7. Paolo

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Il petto tremava per l'assordante vibrazione delle casse ogni volta che si apriva la pesante porta d'ingresso dello Shekinà. Ero abituata a quella sensazione che faceva salire l'adrenalina nello stomaco come una matassa di farfalle, ma quella sera mi sentivo stranamente agitata. Da qualche giorno mi stavo rendendo conto di vivere il sogno che avevo desiderato, immaginato per tante notti. Marcello aveva nei miei confronti una serie di attenzioni che applicava in maniera quasi maniacale: tratteneva porte e portiere di ogni tipo per agevolarmi il passo, mi offriva sempre il braccio quando camminavamo fianco a fianco e non mancava di aprirmi il suo portasigarette Bulgari per offrirmene uno anche a me. Si alzava se entravo in una stanza, e talvolta copriva le mie spalle con le sue giacche. Avevo confuso la sua ossessione di tenermi vicino con l'amore. In un certo senso, Marcello era un vero cavaliere che seguiva ogni forma di galateo nel trattare il gentil sesso. Tuttavia, allo stesso tempo, in molte occasioni avevo potuto vedere il suo lato duro, poco incline ai compromessi e in alcuni casi addirittura violento. La sua voce si faceva roca, la mascella si irrigidiva in una smorfia che sembrava contenere molta più rabbia di quanto fosse espressa. Ne avevo paura. Mi spaventava l'idea che uno dei suoi attacchi d'ira, solitamente rivolti a coloro che lavoravano per lui, talvolta persino a Dario, potesse essere rivolto anche a me. Preferivo acconsentire a ogni sua richiesta, come la sua decisione di trasformarmi in una marionetta da agghindare e usare a suo piacimento, piuttosto che contraddirlo.

L'aria pungente della primavera, che tardava ad arrivare, mi faceva venire i brividi sulle gambe completamente scoperte dalla minigonna attillata. Aspettavo Marcello, presa da una telefonata particolarmente impegnativa che lo faceva andare avanti e indietro intorno alla macchina appena parcheggiata. Aspettavo che il nostro sguardo si incrociasse per fargli cenno che lo avrei aspettato all'interno.

«Non ti senti un po' troia a fare da reggi moccolo?» mi sbeffeggiò Paolo appena arrivato per iniziare il turno al bar.

Ruotai gli occhi verso il cielo, senza voler rispondere alla sua provocazione.

«Sembri una di quelle bambole stupide che prendevamo in giro. Hai dimenticato quante ne abbiamo dette a quelle svampite che accettavano ogni suo capriccio» continuò in tono sarcastico.

«Ciao Paolo, come stai?» risposi con la stessa acidità. «Posso fare qualcosa per te? Dimmi pure». ironizzai.

«Parli anche come quello stronzo, ti sei completamente bevuta il cervello». Usava parole pesanti e taglienti per provocarmi, cercando una lite.

«Come ti permetti di parlarmi così? Chi ti dà il diritto di giudicare ogni mia scelta?». Provai a mantenere la calma e a non alzare il tono della voce. Marcello era a pochi passi e non volevo coinvolgerlo in quella discussione.

«Be'... Lo stesso diritto che pensavo avessi fino a qualche settimana fa. Pensavo fossimo amici. Dicevi che eravamo come fratelli». Le parole di Paolo si riferivano a quando gli avevo raccontato del mio accordo con Marcello. In quel momento, Paolo mi aveva chiesto, quasi supplicato, di ripensarci. Mi aveva detto che se tenevo a lui e alla nostra amicizia, non avrei dovuto accettare la proposta di Marcello. Mi aveva posto di fronte a una scelta tra la nostra amicizia e il contratto d'affari stipulato sui sediolini in pelle di una macchina.

«Se non approvi chi frequento, come mi vesto, come mi comporto, come possiamo essere amici?». Feci un gesto di frustrazione con la mano, cercando di farlo capire.

«Perché pensi che quel pezzo di stoffa che hai addosso sia un vestito? Saresti stata meglio a rimanere in mutande, così almeno la merce sarebbe stata visibile». Mi fece un occhiolino, cercando una sorta di complicità ironica.

«Certo, perché il completino che mi hai regalato per il mio compleanno potrebbe indossarlo una suora!». Provai a ribattere, cercando di coglierlo di sorpresa.

«Be'... Allora spero solo che tu sia consapevole che quando lui» allungò il collo, indicando Marcello alle nostre spalle, «si sarà stufato di te, sarai sola, senza lavoro, senza amici. Credimi, il tempo che ci mette a portarti a letto passerà a qualcun'altra. O forse ci sei già andata a letto?». Insinuò, senza nascondere la curiosità che alimentava le sue parole.

«Paolo,» pronunciai il suo nome con tono severo, cercando di richiamare la sua attenzione. «Davvero non capisco perché ti ostini a voler mettere dei limiti su ciò che posso o non posso fare. Credi di poterti ergere a giudice e stabilire cosa sia giusto o sbagliato?». Feci tutto d'un fiato.

«Sai una cosa...». Si trattenne per un istante prima di continuare, quasi incerto sulle parole da usare. «Spero almeno che tu sia consapevole di essere diventata la nuova puttana di Marcello, perché una donna che viene mantenuta e fa da accompagnatrice non merita altro nome per me». Paolo fissò i suoi occhi nei miei, in cerca di una risposta.

Le sue parole mi avevano ferito profondamente. Non avevo niente da rispondergli se non abbassare lo sguardo. Avevo notato Marcello terminare la sua telefonata e avvicinarsi rapidamente a noi.

«Andiamo, sto gelando qui fuori». Cercai in ogni modo di nascondere gli occhi lucidi e le lacrime pronte a scendere. Era meglio evitare che Paolo si confrontasse con Marcello in quel momento. Lo conoscevo abbastanza bene da sapere che considerava lui il responsabile della nostra rottura. Se avesse proferito una parola di più, sarebbe stata solo un'occasione per insultare anche Marcello, come aveva appena fatto con me. Io lo avevo già perdonato, ma sapevo che Marcello non sarebbe stato altrettanto indulgente. Capivo che le parole de mio caro ragazzo erano dettate dalla sua paura di perdere me, ma così stava solo accelerando le cose.

«Ciao, Paolo» salutò Marcello con cortesia, raggiungendomi e prendendomi sotto braccio mentre ci dirigevamo verso l'ingresso.

Avevamo appena concluso il primo round a suo favore, ma sapevo che avrei avuto un'altra opportunità durante la serata per un secondo confronto, dove avrei fatto notare a Paolo quanto fosse stato insensibile e di cattivo gusto nel riversare il suo risentimento nei miei confronti in quel modo. Avrei cercato di rassicurarlo sul fatto che nonostante avessi intrapreso quell'avventura con Marcello, il nostro rapporto non era messo in discussione. Volevo dirgli che gli volevo bene, che era il mio migliore amico e che sarei stata sempre al suo fianco.

Appena dentro al locale, iniziai la solita danza delle strette di mano e delle conversazioni di circostanza con gli uomini d'affari con cui Marcello intrecciava relazioni di ogni tipo. Da una parte pubblicizzava il Madama, dall'altra continuava ad ampliare il suo portafoglio clienti, lavorando per conquistarli, offrendo interessanti pacchetti finanziari in cui investire. L'unico modo che avevo per sopportare l'imbarazzo di essere costantemente osservata era buttarmi in cicchetti colorati, senza nemmeno chiedermi cosa fossero. Cercai di imitare i comportamenti lascivi delle altre ragazze invitate, come me, a partecipare a quei festini a base di cocaina e champagne. Prima di stare con Marcello, non mi ero mai resa conto di quanto droga circolasse a Roma. Sembrava un rituale spontaneo, un vero e proprio must per ogni evento. Marcello, almeno ai miei occhi, non ne faceva uso, così come non lo avevo mai visto bere. Voleva rimanere lucido per poter attuare i suoi piani. Nulla doveva confondere i suoi ragionamenti. Anche durante le cene, mangiava poco, lasciando il piatto sempre a metà. Probabilmente, perfino il tempo per masticare era utilizzato solo per lasciare che i suoi ospiti parlassero.

Marcello aveva il potere di controllare ogni cosa, o almeno così sembrava, osservandolo da vicino. Non credeva nella fortuna, la plasmava e costruiva secondo i suoi desideri. Nulla era lasciato al caso, ogni sua mossa era attentamente studiata nei minimi dettagli. Non c'era spazio per errori o casualità nei suoi progetti; riusciva a prevedere ogni possibile reazione degli avversari o di chiunque si mettesse sulla sua strada. Aveva un modo straordinario di plasmare le cose senza limiti o restrizioni. Il suo spietato pragmatismo mi metteva spesso a disagio, anche solo con uno sguardo rivolto a me. Avevo l'impressione di trovarmi di fronte a un automa, capace di interpretare le emozioni ma completamente indifferente ad esse. A volte sorrideva, ma con un movimento cauto delle labbra che sollevavano appena le guance tonde e affilate sotto gli occhi. Mi chiedevo se fosse solo un gesto imitato. Mi chiedevo se avesse mai provato un brivido improvviso, se avesse mai agito istintivamente, se avesse mai sperimentato quella sensazione di follia che riempie il cuore di ossigeno e spinge a compiere gesti avventati. Più lo osservavo, più mi sembrava il David di Michelangelo, che nella sua infinita bellezza marmorea rivelava la sua condizione di semidio attraverso piccoli dettagli. Il suo sguardo era sempre rigido, fiero, concentrato, rivolto verso il nemico. Il volto impassibile, in cui solo io riuscivo a scorgere occasionali smorfie. La mascella si contraeva quando era nervoso o insoddisfatto, il pollice accarezzava il labbro inferiore quando era immerso nei suoi innumerevoli pensieri, oppure sfiorava le altre dita per poi schiacciarle quando leggeva. La lingua era sempre pronta a sfiorare i denti uno per uno quando qualcosa attirava la sua cinica attenzione. La sua ossessione per i polsini era un vezzo che si ripeteva senza tregua. Dovevano essere rigorosamente distanziati un centimetro dalla giacca, la misura perfetta per far intravedere i suoi gemelli. Ne aveva una quantità enorme, tutti conservati in un sottile cassetto foderato di velluto verde scuro nella sua stanza da letto. Ogni giorno alternava tra gli eleganti Montblanc, i vivaci Tiffany o, in occasioni speciali come quando doveva chiudere un affare importante, indossava i più prestigiosi: due piccole teste di pantera in oro e diamanti firmate Cartier. Del resto, la sua professione richiedeva di inebriare i suoi clienti con un potere luccicante di denaro.

Marcello era un venditore di numeri dorati, dati manipolati e investimenti in capitali stranieri. Era straordinariamente abile nel camminare sulla sottile linea della legalità. Nel suo portafoglio clienti figuravano imprenditori di alto livello, politici e personaggi televisivi, noti o meno alle pagine rosa dei tabloid. Aveva applicato la sua innata capacità di controllo ai mercati internazionali. Dormiva meno di quattro ore a notte, immergendosi nei numeri, nelle tendenze e nelle statistiche. Era in grado di prevedere le fluttuazioni dei mercati e la crisi economica che stava colpendo l'Europa. Nelle sue mani, la crisi si trasformava in opportunità di investimento sicuro e redditizio.

Marcello sapeva bene come guadagnare dalle cadute dei mercati finanziari, speculando su investimenti diversificati. Nei suoi registri si potevano trovare numerosi spostamenti di capitali, ottenendo così un sicuro apprezzamento, al limite del riciclaggio, mentre per sé stesso accumulava consistenti commissioni. Il suo lavoro si basava sulle commissioni: più riusciva a tranquillizzare e mostrare i vantaggi di un cambio, più sviluppava connessioni con i suoi clienti, guadagnando fiducia e denaro. Marcello poteva contare sulle liberalizzazioni dei mercati che gli permettevano di muovere capitali senza limiti e confini. Conosceva bene come sfruttare a suo vantaggio le transazioni tra i mercati asiatici e quelli degli Emirati Arabi. In pratica, il suo ruolo di consulente consisteva nell'accompagnare i clienti nel compiere i passi giusti per attraversare, incolumi, quei mercati emergenti complicati e pieni di insidie normative.

Le giornate di Marcello erano scandite da interminabili telefonate con clienti di rilievo, mentre comunicava brevi istruzioni a uno dei suoi numerosi sottoposti. Costruiva il suo ufficio ovunque si trovasse, passando rapidamente dal cantiere del Madama al sedile posteriore di una delle sue tante auto. Era solito cambiare auto ogni settimana, ma la sua preferita era l'Aston Martin, l'unica che possedeva nel suo garage, mentre le altre erano noleggiate o prestategli da amici. Allo stesso modo, si faceva accompagnare da ragazze effimere, sottili come fili d'erba fresca, belle ma prive di un particolare interesse specifico. Sobriamente, si faceva accompagnare a cene e incontri d'affari, bastava una telefonata a Rafael per ricevere come un pacco una delle modelle dell'atelier di moda.

In pratica, era ciò che stavo chiedendo a me.

Spensi nel posacenere la sigaretta, tenuta tra le dita con noncuranza e ormai fumata a metà. Paolo aveva ragione, stavo diventando la pedina di Marcello. Sentivo le gambe intorpidite a causa dei tacchi e avevo un sapore pastoso in bocca. La musica mi invadeva la testa, annebbiando i miei pensieri. Cercai un modo per districarmi e tornare dal mio caro ragazzo.

Volevo chiarire tutto.

«Mi allontano per qualche minuto» dissi a Marcello, che era troppo preso dalla conversazione per ascoltarmi attentamente.

Avrei guardato negli occhi Paolo, lo avrei costretto a capire che non importava la presenza di Marcello, nulla poteva cambiare tra noi. Il nostro legame era speciale. Eravamo legati da un sentimento di fratellanza, eravamo diventati la famiglia l'uno dell'altro. Nessuna relazione, storia o avventura avrebbe potuto rompere quel legame.

Lo Shekinà quella sera era affollato per l'arrivo di un DJ di fama internazionale. Corpi si spingevano ovunque, muovendosi sinuosamente l'uno contro l'altro, come in un girone dantesco. I corpi ballavano, plasmandosi a intermittenza sotto le luci stroboscopiche. Facendomi strada tra la folla, cercavo di raggiungere il bancone del bar. Le mani alzate, i corpi affollati che cercavano di fare ordinazioni, ostacolavano la mia ricerca degli occhi azzurri di Paolo. Provavo ripetutamente a guadagnare posizioni, ma ogni passo mi allontanava sempre di più dal bancone, come una barca in burrasca spinta via dalla marea.

Stesi la mano tra i corpi, cercando un punto di appoggio per farmi strada fino alla costa del bancone, illuminato dalle luci di diversi colori. C'erano due ragazzi, le controfigure di a me e Paolo, che facevano acrobazie con bottiglie e shaker per preparare i drink.

«Claudia!» urlai alla ragazza più vicina, cercando di attirare la sua attenzione. «Dov'è Paolo?» chiesi, cercando di sovrastare con la voce l'affollamento e la musica. In risposta, la ragazza fece un gesto all'orecchio, come a indicare che non era riuscita ad ascoltare le mie parole.

«Paolo non c'è. È dovuto andarsene» disse sporgendosi verso di me, subito dopo aver sorriso a un cliente che continuava a chiedere un drink.

Mi piantai sul posto mentre la massa di ragazzi intorno mi inghiottiva, spingendomi come un ramo portato dalla corrente. Pensai che la nostra discussione lo avesse tanto innervosito da voler prendersi una serata di riposo. Ero infastidita dalla sua mancanza nei miei confronti, mi aveva negato la possibilità di chiarire le cose. Mi diressi verso la zona retrostante, sentendo le vibrazioni continue del cellulare che cercava la mia attenzione.

Con un gesto di stizza, presi il cellulare dalla borsetta a tracolla, appesa con una catena sul lato. C'erano notifiche di chiamate perse da Paolo. La ricezione nello Shekinà era quasi inesistente. Pensai che volesse chiamarmi per provocarmi con ulteriori insulti, quindi decisi di spegnerlo. Non volevo dargli l'opportunità di riversare la sua rabbia su di me. Volevo solo chiarire e attenuare i nostri contrasti. Al telefono, le parole sarebbero state fraintese e avremmo entrambi perso l'occasione di chiarirci.

Ignorai le chiamate e tornai nel privé.

«Dove sei stata tutto questo tempo?» si preoccupò Marcello, alzandosi dal divano per accogliermi.

«Scusami, ci ho messo un po' per arrivare al bagno» dissi a Marcello, avvicinandogli l'orecchio per evitare di urlare sopra le note della musica, anche se attenuate nel privé, ma comunque alte. «Sei contento? La serata sta andando bene?»

Cercai di nascondere con un sorriso il terremoto di sentimenti che si agitavano nello stomaco.

Marcello rispose di riflesso con un sorriso, aiutandomi a prendere posto accanto a lui sul divano Chesterfield. Continuò la conversazione interrotta con i suoi ospiti e appena si sedette accanto a me, la sua mano afferrò la mia coscia incrociata con l'altra, sfiorando quasi le mie mutandine di pizzo. Mi stringeva la pelle con passione in un massaggio cadenzato e lento. Sembrava voler assicurarsi che non mi allontanassi e nel contempo godersi il tocco della sua mano sulla mia pelle. Mi sentivo come una puledra accarezzata dallo stalliere in attesa di essere domata.

La serata si concluse relativamente presto e quando uscimmo dallo Shekinà, Marcello, come al solito, mi avvolse sotto il suo cappotto per proteggermi dalla leggera pioggia. Solo due passi ci separavano dalla pesante porta nera, che ci portava alla macchina già in moto e parcheggiata più vicino rispetto a dove l'avevamo lasciata. Renato, l'autista e tuttofare di Marcello, era venuto a prenderci per evitare che ci bagnassimo.

«Tutto bene?» si sincerò Marcello, allungando un sorriso mentre entrambi salivamo nel veicolo caldo e confortevole.

«Sì» risposi con lo stesso gesto.

«Ho preso una decisione e spero che ti faccia piacere» tuonò Marcello, prendendo la mia mano e portandola alle sue labbra per baciarla. «Stasera...» riprese lentamente, dando il tempo di comprendere ogni parola. «Voglio che tu rimanga con me». Concluse alzando lo sguardo e cercando i miei occhi per valutare l'impatto delle sue parole su di me.

Sospirai profondamente, incapace di aggiungere altro. Ero felice, aspettavo quel momento da molte serate. Desideravo ritagliarmi del tempo di intimità con Marcello, sostituendo il frenetico tran tran lavorativo a cui mi sottomettevo ogni sera, con un momento per scoprire la sensazione di fare l'amore con lui.

«Va bene» riuscii a dire a malapena, emettendo un sottile filo di voce. Avrei voluto saltargli al collo e iniziare a baciarlo appassionatamente in macchina. Coprire la sua pelle con le mie mani e le mie labbra. Toglierci i vestiti e continuare con un amplesso vorticoso che avevo immaginato molte volte da sola tra le mie lenzuola.

«Vorrei chiederti un'altra cosa...» riprese lentamente, sapendo di aver catturato completamente la mia attenzione. Qualunque cosa avesse aggiunto, ero disposta ad accettarla, ero nelle sue mani con la promessa di portare la nostra relazione a un nuovo livello. «Hai mai pensato di ridurre o sospendere per un po' l'università? So quanto tempo ti occupano gli obblighi che hai con me, correre tutto il giorno dietro agli appuntamenti con Rafael...» sospirò, osservando le mie pupille impazzite di fronte alla sua richiesta. «A volte ti vedo stanca... Be', lo dico per il tuo bene. So che sembra che ti stia chiedendo molto, ma ridurre alcuni impegni potrebbe farti bene. Tutto qui». Strinse le spalle come se volesse rendere sincero il suo sottile stratagemma. Marcello sapeva di aver posto la sua richiesta come un ultimatum, utilizzando uno dei suoi giochi mentali, bilanciando dolcezza e inganno.

«Mah... Sono sempre stata disponibile, non ho mai mancato un appuntamento e credo di non aver mai deluso le tue aspettative» tentai debolmente di difendermi. Sentii il cellulare nella mia borsetta squillare di nuovo, e per un attimo staccai gli occhi dai suoi occhi neri, profondi e languidi. Era ancora Paolo.

«Be', puoi prenderti del tempo per pensarci» Marcello mi baciò delicatamente, succhiando leggermente il mio labbro inferiore e tenendo il mio viso con la mano per assicurarsi di avere la mia attenzione. «Di solito chiedo alle altre di andare, mentre a te sto chiedendo di restare». Utilizzò un altro ricatto emotivo.

«Ma mi manca solo un esame e poi la tesi» piagnucolai, in cerca della sua approvazione che tardava ad arrivare.

«Be', potresti essere meno stanca, meno distratta» aggiunse, rendendo la sua voce più cupa, quasi raggelante. Nel frattempo, il cellulare ancora tra le mie mani brillò per un messaggio vocale.

«Forse hai ragione, ci penserò» risposi avvicinandomi alla sua bocca come se volessi respirare il suo sapore di tabacco e alcol. Volevo evitare di contraddirlo o spezzare quell'incantesimo che aveva creato. Mi baciò con vigore, trascinandomi su di sé. Le sue grandi mani cercarono di afferrare il mio sedere, facendomi stare a cavalcioni. Volevo essere sua.

Il traffico scivolava lentamente, mentre Renato, come sempre riservato, non prestava attenzione al nostro baccano alle sue spalle. Eravamo un groviglio di corpi accalcati l'uno sull'altro. Lasciva, con la mente annebbiata dall'alcol, aveva la mano completamente infilata sotto la sua camicia bianca. Il leggero tessuto sulla mia pelle liscia, soda e tonica faceva vibrare tutto il mio corpo, mentre sentivo la sua mano avanzare nei miei slip. Era raro avere l'occasione di lasciarci andare a impulsi che anticipavano altro. Le sue labbra erano ovunque, tra i seni che a tratti sfuggivano pericolosamente dai vestiti. Invano cercavo di soffocare i miei sospiri ansimanti.

L'auto si parcheggiò nel garage, mentre Renato annunciò con voce monotona: «Signore, siamo arrivati».

Nell'ascensore per raggiungere l'attico di Marcello, finalmente eravamo soli. Mi strusciavo su di lui come una gatta, cercando di muovermi sinuosa, mentre con le mani potevo accarezzare ogni muscolo definito sotto la leggera camicia di cotone. Continuammo a baciarci per tutto il viaggio verticale fino al piano.

«Ti voglio, Lia». Mi sussurrò Marcello all'orecchio mentre apriva la porta dell'appartamento. Appena entrati, una testolina nera ci guardò dagli occhi grandi. Mi sentii a disagio, dovevo spegnere ogni fantasia erotica e capire perché quel bambino alto meno di un metro ci guardasse.

«Papà!» esplose il bambino correndo incontro a Marcello.

«Mi dispiace, signor Murgia, Riccardo voleva aspettarla assolutamente e non voleva andare a dormire» si giustificò la tata, avvicinandosi con un marcato accento sudamericano.

«Vieni, ti presento Riccardo» mi incoraggiò Marcello, spostandomi dall'uscio della porta e avvicinandomi al bambino che era appollaiato tra le sue braccia.

«Richie» cercò l'attenzione del ragazzino, facendolo scendere sul pavimento lucido della stanza. «Voglio presentarti una persona speciale. Lei è Lia». Concluse quando mi mise a portata di mano del bambino, che con infinita naturalezza mi tendeva la mano pronta a stringerla come un vero Murgia.

«Ciao» gli sorrisi, stringendogli la mano e portando i nostri volti alla stessa altezza. «Io mi chiamo Lia, e tu?» Ero estasiata da quanti particolari riuscivo a cogliere in quel bambino, che parlavano di Marcello. Aveva lo stesso fisico asciutto e slanciato, l'aria fiera e un atteggiamento curioso.

«Piacere» sorrise teneramente, per poi aggiungere tutto d'un fiato, «io mi chiamo Riccardo. Tu sei la fidanzata di papà?».

Restai immobile, senza sapere cosa rispondere a quella domanda lecita, mentre l'idea che quel ragazzino fosse il figlio di Marcello rimbalzava nella mia mente come una pallina da ping pong senza darmi tregua. Volevo trovare un modo neutro per rispondere, senza sminuire il nostro rapporto delicato presentandomi come un'amica o una collaboratrice, come avrei fatto con chiunque altro. Quel bambino mi richiedeva sincerità, e rispondergli sembrava davvero complicato.

«Sono... Semplicemente Lia». Gli sorrisi, sapendo bene di non poter aggiungere altro, e mi allontanai da quel confronto con la verità. Rialzandomi sulle gambe, mi ritrovai salda tra le braccia di Marcello, sperando che non mi lasciasse più. Ero certa che sarei caduta se il suo braccio si fosse allontanato dai miei fianchi. Mi teneva stretta a sé, e io restavo salda sulla sua spalla come un uccellino, con la paura di spiccare il volo.

«Richie,» disse la voce femminile della tata. «Adesso che hai salutato papà, come volevi, dobbiamo andare a dormire». La donna minuta, dalle forme rotonde, prese in braccio il bambino per portarlo nella sua stanza, ma non appena lo sollevò da terra, Riccardo iniziò a piangere. Aveva il viso in fiamme, e le sue manine si allungavano verso Marcello, come se chiedessero la sua attenzione.

«Andiamo» disse Marcello con una voce dolce e naturale, una voce che non avevo mai associato a lui. Prese il figlio tra le sue braccia, e, seguito dai passi della donna, sparì tra le stanze.

Ero sola in una casa immensa. Non sapevo come muovermi; ero stata lì solo un paio di volte, quando avevo organizzato il catering per la cena con l'avvocato Girardi. Mi avviai verso il salotto, dove la parete vetrata mi regalò una vista di luci scintillanti.

Pensai a Paolo. Potevo ascoltare i messaggi lasciati nella casella vocale. Se fosse stato sveglio, avrei potuto chiamarlo e rassicurarlo che l'indomani ci saremmo visti per chiarire tutto.

«Perché cazzo non rispondi a questo maledetto telefono?» la voce di Paolo era agitata, quasi tremante. «Cazzo, Lia, sono al Policlinico. Mia nonna è stata male. Raggiungimi, ti prego». Gelai.

La notizia dell'incidente di Enrichetta all'ospedale mi spiazzò. Il mio cuore iniziò a battere velocemente nel petto, turbandomi al pensiero di dover ascoltare anche il secondo messaggio vocale inviato un'ora dopo. Avevo deluso le aspettative di Paolo, lo avevo lasciato solo in un momento così difficile. Mi sentivo in colpa, detestavo la mia scelta di ignorare per così tanto tempo le sue chiamate, così incessanti e ripetute che avevano chiaramente mostrato l'urgenza reale di parlarmi.

«Sono dovuto andare via perché mia nonna è stata male» disse Paolo con voce monotona, piatta, come se avesse appena attraversato una tragedia. «Mi hanno chiamato quando l'avevano già portata d'urgenza al pronto soccorso. Mi ha avvisato una vicina». Continuò a spiegare mantenendo un tono freddo e distante. «Hanno dovuto intubarla, ma adesso sta meglio. Ogni volta che tu mi hai chiamato, io sono sempre stato lì per te. Stasera, quando avevo bisogno di averti accanto, quando avevo bisogno della mia amica, tu non c'eri». Sentii Paolo trattenere il respiro per un istante, poi continuò. «A questo punto non so nemmeno perché ti sto chiamando. Voglio solo dirti che hai chiuso con me. È finito. Non chiamarmi, non cercarmi. Mai più».

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