33. Rapita

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Aprii gli occhi, guardandomi intorno nella stanza. Ancora era difficile per me riconoscere gli arredi spartani, ma sapevo di essere al sicuro. Ginevra ci aveva sistemato nel suo vecchio appartamento, di cui ancora non si era disfatta. La casa era quasi vuota, ma avevamo trovato vestiti puliti e asciutti, anche se trascorrevo la maggior parte del tempo a letto. Mi girai sul fianco, cercando Valerio nel buio del risveglio. Lo trovai addormentato, il petto che si sollevava dolcemente al ritmo del suo respiro. Mi alzai con cautela per non svegliarlo, attraversai i corridoi e mi specchiai. Mi vidi diversa, la mia pelle aveva un nuovo colore, meno spento e i miei occhi non sembravano più tristi. Avevo un sorriso leggero. Mi avvicinai alla finestra dell'altra stanza e, distrattamente, accesi una sigaretta. Guardavo fuori senza particolare interesse, la vista della campagna era stupenda. Mi piaceva essere lontana dal caos della città, mi sentivo rinata. Improvvisamente, le braccia calde di Valerio mi circondarono il petto, facendomi apprezzare il suo corpo contro il mio. Mi sentivo piccola nel suo abbraccio, avvolta dal suo affetto. Mi resi conto che tra noi si stava creando qualcosa di vero. Mi voltai, riflettendo la mia felicità nei suoi occhi e lo baciai appassionatamente.

«Buongiorno» borbottò riprendendo fiato dalle nostre effusioni. «Ti preparo un caffè».

«Va bene, ti raggiungo» gli dissi guardandolo allontanarsi. Fumai l'ultimo tiro di sigaretta prima di spegnerla nel posacenere.

Passammo quella giornata come tante altre, aspettando Ginevra. Non c'era fretta, solo la sensazione di essere insieme e di proteggerci l'un l'altro. Il Commissario, a cui avevo raccontato con calma tutto ciò che poteva essere utile su Marcello e a cui avevo mostrato l'agendina nera con nomi e numeri, sarebbe arrivato nel pomeriggio, verso il tramonto. Ginevra ci aveva raccomandato di restare il meno possibile fuori casa e di non parlare con nessuno, anche se i nostri vicini erano distanti un paio di isolati. Avevo letto tutte le pagine di quel libricino nero, avevo riconosciuto alcune persone che mi erano state presentate a cene o ad altri eventi mentre altri numeri erano codici di banche straniere, o almeno così aveva detto Ginevra. C'erano numeri su numeri che solo uno specialista in criptologia avrebbe potuto decifrare. Prima di cena e dell'appuntamento quotidiano con il Commissario, decisi di fare una passeggiata, promettendo a Valerio di restare nelle vicinanze, tra i campi circostanti. Indossai un paio di scarpe comode e presi il suo giubbotto, poi uscii dalla casa.

L'aria fresca, pulita e quasi pungente mi rincuorava. Il sole era basso e il cielo si tingeva di rosso e arancione. Mentre camminavo, iniziai a riflettere sulla mia vita. Ero passati diversi giorni dalla fuga da casa Murgia, ma il pensiero di lui mi perseguitava ancora. Non riuscivo a liberarmi completamente dalla sua presenza. C'era ancora molta paura dentro di me, il timore che Marcello potesse trovarmi e farmi del male. Continuai a camminare lungo il sentiero senza una meta precisa, ammirando i campi di grano e gli alberi sparsi per la campagna. Chiusi gli occhi per un attimo, ma come un gatto sentii il suono delle ruote di una macchina che sfrecciava sull'asfalto, lontano. Allungai lo sguardo per cercare di intravedere il modello dell'auto, cercavo di capire se fosse quello di Ginevra, ma invece vidi una macchina nera con i finestrini oscurati, grande, forse un SUV. In quel momento mi resi conto di essere in pericolo, accelerai il passo verso casa, cercando un riparo, ma mi ero allontanato troppo, distratta dai miei pensieri.

La macchina si stava dirigendo verso di me e si avvicinò rapidamente. Iniziai a correre, abbandonando la strada asfaltata per cercare rifugio nella campagna. Il mio cuore batteva come un tamburo, sincronizzato con i miei passi veloci sull'erba. Il terrore di essere catturata mi invase. Il terrore di essere presa mi invase. Marcello mi ha trovato? Come ha fatto a scoprire dov'ero? E poi pensai a Valerio, sperai che non fosse in pericolo.

Mi guardai dietro accorgendomi che la macchina stava cercando di prendermi, voleva tagliarmi la strada, allora la mia corsa si fece sempre più frenetica, ma l'auto mi raggiunse. Alle mie spalle sentii una lunga strusciata nel fango delle ruote, poi il rumore del motore lasciato acceso, un uomo nerboruto, scese dal veicolo e prese a rincorrermi. In un attimo mi afferrò, atterrandomi. Mi voltai e notai i suoi lineamenti duri, lo sguardo minaccioso, pronto a combattere. Ma ero troppo debole rispetto alle sue mani che come corde ruvide mi stavano fermando i pugni, Mi sentii in trappola, prigioniera in un incubo. Provai invano a lottare, cercando di liberarmi dalla sua presa, ma i miei sforzi non sortirono effetto. In un attimo, l'uomo mi coprì la testa con un cappuccio e mi prese di peso, scaraventandomi nel vano posteriore della macchina.

La mia mente traballava, cercando di capire cosa stesse succedendo.

«Chi siete?» urlai. «Dove mi state portando?»

Nessuna risposta, non potevo vedere né chi guidasse né l'altro che mi aveva preso come un pacco da consegnare, mi agitavo ma avevo le mani bloccate da una fascetta che mi segnava la pelle. La macchina correva veloce, sentivo le ruote strusciare sull'asfalto e poi una serie di dossi violenti e sconnessi, come se avessimo intrapreso un viottolo laterale.

Cercai di liberare le mie mani, ma era impossibile. Con le gambe scalciavo in ogni direzione e continuavo a gridare, ad inveire sperando che chiunque mi avesse notato agitarmi nella macchina sarebbe venuto a salvarmi. I due scagnozzi restarono in silenzio, senza dare alcuna risposta. Tranne per un "Taci!" seguito da un pugno che mi lasciò indolenzita la spalla per dei minuti. La macchina continuò la sua corsa fino a quando sentii il motore arrestarsi. Dopo pochi istanti di assoluto silenzio senza potermi orientare, la stessa mano rude che mi aveva rapita mi spinse all'interno di un capannone dove i nostri passi rimbombavano. A forza mi mise a sedere su una vecchia sedia con una gamba rotta che mi dava poco stabilità. Sentii aggiungere delle altre fascette per bloccarmi sia le braccia dietro il sedile sia le caviglie sul legno. Mentre provavo a dimenarmi per sfuggire allo loro presa, una, due, tre ondate di acqua putrida mi affogarono tappandomi per un tempo straziante la gola e il naso. Bloccata, infreddolita e disorientata cercai di opporre resistenza un'ultima volta, ma uno dei due carcerieri mi sorprese con un colpo improvviso al volto, che mi fece ribaltare e cadere a terra. Poi una voce si avvicinò, non potevo vederlo ma sentivo il suo alito sulla federa nera che mi copriva il volto.

«Non voglio sentire un'altra parola o vengo a darti il resto».

Capii che ero rimasta sola quando i passi dei due si erano allontanati e il suono tonfo di una porta aveva attutito le loro voci sgraziate. Con l'orecchio teso provai a capire cosa ci fosse intorno a me, sentivo in lontananza le macchine lisciare l'asfalto di una strada desolata. I suoni della natura brulla non mi dava molti elementi su cui appigliare i miei pensieri. Non riuscivo a capire dove mi trovassi, ma sentivo il terrore avvolgermi come una morsa. La stanza in cui ero rinchiusa era vuota, tranne per alcune tavole sconnesse che componevano le pareti e il soffitto che sentivo all'altezza delle tempie. Strusciai la testa su una di queste tavole fino a quando riuscii a fare uno squarcio sul cappuccio nero che mi avevano infilato sulla testa. Vidi il pavimento era di terra battuta e non c'era nessuna finestra. Tentai di alzarmi, ma le mie mani e le mie gambe erano legate con dei lacci. Cercai di urlare, ma il suono rimase bloccato nella mia gola. Respirai profondamente, cercando di mantenere la calma, ma il panico mi faceva da padrone. Presi un respiro e guardai intorno, cercando un indizio, ma non c'era nulla se non un debole fascio di luce che filtrava da una crepa nel soffitto. Mi avvicinai alla crepa, cercando di capire da dove provenisse la luce e notai la superstrada in lontananza. Mi trovavo in mezzo al nulla, in un vecchio casolare abbandonato.

Restai ferma per delle ore, forse mi addormentai per le botte e lo stordimento, in ogni caso riattivai le mie terminazioni nervose con una sensazione di malessere che mi attraversava tutto il corpo quanto i cardini della porta cigolarono. Ero terrorizzata, ma sapevo che dovevo mantenere la calma e cercare un modo per uscire da quella situazione.

Mentre ero rinchiusa in quella piccola stanza buia, senza sapere dove mi trovassi né cosa mi sarebbe successo, sentii avvicinarsi dei passi leggeri, quasi impercettibili. Una mano afferrò con violenza il mio mento tra le dita e disse:

«Adesso sei la mia prigioniera e posso fare ciò che voglio di te». Riconobbi la voce di Veronica e l'arrogante nuvola di profumo che ostentava con vanità. Ero terrorizzata, ma cercavo di mantenere la calma e resistere. Ero in pericolo, ma non credevo che avrebbe osato mettere in pericolo la mia vita.

«Perché mi hai fatto portare qui? Di cosa vuoi vendicarti?», chiesi con la voce graffiata dalle tante ore di silenzio.

«Marcello mi ha lasciata tante volte, ma è sempre tornato da me. Da quando sei apparsa tu, piccola arrivista, meschina e insignificante, hai preso tutto... Lui e anche mio figlio» rispose con un tono gelido.

«Io non ho preso né lui né tuo figlio. Anzi, sono giorni che sono andata via da casa sua».

«Brutta puttana, smettila di dire bugie» mi colpì in faccia con uno schiaffo tagliente, facendomi accartocciare ancora di più sul pavimento. «Siete stati anche a casa nostra!»

«Non avrai nulla da guadagnare con questo, Veronica. Lasciami andare, ti prego» implorai con voce tremante.

Veronica sembrava non ascoltare le mie parole e iniziò a parlare: «Mi ha detto chiaramente che non era più interessato a noi». Si allontanò di qualche passo dirigendosi verso il centro della stanza dove c'era un tavolo spoglio e degli scatoloni ammassati. «Ogni volta che si stancava della monotonia della nostra relazione, andava con una donna diversa, ma alla fine tornava sempre da me. Io ero sua moglie, la madre di suo figlio. Ma da quando sei arrivata tu, ho capito che c'era qualcosa di strano. Già a New York era distante, aveva la testa altrove, non mi guardava nemmeno. Poi a Miami doveva correre da te e non aveva tempo per noi». Sembrava avesse perso la testa con il suo vagheggiare mentre faceva su e giù intorno al tavolo. «Mi ha confessato di aver chiesto allo zio di poter firmare le carte del divorzio, perché voleva sostituirmi con te, una ragazzina sciocca e racchia».

Provai una sensazione di terrore misto a rabbia e incredulità. Come può essere così crudele e vendicativa? E soprattutto, cosa ha intenzione fare ora che mi ha rapita in questo posto isolato e sperduto nel nulla?

Sentivo il mio cuore battere all'impazzata nel petto mentre cercavo di guardarmi intorno, ma era tutto buio intorno a me. Mi sentivo completamente vulnerabile, senza avere alcun controllo sulla situazione. La mia mente correva in mille direzioni, cercando di trovare una soluzione per liberarmi, ma il mio aguzzino aveva messo delle fascette di plastica intorno ai miei polsi tanto strette da non lasciarmi nessun movimento, rendendomi completamente immobile. Cercai di mantenere la calma, di rallentare il mio respiro.

«Mi hai portato qui per vendicarti di cosa?».

«Sì, per vendetta. Marcello mi ha lasciato per te, ma ora gli farò pagare tutto il male che mi ha fatto in questi mesi, ti rimando indietro a un pezzo alla volta» concluse con un'aria diabolica.

Provai ancora a sembrare impassibile anche se il cuore mi rullava nel petto. Dovevo restare lucida per pensare a un modo per uscire da quella situazione surreale.

«So quanto male è in grado di fare Marcello, sono fuggita lontana da lui per lo stesso motivo. Perché tu vuoi riaverlo è un uomo senza sentimenti, senza scrupoli?».

«Mi basterebbe riavere mio figlio non lo vedo da mesi. Non è giusto che mi hai tolto mio figlio e sta ancora con te! Sai cosa significa portare in grembo una creatura, sentirla crescere dentro di te e poi te la portano via» come una furia mi si scaraventò addosso, aggrappandosi alle mie spalle. «Voglio farti sentire tutto il dolore che ho dentro» Urlò in una smorfia mostruosa.

«Io non voglio avere più nulla a che fare con Marcello» dissi cercando inutilmente di scrollarmi le sue unghie inchiodate nella mia pelle.

«Non farmi ridere. So che hai passato l'estate con lui e con mio figlio e adesso vuoi rubarmelo per sempre». Con violenza raccolse la mia mano ancora adornata dal vistoso anello di fidanzamento all'anulare.

«Posso giurartelo io e Marcello abbiamo chiuso. Non ho nessun interesse per lui, avevi ragione tu sono solo una ragazza di passaggio, non voglio creare problemi nella vostra vita».

«Non mi prendere in giro, Lia. So che Marcello ha cercato di convincere lo Zio a farmi firmare le carte per il divorzio perché voleva sposare te. Ma non avrai mai il suo amore, e adesso sarai punita per quello che hai fatto».

«Io non ho fatto niente di male. Per favore, lasciami andare. Non voglio solo andare via» piagnucolai.

«Non finirà qui, cara. Quando avrò visto Marcello soffrire come io ho sofferto allora vedremo chi avrà l'ultima parola» disse dandomi un altro trattone e facendomi rimbalzare in malo modo sul pavimento. La testa aveva battuto a terra e tutto il torno sembrava poco chiaro e ovattato. Vidi solo che si stava allontanando perdendosi nel buio. Passai l'intera notte sveglia, raggomitolata in un angolo, seduta sul pavimento polveroso della stanzetta in cui mi avevano rinchiusa. Mi sentivo sola e impotente, senza alcuna possibilità di scampo. Avrei tanto voluto chiamare Valerio, sentire la sua voce e sapere che stava bene. Pensai a quanto fosse preoccupato per la mia scomparsa, a quanto si stava tormentando all'idea che fossi in pericolo. Forse avrei potuto evitare tutto questo, forse avrei dovuto essere più attenta, continuavo a chiedermi.

Era troppo tardi per rimpianti. Dovevo concentrarmi su ciò che stava accadendo e cercare di trovare un modo per uscire da quella situazione. Dovevo pensare a me stessa, capire come convincere Veronica a non farmi del male. La notte sembrava non finire mai. Da lontano sentii delle voci che litigavano, erano lontane ma arrivavano fino a me, non riuscivo a distinguere il senso di ciò che veniva detto, ma riuscii a capire che qualcosa stava per succedere. Ero in preda al panico il respiro si era fermato e le gambe erano pesanti come due macigni. Sentivo la paura salire dentro, perché non riuscivo a capire cosa stesse succedendo, continuavo ad ascoltare le voci e capii che ad urlare era Marcello. Il tono della sua voce ancora di più delle sue parole mostravano quanto fosse arrabbiato, in preda alla collera.

«Toglietevi di mezzo, ho già parlato con lo Zio e per voi saranno solo guai per aver dato ascolto a quella pazza. Salvatore apri la porta e portami da lei!» abbaio.

Avrei voluto urlare, chiedere aiuto, ma non avevo più forze, avevo trascorso tutta la notte rinchiusa in quella stanza vuota, ero esausta, le labbra secche. Avevo fame e sete.

«Dottor Murgia ma non ne avevamo idea, calmatevi, sta qui dentro, non preoccupatevi non le abbiamo fatto nulla».

«Siete due buone a nulla, sapete che qualsiasi cosa dovete parlarne prima con Renato» sentii il rumore di alcuni spintoni e le travi in legno del casermone vibrarono come se un bue ci fosse finito contro. La porta si aprì sbattendo forte. Avevo il cuore che batteva all'impazzata, ignara di cosa mi avrebbe fatto Marcello dopo quella sera e sapendo che ero fuggita con Valerio. Mi chiedevo se avesse scoperto anche il nostro nascondiglio fuori Latina, se Ginevra avesse attivato le forze armate. Il terrore cucito negli occhi, affogati nelle lacrime, non riusciva a farmi ragionare.

Dallo squarcio nel cappuccio, vidi la punta delle sue scarpe fermarsi a un passo da me. Stava decidendo cosa farsene di me, se lasciarmi lì, uccidermi e seppellirmi, o portarmi via.

«È per questa qua che state a fare tutto questo casino?» sentii poi la voce pacata, un po' aspra, di un uomo. Il tono della sua voce mi sembrò quello di un vecchio, per quanto era profonda e trascinata tra i denti.

«È solo una piccola stronzetta» si aggiunsero le stridule recriminazioni di Veronica.

«Slegatela» ordinò Marcello.

La mano rude che mi aveva stretto le fascette ai polsi e alle caviglie mi stava liberando, lasciandomi il cappuccio sulla testa. Mi sentii sollevarmi dal pavimento impolverato e anche se non potevo guardalo negli occhi capii che a tenermi era Marcello. Riconoscevo il suo profumo. Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo mentre ero tenuta per il braccio.

«Tu non vali i soldi che spendo per farti andare in giro» disse quello che immaginai essere lo Zio e subito dopo aver pronunciato le sue parole, uno schiaffo colpì duramente Veronica che cadde in un pianto isterico.

Mentre il vecchio ingiuriava ancora la nipote, mi sentii trascinata. I piedi male si poggiavano a terra e quando fummo all'esterno del casolare, senza poter vedere ciò che accadeva lì dove un attimo prima ero stata prigioniera, Marcello si piantò senza aggiungere una parola. Un lampo alle mie spalle inondò l'aria di un odore di bruciato e il rimbombo cupo si spense in un attimo, con il singhiozzo sospeso della donna che mi aveva minacciato di uccidermi. Un nodo alla gola mi gelò, se non ci fossero state le braccia di Marcello a sostenermi, mi sarei accasciata su me stessa, ma con poco garbo mi sfilò il cappuccio dalla testa e mi caricò nel retro della sua macchina. Renato già teneva il motore avviato.

«Sei fuggita nelle braccia di quel vagabondo. Cosa pensi che dovrei fare adesso?» domandò retorico Marcello, senza aspettarsi realmente che gli rispondessi. «Mi avevi promesso... anzi, giurato che saresti stata mia».

Le gambe mi facevano male per quanto mi tremava il sangue nelle vene. Vidi, cercando i suoi occhi, l'ematoma nero sulla guancia, era quello che gli rimaneva del mio calcio. Le sue pupille erano vitree, per quanto erano furiose. Mentre l'auto prese a spostarsi, cercavo di non dire nulla per la paura che si scatenasse su di me. Provavo a guardarlo di nascosto, cercando di capire quale sarebbe stata la sua prossima mossa. La mascella rigida era rivolta altrove, disgustato dall'idea che ero stata io a lasciarlo. Non poteva accettarlo e tanto meno ci riusciva pensando che lo avessi fatto per Valerio. Il suo volto era una maschera di odio e risentimento.

«Mi hai tenuta lì a farmi vedere cosa succede se non sto con te» le parole uscirono piatte senza riuscire a contenerle.

«È finito il tempo in cui ti chiedo di essere mia, mi hai solo mentito!» urlò girandosi verso di me e portando il suo volto furente a un centimetro dal mio. Dopo un istante riprese il controllo, sistemandosi i baveri della giacca e ritornando al suo posto.

«Ti avrei voluto sposare e per la legge dello Zio il divorzio non esiste. Ha scelto me alla sua nipote» guardava fuori dal finestrino come se stesse parlando a sé stesso.

«Certo, ha scelto i soldi al sangue della famiglia. Gli farai guadagnare più soldi tu con tutti i suoi intrallazzi illegali» cercai di restare fredda, anche se ero un fascio di nervi.

«Veronica era solo un peso,» si girò di nuovo furente verso di me. «Uno smacco alla dignità della sua famiglia perché ripudiata dal marito. Era una psicopatica pericolosa, anche per mio figlio. E poi ha provato a togliermi una cosa mia, e nessuno può togliermi ciò che è mio! Nessuno!» urlò, ritornando ad accorciare le distanze tra noi.

«Lasciami andare» lo supplicai, cercando con le mani i suoi occhi, sperando di trovare un briciolo di anima in fondo alle sue pupille nere.

«Hai rovinato tutto. È colpa tua, è colpa tua» rivendicò, mostrandosi impenetrabile.

«Di cosa mi incolpi? Mi hai costretta tu a vivere una vita che io non volevo e non ho chiesto».

«Ti ho dato tutto, anche quello che non ero tenuto a darti e in cambio avevo chiesto solo che non mi mentissi» ritornò sul suo posto e prese a guardare il vuoto. «Il mio futuro era già stato scritto prima che nascessi, come mio padre e come il padre di mio padre. Sarei cresciuto nel vento, come le capre a cui dovevo badare, anziché andare a scuola» le sue parole erano trattenute mentre lo sguardo si perdeva lontano. «Mi dicevano che non c'era altra possibilità, eppure la mia strada me la sono costruita con le mie mani. Ho eliminato gli ostacoli uno ad uno e ho trovato il modo per imparare, ad un passo alla volta, decidendo per me cosa il destino doveva riservarmi. E adesso ci sei tu che stravolgi tutto... Mi menti, ti avevo detto che non mi avresti più dovuto mentire!» sbraitò, restando composito.

Cercai di restare calma, sembrare tranquilla come in realtà non mi sentivo, mentre lo stomaco si torceva facendomi male e le mani continuavano a tormentarsi, stringendo le unghie nella carne.

«Non ti ho mentito, Marcello. Non ti ho mai detto che ti amavo, che sarei stata tua per sempre, che sarei rimasta imprigionata in questa vita che mi hai imposto».

«Usi questa parola "amare" come se significasse realmente qualcosa. L'amore è un'invenzione dei poeti. Esiste il desiderio, al massimo l'interesse nella maggior parte dei rapporti, l'infatuazione che dura solo fino a quando non troviamo qualcosa di ancora più eccitante» mi gelò guardandomi con insistenza, spazzando via ogni possibilità di rompere la maschera di crudeltà cucita nella sua mascella rigida.

«Se non è amore quello che provi per me, perché ti ostini a volermi accanto? Perché non vuoi lasciarmi andare? Oppure adesso mi farai pagare con la vita i miei sbagli, come hai deciso per Veronica!» dissi quasi isterica, per la paura e la disperazione di non riuscire a svegliarmi dall'incubo che stavo vivendo.

«Ti ho dato tutto quello che potevo e tu lo hai disprezzato» mi guardò con malinconia, come se avesse preso una decisione che ancora non voleva farmi conoscere. «Fin dalla prima sera avrei dovuto capire che eri una ragazzina e con te avrei perso solo il mio tempo. Ho sbagliato a pensare che tu saresti stata mia.

«Mi fai paura e non mi hai mai amato. Hai solo cercato di controllarmi, di farmi diventare la persona che volevi che fossi. Ma io non sono così, non voglio essere imprigionata in una vita che non mi appartiene».

«E questo Valerio ti ama, invece?». Si scagliò su di me, schiacciandomi la faccia nelle mani e portando le nostre bocche a sfregarsi. «È questo quello che vuoi!» Urlò rabbioso.

Mi sentii in colpa per aver causato tutto l'inferno che stavo vivendo e che stavo facendo vivere alle persone a me care. Pensai a mio padre, a Ginevra, a Valerio, che probabilmente stavano impazzendo nel cercarmi. Fu allora che trovai una forza che non sapevo di avere dentro di me e per la prima volta mi sentii forte e pronta a ingaggiare battaglia. Con uno strattone mi liberai dalla sua presa e, alzando i pugni, mi misi in posizione di difesa.

«Dove hai messo l'agendina? So che l'hai presa quella notte quando sei scappata da casa,» la voce di Marcello si fece più calma, ma l'ira era ancora palpabile. «L'ho cercata nel cadavere di quel clochard, quindi devi per forza averla tu» si tirò i polsini sotto la giacca, sistemando la sua posizione sul sedile.

«So dove abita Paolo» disse afferrandomi i polsi e pronunciando ogni parola con l'intenzione di farmi capire appieno il suo significato. «Giuro che non gli lascerò vedere un'altra alba».

Impazzii all'idea che volesse far uccidere Paolo, che avesse scoperto dove si nascondeva Valerio. Gli aveva tolto la vita a causa mia e voleva fare lo stesso con il mio caro amico. Impazzi. Non avevo né pensieri né parole. Mi lanciai contro il suo petto, schiacciandolo contro la portiera con i pugni. Provai a graffiargli il viso e riversai su di lui tutto il dolore che provavo all'altezza del cuore, spezzato in due. Tutte le mie inutili proteste non fecero altro che alimentare il senso di onnipotenza di Marcello. Diventò una bestia, come quella sera in cui gli fuggii, quasi gli schiumava la bocca mentre mi stringeva con entrambe le mani il collo. Se avesse continuato per un attimo di più, sarei rimasta completamente senza ossigeno. Poi uno schiaffo si abbatté sulla mia guancia e sull'occhio, colpendo tutto il mio viso. La faccia iniziò a bruciarmi violentemente, il dolore si diffuse in tutta la testa mentre cercavo di respirare con forza per riprendere il fiato.

Il mio corpo, piccolo sotto il suo che torreggiava pulsante di rabbia, si accartocciò su sé stesso come per difendersi da un secondo attacco. Ma dopo un minuto, sentii solo uno spintone e vidi Marcello ritornare al suo posto.

«Basta, abbiamo smesso di giocare. Renato, fermati» abbaiò all'autista. Eravamo in mezzo al nulla.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro