcheggio e l'ascensore, come se abitassi lì da sempre. Entrai in casa con le mie chiavi e salutai Riccardo, che era impegnato a costruire un castello con i Lego sotto l'attenta supervisione della tata. Come avevo detto a Rafael, vivere le giornate come Marcello aveva prefigurato era semplice, fin troppo comodo. Mi preoccupavo solo di saltare da un abito all'altro. Nenita aveva imparato rapidamente le mie abitudini e si occupava di ripulire il caos che mi lasciavo dietro in ogni stanza. Godevo dei benefici di vivere in casa Murgia, al solo prezzo di accettare ogni suo capriccio. Parlare poco, senza contraddirlo, era l'unico accorgimento da adottare per evitare la sua sempre più frequente ira.

Anche quella sera era di cattivo umore, lo sentivo urlare qualcosa al telefono con uno dei manager del Madama. Riccardo era così abituato al tono a volte violento di suo padre che non si distraeva dalle sue costruzioni.

«Ehi, baby» mi appuntò un bacio fugace mentre mi passava accanto e continuava la sua conversazione con gli auricolari. Con la mano mi fece cenno di aspettare. «Va bene, ho capito, non aggiungere altro. Sentiamoci domani mattina, voglio ogni dettaglio».

«Tutto bene?» gli sorrisi cortesemente per ammorbidire la tensione che stringeva le sue mani a pugno. Ero certa che avrebbe ignorato la mia domanda.

Mi lanciò uno sguardo duro, ma sapevo che non era rivolto a me. Era ancora concentrato sulla chiamata appena interrotta.

«Porta Riccardo a cambiarsi per la notte» abbaiò alla tata.

Aspettò che la sala fosse completamente vuota per rivolgersi a me, tenendomi saldamente tra le sue mani. Quando fummo soli, le sue dita mi segnavano la pelle, ma anche il più impercettibile movimento del mio braccio che sembrava respingerlo lo faceva stringere ancora di più.

«Perché sei tornata così tardi? Dove sei stata?» domandò con voce serrata.

«Ero all'agenzia, stavo lavorando».

«Tu mi provochi» disse allargando la mano che stringeva il mio braccio fino a portarla a un centimetro dal mio viso. I suoi muscoli erano tesi, come se stesse facendo uno sforzo per non colpirmi con uno schiaffo.

Abbassai lo sguardo e mi allontanai di qualche passo, dandogli le spalle. Ma subito mi riprese, afferrandomi e riportandomi a un soffio dal suo viso teso e mostruoso. La sua mascella serrata stringeva i denti.

«Dobbiamo andare al party per il fidanzamento di Flavio, ricordi?» gli sorrisi debolmente, sperando di distrarre la sua furia da cane rabbioso.

«Baby, tutto quello che voglio è sapere che non c'è nessun altro» disse schiacciandomi contro il suo corpo, facendomi sentire quanto desiderasse prendermi in quel momento.

«Resto qui, non dico una parola e ancora non credi che ho scelto di restare con te».

«Vorrei essere certo che sei qui perché lo vuoi. Dimmelo, stavolta cerca di essere sincera».

Da quando Marcello era venuto a prendermi alla locanda, mi aveva chiesto ripetutamente se ero stata lì con qualcun altro. Impazziva all'idea che durante quei giorni in cui ero sparita, lo avessi tradito. Ero terrorizzata che potesse leggere nei miei occhi le scene di me e Valerio persi l'uno nelle braccia dell'altro. Ero convinta che Marcello non fosse geloso, ma piuttosto furioso per aver perso l'egemonia assoluta nei miei pensieri. Ma se avesse saputo, mi avrebbe staccato la testa a morsi e chissà cosa avrebbe fatto al mio amante.

«Non ti sto mentendo. Ero a lavoro, ero sola. Gloria è andata via presto per la cerimonia di stasera, così come Rossella. Io mi sono trattenuta solo per completare alcune cose» dissi trattenendo il fiato, cercando la sua approvazione.

Mi baciò trattenendo debolmente il mio labbro inferiore tra i denti, come se volesse mangiarlo. Sentii una scarica di adrenalina all'altezza della pancia. Ogni terminazione nervosa del mio corpo desiderava sentirne l'alito di tabacco sulla mia pelle. Il mio collo si incurvò, invitandolo a continuare. Invece di scappare, il mio corpo vibrava ad ogni tocco leggero delle sue mani lungo la mia schiena, mentre mi schiacciava contro il suo torace duro. Appoggiai una mano sulla sua camicia di cotone e con piacere sentii i suoi muscoli tesi. Avremmo fatto tardi, ma non volevo smettere. I baci di Marcello erano una merce rara da gustare, anche se quella sera erano più carichi di risentimento e quindi più ruvidi del solito.

«Mi fai impazzire» sospirò quando fu chiaro che non potevamo restare al centro di quella sala. Prendendomi per mano, mi portò nella stanza da letto. Chiuse la porta e quasi mi scaraventò sul letto, mettendomi supina. Raccolse tutti i miei capelli in una coda tra le sue mani e, alzandomi la gonna che indossavo, si fece strada nei miei slip. Quando mi fu dentro, mi teneva salda, tirandomi a sé e dando decisi strattoni. Mi faceva quasi male, ma non potevo fermarlo in alcun modo, per quanto veloci e continui erano i suoi movimenti. Il suo assalto durò poco e sentii il suo respiro troncarsi bruscamente. Piano, senza dire altro, scivolò via.

Mi accasciai sul materasso, cercando di abituarmi a respirare come se i miei polmoni avessero smesso di funzionare fino a un attimo prima. Mi sentivo come una foglia accartocciata, scossa e senza più forze.

«Mi faccio una doccia e andiamo» disse.

Feci un breve cenno con la testa, come per assecondare il suo comando. Fu un gesto così sottile che non ero nemmeno certa che lo avesse notato. In fondo non aveva bisogno di un mio assenso, ero sicuro che non avrei mai osato sfidare una sua imposizione.

Mentre Renato guidava nel lento traffico di Roma, ancora illuminata da un pallido sole quasi nascosto in un tramonto freddo d'autunno, mi persi a guardare il riflesso arcobaleno del diamante Tiffany che avevo al dito. Per gli altri era solo il tipico anello di fidanzamento, scelto nella sua forma iconica per far pensare a tutti ad una storia d'amore perfetta. Il diamante brillava solitario, proprio come mi sentivo dentro la mia vita. Avevo molte persone intorno a me, ma a nessuna di queste raccontavo dell'indifferenza e della violenza con cui Marcello mi trattava. Mi portava ovunque, agli eventi, alle feste, ogni sera al Madama, ma ero solo un oggetto da esibire e nient'altro. Anche la nostra vita sessuale era ridotta al minimo. Raramente le sue continue attenzioni cavalleresche si traducevano in veri gesti d'amore. Quando avevamo un rapporto sessuale, era più un rituale di movimenti violenti, una soddisfazione del desiderio di possedermi e nient'altro. Dopo il suo amplesso, spariva per fare una doccia e non dormivamo nemmeno nella stessa stanza. Quando eravamo a casa insieme, era sempre o nel suo studio al computer, monitorando il mercato azionario, oppure riposava per un paio d'ore nella sua stanza da letto separata dalla mia.

Dall'esterno sembravamo una coppia perfetta, ma in realtà mi sentivo come una bambola muta che gli stava accanto. Quando cercavo di parlare, mi ignorava o mi zittiva. Riflettevo su quanto fossi codarda nel non voler lasciare la vita comoda che mi aveva messo a disposizione, mentre parcheggiavamo nel palazzo d'epoca dove si sarebbe tenuto l'evento di una delle famiglie più in vista di Roma. Quel evento era stato il mio biglietto d'ingresso nell'agenzia di Gloria, un contatto che Marcello mi aveva passato quando mi aveva permesso di riprendere a lavorare.

Appena arrivata, ad accogliermi alla porta vetrata della sala già allestita come avevo progettato, c'era Rosella, una graziosa ragazza che si occupava di essere la segretaria dello studio Costa. Gloria stava dando indicazioni al responsabile del catering e teneva a bada Sophia, la futura sposa.

«Ha chiamato il cavalier Rosati per l'invito di domani sera e la dottoressa Costa è laggiù ad aspettarla» elencò Rosella mentre io le consegnavo il soprabito e mi liberavo della borsa. Ripetei lo stesso gesto anche per Marcello, che si allontanò di qualche passo per rispondere a una telefonata. Non era abituato ad arrivare ad un evento con largo anticipo, ma quella sera aveva deciso che avevo avuto troppe ore di autonomia.

«Grazie». Sistemai i miei pensieri mentre, a passi svelti, raggiungevo nella sala le altre due donne che cinguettavano. Quando ero in modalità lavoro, non mi sentivo più una ragazza incapace di dare voce ai propri sentimenti, ma una donna capace di prendere decisioni e stabilire, sotto la guida di Gloria, strategie e traiettorie da seguire per il successo dei nostri progetti.

«Eccoti, Lia. Vieni, stavo raccontando a Sophia le modifiche che hai apportato a villa Anguillara per il ricevimento».

«Certo,» salutai la nostra cliente con il solito finto bacio dato all'aria. «Avevano un giardino straordinario ma lasciato al caso e con pochi accorgimenti avremo degli scenari mozzafiato per gli scatti. Potremmo anche valutare di concludere il taglio della torta all'esterno. Seguirò il meteo e farò in modo che non ci siano nuvole e che il termometro non scenda neanche di un grado». Scherzai, anche se avessi fatto di tutto affinché quell'evento andasse per il meglio. Sarebbe stato il primo progetto seguito per intero da me. Ne ero soddisfatta come non mi ero mai sentita prima.

«Grazie». Sophia mi guardò compiaciuta mentre restituiva il tablet dal quale aveva guardato le bozze e le foto che avevo preparato per mostrare i cambiamenti alla villa. «È importante che tutto fili dritto e con te e Gloria sono certa che sarà così. Vi lascio continuare perché devo iniziare a prepararmi. Tra poco arriveranno gli ospiti, e non voglio tardare». Da lontano ci salutò con un delicato gesto della mano la signora Tardi, la madre della sposa, una donna magra che indossava una collana preziosa che quasi stentavo a credere potesse indossare, considerando le ossa esili delle sue clavicole.

«Certo, ti faccio accompagnare da Rossella. Stiamo in continuo collegamento, quindi chiedi pure a lei tutto. Sarà come parlare con me o con Lia» fece un cenno alla ragazza che, solerte, già faceva strada mentre mi stava porgendo l'auricolare e la radio che usavamo in queste occasioni per rimanere connesse durante tutto l'evento.

«Grazie» feci a Rossella mentre mi montavo l'auricolare all'orecchio, nascondendolo con i capelli, per poi rivolgermi al mio capo: «Prima di uscire dallo studio, ti ho anche inviato i prospetti per il progetto Rosati. Il cavaliere aspetta una risposta».

«Chiamalo tu, il progetto è tuo» sospese le parole, certa dell'entusiasmo con cui avrei appreso quella succulenta novità.

«Grazie» sorrisi debolmente, anche se avrei voluto scuoterla con un abbraccio energico.

«Chiama Roberto per quelle forniture».

«Già fatto, ci manda il preventivo nella giornata di domani».

«Senti anche Enzo per i gazebo di copertura».

«Fatto anche quello, sono già lì con lo staff. Se hanno bisogno ci chiamano, ma non credo, perché ieri sera prima di andare via gli ho inviato tutto il necessario per email» dissi con convinzione.

«Quanta efficienza» sorrise compiaciuta Gloria, interrompendo la sua attenzione al display e focalizzandosi su di me. «Allora vado in cucina a controllare che tutto sia in ordine. Occupati dei primi ospiti appena inizieranno ad arrivare. Flavio sta parcheggiando, quindi arriverà tra pochi minuti, e anche il Senatore è in arrivo».

Il promesso sposo, un rampollo di una famiglia radicata nella scena politica italiana sin dalla prima repubblica, lo conoscevo dalle serate allo Shekinà con Marcello. Era uno dei tanti che avevano promesso a Marcello un credito illimitato di fiducia in cambio di uno o due favori che il Diavolo gli aveva concesso. Ogni volta che ci incontravamo, Flavio era sempre estremamente affabile, sapendo che ero la fidanzata del suo benefattore. Sentii le voci di alcuni uomini già ubriachi provenire dalle scale che poco prima avevo percorso per raggiungere la sala. Il futuro sposo entrò nell'ingresso con un'aria stropicciata, seguito da un paio di altri uomini, tra cui riconobbi Davide con stupore. Pensai a quanto fosse piccola Roma, incrociando casualmente tutti i compartimenti della mia vita che cercavo di tenere separati.

«Benvenuti» dissi, indossando una finta maschera di gentilezza compiaciuta. «Flavio, tra poco inizieranno ad arrivare gli ospiti. Sofia è già su, a prepararsi. Sarebbe meglio che tu beva dell'acqua e ti rimetta un po' in ordine». Davide capì la mia urgenza e, con fare cavalleresco, rafforzò le mie parole con un sorriso all'amico e quasi lo condusse a braccio verso un'altra stanza, allontanandosi di qualche passo. «Lascialo a noi, è in ottime mani» disse.

Sospirai, sperando che non fosse già la prima crisi da affrontare. Un promesso sposo ubriaco sarebbe stato di cattivo gusto da presentare agli ospiti, soprattutto se confrontato con l'austerità che suo padre aveva sempre dimostrato.

«Tutto bene?» si avvicinò Marcello, avvolgendomi con le braccia intorno alla vita.

«Sì» risposi con poca convinzione. «Hanno iniziato a bere prima della serata, non mi piace questa cosa» mormorai mentre appuntavo sul promemoria le chiamate da fare il giorno seguente.

«Ci penso io» disse risoluto. Prese un paio di bottiglie d'acqua e un paio di bicchieri dal tavolo del buffet. Dopo pochi minuti, lo sentii rimproverare gli altri invitati, invitandoli a tornare alla sala dove il ricevimento stava per iniziare. Davide entrò con gli altri alla ricerca di qualcos'altro da bere e, quando incontrò il mio sguardo torvo, cercò di raddrizzarsi e assumere un tono dignitoso. Disse qualcosa agli altri due e si allontanò dal gruppo per venire verso di me. Era a pochi passi e mi rivolse un sorriso suadente.

«Ehi, ci incontriamo sempre in situazioni strane io e te».

«Già» risposi, continuando a prendere appunti nervosamente sul display del cellulare.

«Cosa ci fai qui?» provò a cercare il mio sguardo, assumendo una postura ridicola che mi diverti, mentre cercavo di trattenere il sorriso che voleva affiorare.

«Sto lavorando, sono una delle organizzatrici dell'evento», mostrai l'auricolare mentre con un gesto lasciai che il cellulare si oscurasse.

«E tu?» i miei occhi si fissarono sui suoi, dimostrando tutta la mia attenzione.

«Sono uno dei tre testimoni dello sposo, è uno dei miei cugini. Nonostante la mia veneranda età, sono ancora uno scapolo. È tradizione della nostra famiglia che siano i parenti più prossimi non sposati ad accompagnare lo sposo all'altare. Gente del sud, sai com'è» fece una smorfia sorridendo in modo magnetico.

«Sarà meglio che torni dalla tua cricca di amici prima che distruggano le decorazioni» girai il viso verso gli altri due testimoni che stavano osservando dei fiori nascosti tra le piante agli angoli della sala.

«Hai paura di parlare con me perché il tuo fidanzato è laggiù?» fece un cenno con la testa verso il grosso anello che avevo al dito. «Pensi che possa pensare che stiamo flirtando?».

Già questa idea l'hanno avuta in molti, pensai tra me e me, ricordando le accuse di Carla.

«Marcello si sta occupando di Flavio, mentre voi lo avete fatto bere tutto il pomeriggio, scommetto».

«Puoi giurarci, e prima che si comprometta del tutto, faremo anche di peggio» mi lanciò un occhiolino complice.

«Ora capisco perché Carla ti ha dato il ben servito» gli sorrisi in modo enigmatico, ripensando alla fredda riservatezza di mia madre.

«Lia, la storia con tua madre è rimasta in standby per tanti anni perché non siamo mai stati sinceri tra di noi».

«Tu e mamma avete più o meno la stessa età, forse frequentavate gli stessi corsi, le stesse persone. Sarà stata una relazione andata più oltre di quanto avreste dovuto. Tutto qui» ripresi un vecchio discorso che avevamo iniziato durante lo scambio di alcuni messaggi. Sapere della loro storia, prima, durante e forse dopo il matrimonio dei miei genitori mi imbarazzava, ma ero curiosa e volevo saperne di più.

«Hai ragione, io e tua madre avevamo la stessa età. Alberto era più grande, già inserito in quel mondo che entrambi volevamo vivere a pieno. Ero giovane e non mi importava rispettare certe convenzioni borghesi. Carla avrà avuto dei rimpianti, forse se ne sarà pentita, ma non è giusto che mi abbia tenuto segreto da te. La verità è che non ho mai smesso di pensare a lei» si allontanò di qualche passo, andando all'esterno della sala dove eravamo rimasti fino a quel momento. Lo raggiunsi per continuare la nostra conversazione, lontano da orecchie indiscrete. Davide rivolse il suo sguardo perso nel cielo terso, fissando i comignoli di Roma e dandomi le spalle.

Restai in silenzio, volendo dargli modo di riflettere sulle parole che avrebbe usato per continuare quella storia.

«Assomigli tanto a Carla. Avete lo stesso sorriso. Ne ero stregato. Sembrate un uccellino, quando camminate non si sente neanche il rumore dei vostri passi, ma avete l'energia di un'aquila» si girò di scatto verso la sala, dando le spalle al parapetto della terrazza. «Guarda cosa hai fatto in questa sala, Flavio ci raccontava prima in macchina che sei in grado di accontentare tutti i capricci della sua bella sposa. Hai iniziato come barman in un locale e hai fatto strada, organizzando molti eventi anche per il signor Murgia, un gran coglione rompipalle. Lo sa tutta Roma, anche se paga bene. Sai, è per questo che non ci ho mai voluto lavorare insieme. Venne anche a chiedermi se volevo seguire i lavori del suo nuovo locale al centro. L'ho garbatamente mandato a fanculo» mi guardò per un istante lunghissimo negli occhi, come se stesse cercando qualcosa nella mia anima. «Sei bella come tua madre».

Aspettava che dicessi qualcosa, ma non avevo idea di cosa si aspettasse che aggiungessi. Avrei voluto solo sparire; i complimenti mi facevano arrossire, come in quell'occasione.

«Lei non mi ha mai fatto capire che provava qualcosa per me. Sì, eravamo andati a letto, ma già frequentava Alberto. Sapevamo tutti che stavano insieme, cosa dovevo pensare? Alla fine ho avuto la possibilità di andare a Berlino per qualche mese, non potevo farmi sfuggire quell'occasione» riprese, come se stesse parlando a sé stesso, fissando un punto del muro. «Quando sono tornato, Carla mi ha messo di fronte al fatto che si sarebbe sposata con tuo padre. Non volevo essere il terzo incomodo e mi sono defilato. Non ci siamo più visti fino a quella festa di compagni universitari. Lì ci siamo incontrati e abbiamo avuto una relazione. Lei era già sposata, ma non siamo riusciti a contenere il trasporto che avevamo l'uno per l'altra. Non sapevo di te, Carla mi diceva di avere un matrimonio in crisi, ma poi è sparita di nuovo. Per anni non ho avuto più sue notizie. Non sapevo dove cercarla, ma non ho mai smesso di farlo fino a quando non sono venuto alla locanda e ho conosciuto te. Sto impazzendo, ho bisogno di sapere chi sei tu. Se sei mia figlia».

«Davide,» mi avvicinai a passi piccoli, come per non perdere il contatto visivo, «se quel foglio ci dicesse che abbiamo lo stesso DNA, cambierebbe poco». Trovai una determinazione che solitamente non mi apparteneva. «Sia chiaro, Alberto non dovrà sapere nulla, e se vorrai andare da Carla, ci andrai da solo». Le mie parole, anche se dure, fluirono dalla mia lingua in una forma delicata, come una carezza che sfiorava il suo corpo.

«Hai ragione» trattenne la mia mano, chiudendola tra le sue. In quell'attimo, entrò Marcello, seguito a ruota da Sophia, che teneva sotto braccio. Chiacchieravano di qualcosa di leggero, ma che faceva sorridere delicatamente la giovane donna. Appena il suo sguardo si posò su di noi, fu raggelante; non c'era nulla di compromettente nei nostri atteggiamenti, ma eravamo fin troppo intimi per due persone che si sarebbero appena conosciute.

«Ti chiamo così, decidiamo quando e se fare questo test» sussurrai rapidamente, dirigendomi verso il mio fidanzato. «Tutto bene?»

«Ho risolto tutto» salutò la sposa con un bacio casto sulla mentre lei si allontanava per andare incontro ai primi ospiti. Durante tutti quei gesti Marcello continuava a tenere saldo il suo sguardo torvo su Davide, rimasto sulla terrazza con le spalle rivolte alla sala.

«Sta per arrivare il Senatore» colsi l'occasione per defilarmi rapidamente, mentre nell'auricolare ricevevo le informazioni di Gloria sugli spostamenti delle macchine in arrivo al palazzo. Ignorai qualsiasi risentimento di gelosia, tanto sapevo che Marcello non avrebbe mai fatto scene in una sala piena di persone. Avrei scontato la sua ira al ritorno a casa.

***

Afferrai il cellulare, cercando di controllare i singhiozzi che agitavano il mio corpo per il dolore e il terrore. Le dita faticavano a scorrere la rubrica alla ricerca del numero di Valerio, ma finalmente lo trovai e, con gli occhi appannati dalle lacrime, riuscii a premere il tasto di chiamata.

Era notte fonda ma dopo pochi squilli, la sua voce radiosa risuonò dall'altoparlante: «Pronto? Pronto?» rispose, non sentendo la mia iniziare la conversazione. Restai in silenzio, spaventata dall'idea che Marcello, addormentato nell'altra stanza, potesse sentirmi.

«Non pensare chissà cosa, avevo solo bisogno di sentire una persona amica e ho pensato a te».

«Cosa è successo? Perché stai piangendo?» chiese con la voce allarmata. Lo immaginai con i piedi pronti a toccare terra, pronto a correre ovunque io gli avessi chiesto di raggiungermi.

«Ha bevuto molto stasera, lui non lo fa mai» ripresi a singhiozzare, ma cercavo di soffocare i gemiti con la mano per non farmi sentire. Mi vergognavo e continuavo ad ascoltare il respiro profondo di Marcello per essere certa di non svegliarlo. «Ho visto tante volte i suoi scatti d'ira, ma stasera è stato diverso, mi ha spaventato davvero. Mi sento male, ho paura e mi sento terribilmente sola». Perdendo il controllo delle mie emozioni, riversai tutto il tormento che mi opprimeva lo stomaco. Avrei voluto solo urlare, ma non potevo.

«No, Lia, non sei sola, ci sono io per te. Ogni volta che vuoi, per un minuto, un'ora o per sempre... Non è stato l'alcool, è uno stronzo e tu non meriti tutto questo. Lia, devi fare qualcosa. Non puoi continuare a vivere in questa situazione, è pericolosa» disse cercando di convincermi a prendere la decisione giusta.

«Non so cosa fare» ammisi, incapace di vedere una via di fuga.

«Lia, devi cercare un modo per uscire da questa situazione. Posso aiutarti io. Ti prometto che non sarai sola. Io sono qui e ti aiuterò sempre, perché ti amo. Sei l'unica che ho mai amato. Mi è bastato vederti quella prima sera. Ti ho vista vivere una vita che non ti appartiene e buttarla via per uno stronzo, ma adesso devi uscirne. Io sono qui e ti aiuterò sempre perché ti amo».

Sapevo che aveva ragione. Era giunto il momento di cercare aiuto, ma quel primo passo era il più difficile. Sapevo quanto fosse necessario, ma non mi sentivo sicura di essere capace di portare a termine la mia decisione.

«Sei a Roma?»

«Sì».

«Vediamoci, non voglio darti false illusioni, ma vorrei vederti».

«Decidi tu dove, quando e perché».

«Scendo, prendo la metro e ci vediamo alla Garbatella».

«Ci sto, fai conto che sono già lì» sentivo l'affanno nella sua voce, probabilmente indossava i suoi jeans e gli anfibi, cercando di non far cadere il cellulare bloccato tra la spalla e il collo.

«Ti chiamo quando scendo dall'appartamento».

«Chiamami per qualsiasi cosa».

Ero a terra, sul pavimento del bagno, e nello specchio della porta mi imbarazzai davanti all'immagine del mio volto deturpato. Le guance erano ancora rosse, lo zigomo mostrava gli schiaffi ricevuti a raffica, inflitti con violenza. I capelli erano stravolti dagli strattoni. Notai un livido sul ginocchio, pensai che quello era facile da nascondere, bastava un pantalone lungo per qualche giorno. Ma quello sullo zigomo mi preoccupava di più, con i suoi contorni giallognoli che si sarebbero dissolti più lentamente. Era più difficile nasconderlo con il trucco, così come i graffi intorno al collo, quando aveva cercato di soffocarmi.

Senza rendermene conto, avvicinai la mia mano sul punto dove era stata quella di Marcello, anche se era molto più piccola, sentii di nuovo la sua presa. Se avesse voluto... Se stringeva ancora un po'... Gelai.

Con il dorso della mano, lasciando che il trucco si sbavasse, cercai di asciugare le lacrime che rigavano il mio viso, mentre cercavo di riprendere fiato. Nei miei occhi rividi Marcello, ancora lì, in piedi di fronte al mio dolore, la sua faccia contorta dall'alcol e da una rabbia simile a quella di un animale. "Non mi piace quando parli con altri uomini, capisci?" mi aveva urlato tra uno schiaffo e l'altro, con la voce bassa e minacciosa. "Tu sei mia e devi restare con me". Era stato furioso, fuori controllo e sembrava che nulla potesse arginare il suo delirio.

Sapevo quanto era possessivo e geloso, ma non avrei mai pensato che sarebbe arrivato a quel punto. Sentivo la paura gelarmi il sangue nelle vene e mi chiedevo cosa avrebbe potuto fare quando la mattina seguente avrebbe notato la mia assenza. Capì che non c'era nulla che potessi fare. Non potevo sopportare di vivere in una situazione del genere, non potevo permettere che arrivasse ad uccidermi.

Raccolsi tutte le mie forze e decisi di porre fine alla relazione con Marcello. Avrei chiamato Ginevra, come mi aveva suggerito. Lo avrei denunciato alla polizia e, anche se avrei dovuto affrontare sia Alberto che Carla, lo avrei fatto. Dovevo porre fine a quella relazione tossica. Quella sera divenne la svolta, capii che non avrei mai più permesso a qualcuno di maltrattarmi in quel modo. Dovevo essere coraggiosa e determinata, come non ero mai stata prima, per poter riprendere il controllo della mia vita.

Mi lavai il viso, cercando di rimuovere tutto il trucco, e legai i capelli sul lato dello zigomo rotto, quasi sanguinante. Presi una delle borse più grandi che avevo e iniziai a metterci tutto ciò che mi sembrava utile. Passai accanto a lui, sentendo il suo respiro profondo mentre entravo nel suo studio. Rovistai tra le sue carte, cercando qualsiasi traccia che potesse incriminarlo. Non conoscevo le sue password e portargli via il cellulare o il tablet sarebbe stato inutile, poiché aveva numerosi sistemi di sicurezza per proteggere i suoi dati, tra cui il reset da remoto. Notai il portacarte e lo rovistai alla ricerca di contanti. C'era anche una sottile agendina nera; senza leggerne il contenuto, la misi nella tasca dei jeans e lasciai accanto la sua carta di credito come segno che lo stavo lasciando. Volevo che gli dicesse addio, ma per essere sicura che capisse le mie intenzioni, scrissi con una penna sul mobile dell'ingresso: "Tu mi tratti da principessa, mi dai tutto, ma sei un maledetto delinquente".

Ero pronta a partire, ma avevo paura di varcare la porta d'ingresso. Avevo timore di essere scoperta, paura di ciò che avrebbe fatto quando si sarebbe accorto che me ne ero andata, che non ero più sua. Il rumore della chiave nella serratura faceva sobbalzare il mio cuore ad ogni giro, immaginavo Marcello saltarmi addosso. Avevo poco tempo, sapevo che si sarebbe svegliato. Presi coraggio e azionai la maniglia della porta, cercando di fare il minor rumore possibile, ma quando stava per aprirsi, la sua voce mi bloccò.

«Lia, dove credi di andare?»

Mi voltai lentamente, cercando di non mostrare il panico che mi attanagliava. Mi fissava con uno sguardo minaccioso, faticando a mantenere l'equilibrio a causa dell'alcol presente nel suo corpo.

«Sto andando via e non provarci nemmeno a fermarmi» risposi cercando di mantenere la calma.

«Non dire sciocchezze, sai che ti troverò ovunque... Renato!» urlò, senza rendersi conto che eravamo soli in casa.

Sapevo che non avrei potuto convincerlo con le parole. Raccolsi le chiavi della macchina e uscii dall'appartamento. Marcello sembrò pensieroso per un istante cercando di capire quali fossero le mie intenzioni poi fece un passo avanti.

«Non credo che sia una buona idea, Lia. Hai bisogno di me, di ciò che posso offrirti» disse con un sorriso beffardo, mentre con un movimento maldestro inciampò su una lampada nel tentativo di affrettarsi e raggiungermi.

Ero determinata a lasciarlo, a qualunque costo.

«Mi dispiace, devo andarmene» dissi con voce ferma, cercando di non cedere al terrore che combattevo con difficoltà.

A quel punto sembrò arrabbiarsi ancora di più, il suo volto si trasformò in una mostruosa smorfia di rancore, odio e furia.

«Non puoi andartene, non ti lascerò andare!» gridò, cercando di afferrarmi la caviglia ma non riuscendo a trovare l'equilibrio per rialzarsi.

Provai a difendermi come meglio potevo per cercare di allontanarlo e con tutta la forza che avevo gli sferrai un calcio in volto. In qualche modo, riuscii a sottrarmi alla sua presa, aprii la porta e la richiusi rapidamente alle mie spalle, girando tutte le mandate con decisione. Avevo guadagnato un po' di tempo, chiudendolo all'interno del suo appartamento, ma sarebbe bastato solo per correre verso la metropolitana e nascondermi lì dentro. Sentii le urla di Marcello alle mie spalle, imprecando il mio nome. Corsi verso l'ascensore e sentii un senso di sollievo quando le porte si chiusero finalmente. Uscii dal palazzo e cercai un posto sicuro dove poter chiamare Valerio. Ero spaventata, ma anche determinata. Non avrei mai più permesso a nessuno di farmi del male. Avevo fatto il primo passo verso la libertà.

Guardai il cellulare per l'ennesima volta, pregando che Valerio rispondesse alle chiamate.

«Sono fuori. Sto andando alla metropolitana».

«Io sono ci sono già dentro, non potevo aspettarti. Ti vengo incontro».

La linea cadde.

L'attesa di vederlo aumentava il desiderio di perdermi nel suo abbraccio sicuro. Corsi verso la fermata della metropolitana, il fiato mi bruciava nei polmoni, ma niente al mondo mi avrebbe fermato. Raggiunsi il binario e aspettai ansiosamente l'arrivo del treno. Cercai di riprendere fiato mentre mi sedetti su una delle panche della stazione, il cuore mi rimbombava nel petto, ma mi sentivo più leggera. Continuai a guardare l'orologio che segnava ancora alcuni minuti prima dell'arrivo del vagone. Ero nervosa; pensare a Valerio mi faceva sentire il cuore in gola. Avevo paura, ma anche una grande voglia di riscatto. Non avrei mai più permesso a nessuno di farmi del male.

All'improvviso, sentii una mano sulla spalla e mi voltai di scatto. Era solo un uomo che cercava informazioni sulla partenza del treno, ma mi sentii ancora più spaventata. Provai a rimanere calma, ma contavo i secondi che mi separavano dalla sicurezza dell'abbraccio di Valerio. Cercai di calmarmi facendo respiri profondi; volevo a tutti i costi tenere a bada le mie emozioni. Finalmente, il treno arrivò in stazione. Mi alzai di scatto e lo cercai dai finestrini. Quando i nostri occhi si incrociarono, iniziammo entrambi a correre verso le porte che si sarebbero aperte di lì a poco. Quando si aprirono, ci trovammo faccia a faccia, entrambi non aspettavamo che l'altro. Mi sentii sollevata, erano le sue braccia che mi raccolsero mentre il fischio della metropolitana annunciava la sua partenza. Ero felice di vederlo.

«Ciao» disse con voce calda. Gli sorrisi, ma notai che il suo gesto riflesso svanì quando notò il livido sulla sua guancia. «Cosa ti ha fatto quello stronzo?»

«Non importa adesso, sono qui con te» dissi con voce flebile mentre mi rifugiavo nelle sue braccia. Valerio prese il mio mento per sollevarlo dal suo petto e permettere ai nostri occhi di incontrarsi. Mi guardò intensamente, leggendo l'urgenza d'amore che brillava nei miei occhi inondate di lacrime. Mi avvicinai lentamente, catturata dal dolce profumo della sua pelle e dalla morbidezza dei suoi capelli. Le nostre labbra si sfiorarono appena e un brivido di piacere mi percorse la spina dorsale. Continuammo a baciarci con passione, sentendo il desiderio che ci stringeva a causa del tempo trascorso lontani, assetati l'uno dell'altro. Le nostre mani si cercarono freneticamente e si intrecciarono, rendendo quel bacio ancora più intenso. Mi abbracciò ancora di più, tanto che potevo sentire il calore del suo corpo sul mio. Il bacio divenne sempre più ardente e travolgente, fino a quando ci fermammo per riprendere fiato. I nostri occhi erano fusi, entrambi senza respiro, mentre i nostri cuori battevano all'unisono.

«Non pensavo si potesse amare così tanto una persona» disse.

«Ho aspettato questo momento da quando ci siamo salutati l'ultima volta» sussurrai, ancora rapita dall'intensità del nostro bacio.

«Anch'io» rispose lui con voce affannata dalla passione. Poi si guardò intorno, cercando un posto dove sederci. Alla fine, lo trovò per entrambi. Lasciò che mi accomodassi per prima, accanto alla finestra, e poi si sedette accanto a me, continuando a tenermi stretta tra le sue mani con le mie gambe appoggiate sulle sue.

Ci baciammo ancora, sentendo che l'assenza era stata solo un intermezzo e che da quel momento saremmo stati finalmente insieme. Null'altro contava, solo il desiderio di appartenerci. Qualsiasi difficoltà o ostacolo avessimo dovuto affrontare, lo avremmo fatto insieme. Quando le nostre labbra si separarono, mi appoggiai al suo petto, ancora tremante dalla passione. Valerio mi strinse ancora di più, sapendo che non avrebbe mai voluto lasciarmi andare. Eravamo insieme, finalmente riuniti e nulla poteva separarci.

Saltammo la fermata della Garbatella per prendere la coincidenza che ci avrebbe portati al piccolo monolocale di Valerio, anche se sapevo che non era un posto sicuro. Guardavo fuori dalla finestra senza riconoscere i contorni dei luoghi che sfumavano, poiché la metro correva veloce. Vedevo solo macchie di colore scorrere rapidamente. Ero felice di essermi allontanata da Marcello, ma allo stesso tempo spaventata per ciò che avrebbe potuto accadere il giorno successivo. Uscire dalla trappola che astutamente avevo costruito sarebbe stato facile per lui. Una volta chiamato Renato con una copia delle chiavi, avrebbe potuto cercarmi e la prima destinazione sarebbe stata probabilmente la casa di Valerio.

Mentre camminavamo verso il monolocale, mi guardò con un sorriso gentile. «Sai, Lia, non devi avere paura. Qui sarai al sicuro e non ti lascerò sola» disse con fermezza.

Lo guardai negli occhi e notai la determinazione che traspariva dal suo volto. Mi sentii protetta, ma sapevo che non eravamo ancora al sicuro.

«Grazie, Valerio. Ho apprezzato ciò che hai fatto per me stanotte» feci con un sorriso debole, «ma non possiamo restare qui. Se ci scopre, andrà male per entrambi».

«Prendo solo alcune cose e poi possiamo andare. Puoi riposarti un po' se vuoi» mi disse con un sorriso mentre aprì la porta del piccolo monolocale.

Con lo sguardo perso nell'infinito e la mente piena di pensieri, mi accasciai sul letto scomodo, lasciando i capelli sparsi sul cuscino. Valerio era seduto su una sedia malconcia e continuava a riempire una sacca. Era pronto a mettere a rischio il suo labile equilibrio per seguirmi ovunque io decidessi di andare. Si avvicinò al letto per stendersi accanto a me. Restammo in silenzio, consapevoli che una volta fuori da quel nascondiglio, solo temporaneo, saremmo stati facili prede dei mezzi messi in campo da Marcello, accecato dalla vendetta. Sfidandolo, avevamo innescato un pericoloso gioco di caccia e noi eravamo le prede. Dovevo elaborare rapidamente il trauma di quella sera e mettere a punto un piano a lungo termine. Sapevo bene che Marcello non si sarebbe fermato fino a quando non mi avrebbe trovato e appagato il suo desiderio di vendetta.

Allungai la mano per cercare quella di Valerio. Sapevo che la decisione di lasciare il mio carceriere non sarebbe stata facile, ma sapevo anche che, insieme, avremmo potuto affrontare qualsiasi cosa. Nel buio della notte, il ritmo cadenzato del nostro respiro sembrava un rumore troppo forte, che oltrepassando la porta avrebbe potuto tradire la nostra presenza nel rifugio. Immaginavo Renato sfondare la debole porta a spallate e riportarmi indietro dal mio carnefice.

«Non possiamo restare qui» dissi, rialzandomi sul materasso, seguita da Valerio che fece lo stesso.

«Dove vuoi andare?» mi chiese, sembrando un soldato pronto a scattare al mio comando.

«L'unico posto sicuro che mi viene in mente è la casa di mio padre a Latina. Parlerò con Ginevra e le chiederò di tenere Alberto all'oscuro di tutto. Le mostrerò questo» dissi, estraendo dalla tasca posteriore dei jeans l'agendina nera che avevo sottratto a Marcello, dando ai fogli una rapida occhiata.

«Forse tra tutti questi nomi e numeri riuscirà a trovare qualcosa di utile per incastrarlo. Le parlerò anche del Piotta». Fissai gli occhi di Valerio, cercando la sua approvazione. Questo era il piano. Sembrava buono, ma non ero sicura se saremmo riusciti a metterlo in pratica completamente.

«Ovunque tu vada, io ci sarò. Qualunque cosa decidi di fare, sarò al tuo fianco» mi assicurò spostando una ciocca di capelli dal mio viso.

«Ti amo» mi uscii dai denti per la prima volta, senza nemmeno rendermene conto. Era la prima volta che pronunciavo quelle parole a un uomo.

Gli occhi di Valerio brillarono per un istante, ma poi un lampo di dubbio oscurò il suo entusiasmo.

«Dillo solo se è vero... Non farlo perché ti senti spaventata e credi che sia necessario dirlo per tenermi accanto. Lo farei comunque».

«Ho capito stanotte quanto tu sia importante per me. Mi sei piaciuto fin dalla prima sera in cui ci siamo incontrati, ma la tua vita passata mi spaventava. Ero ciecamente ottusa e non riuscivo a vedere che tu eri esattamente ciò che desideravo».

In un solo istante, mi sovrastò, raccogliendo il mio viso tra le sue mani per far fondere i nostri sguardi, e ci abbandonammo in un bacio languido, caldo e profondo. Per la prima volta nella mia vita, capii cosa significava l'amore. Valerio mi comprendeva e accettava per come ero, con tutte le mie complessità. Era stato lui a darmi la forza di lasciare Marcello, ed era lui l'uomo della mia vita.

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