8. Miami

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La leggera tenda bianca si gonfiava e rigonfiava piano a causa della brezza proveniente dall'oceano. I miei occhi si stavano abituando con calma alla luce che inondava la stanza. La sera precedente ero rientrata in camera tanto stanca da aver dimenticato di abbassare le veneziane, anche se mi sarebbe bastato un click. Attraverso la parete di vetro che dava sul terrazzo, potevo scorgere la lunga e dorata spiaggia di Miami. Mi resi conto di non essere a casa. Ero stata fuori per meno di un giorno e non mi mancava affatto Roma. Ero in uno stato tra veglia e strascichi di sogno. Pian piano, tutto divenne più nitido e i miei pensieri iniziarono a connettersi.

Marcello si era preoccupato qualche sera prima, quando mi chiese se avevo il passaporto e se era ancora valido. Dopo aver risposto "Sì", non disse altro. La discussione si concluse rapidamente, come era iniziata. Presi la sua domanda enigmatica come una delle sue solite strane affermazioni a cui non sempre riuscivo a dare un significato e non le diedi molto peso. Aspettai uno o due giorni prima di collegare i punti, quando Marcello mi chiese di annullare i nostri impegni. Fare la valigia fu un'impresa: caldo, freddo, abbigliamento da safari o da Casinò Royale? Non sapevo nemmeno se saremmo stati via per un giorno o un mese. Lui mi disse solo che avrebbe prenotato i biglietti tramite l'agenzia e che non mi dovevo preoccupare del numero di bagagli. Era abituato a volare comodo. Il viaggio in prima classe fu un'esperienza elettrizzante: dodici interminabili ore rese più sopportabili dalla premura delle hostess, dalla possibilità di navigare online e dai liquori a volontà. Nulla a che vedere con le mie precedenti esperienze su compagnie aeree low-cost.

Dovevo alzarmi. Mi sentivo quasi persa nell'immensità del letto vuoto, nonostante l'inaspettato piacere dei tessuti freschi e morbidi sulla mia pelle. La nostra agenda era piena di appuntamenti: riunioni, pranzi, cene, feste. La stessa routine, ma su un altro continente. Non riuscivo davvero a capire perché avessimo percorso così tanta distanza per fare le stesse cose. L'inaugurazione del Madama sembrava essere diventato l'evento più clamoroso e importante del nostro paese, tanto che persino i giornali ne parlavano con toni polemici. Sembrava coinvolto un sottosegretario di chissà quale ufficio o partito, che aveva investito denaro non suo. Non conoscevo i dettagli, nonostante fossi ogni giorno una spettatrice silenziosa delle telefonate tra Marcello e l'avvocato Girardi, anche loro coinvolti in un'inchiesta. Iniziavo a capire che ero all'oscuro di molti fatti, eventi o persone, nonostante fossi l'ombra di Marcello. Ogni giorno, mi comunicava solo l'ora o il tipo di incontro, senza aggiungere ulteriori dettagli. Stringevo le mani, sorridevo e mi lasciavo guardare. Ero solo un accessorio: bello, tirato a lucido, ma inutile.

Con quella sgradevole consapevolezza, mi spostai dal comodo e invitante letto al freddo linoleum del bagno, che rinfrescò i miei piedi nudi. Mi lasciai catturare dal piacere dei getti pluridirezionali della doccia. Mi truccai con cura e indossai un abito leggero con tagli geometrici minimalisti, ma con un tocco chic negli accessori abbinati. Mi guardai nello specchio e non mi riconobbi nella perfezione dell'acconciatura dei capelli, nel trucco studiato nei minimi dettagli delle luci e negli abiti acquistati senza aspettare sconti del settanta per cento.

Lasciai la stanza con la certezza di trovarla magicamente perfetta al mio ritorno, per chissà quale sortilegio. Nella suite a due stanze che Marcello aveva prenotato, per tenermi a un semplice schiocco di dita ma senza doversi scomodare a condividere una doppia, le cameriere si percepivano ma non si vedevano. Sembrava di giocare con i fantasmi. I tavolini nell'area relax erano sempre lucidi, nonostante io e Marcello ci intrattenevamo a turno per qualche minuto fumando sigarette. I fiori erano sempre freschi e profumati. Nel mobile bar, i bicchieri erano costantemente puliti e allineati, mentre i flaconcini monodose di alcolici vuoti venivano sostituiti con quelli pieni.

Vidi Marcello seduto al tavolo, leggere diverse testate giornalistiche italiane e non, accompagnato dalla sua inseparabile cartellina di pelle, dove di tanto in tanto segnava un appunto, rivedeva o correggeva documenti. Davanti a lui, sul tavolo, c'erano diverse caraffe d'argento, vassoi con brioche e cornetti, ma aveva consumato solo mezzo bicchiere di succo d'arancia.

«Buongiorno,» dissi avvicinandomi al tavolo. «Aspettiamo degli ospiti per la colazione?» Mi annoiava l'idea di dovermi applicare il solito sorriso vuoto sul volto.

«Buongiorno,» rispose Marcello alzandosi e spostando la sedia come per invitarmi a sedere. «Non sapevo cosa preferivi, quindi ho fatto portare un po' di tutto».

Avevo un sapore amaro in bocca a causa delle troppe sigarette e dei fiumi di alcol della sera precedente. Lo stomaco rifiutava il cibo solido, ormai non avevo mangiato da giorni. Riempii a metà un bicchiere d'acqua, anche se avrei preferito che fosse gin e martini per attenuare quella sensazione di intontimento post-sbornia. Sciolsi un'aspirina nell'acqua e pensai che sarebbe andata bene come colazione.

Il volto di Marcello era concentrato sulla lettura. Osservavo i suoi occhi contrarsi leggermente dietro gli occhiali che indossava solo in casa. Sembrava stanco, forse a causa del jet lag o della lunga serata trascorsa a incontrare persone. Le sue labbra si piegarono brevemente in una smorfia, mettendo in risalto gli zigomi appena pronunciati. Portò una mano alla bocca, accarezzando il labbro superiore carnoso, tracciando una linea decisa. Poi fece lo stesso con il labbro inferiore e scese al mento, dove si intravedeva una piccola fossetta a causa della barba ancora non rasata. Era assorto, tanto da non prestare attenzione alla mia vana ricerca di imperfezioni. La mano si spostò dai capelli, mossi e disciplinati con del gel. Quando chiuse il giornale, mi alzai di scatto e cercai una scusa per tenermi occupata. Ero soggiogata dal magnetismo della sua concentrazione, affascinata dalla sua bellezza perfetta, ma non volevo mostrare alcuna debolezza, già mi sentivo abbastanza patetica. Decisi quindi di avvicinarmi al suo portasigarette lasciato incustodito su uno dei mobili in wenge.

«Posso?» chiesi, sapendo già la risposta. Senza aspettare il suo assenso, accesi una delle sigarette allineate con precisione. Mi allontanai per non disturbare con il fumo. Osservavo attraverso la vetrata il mare, le onde infrangersi sulla battigia in lontananza, sembrava latte montato a schiuma.

Il fumo si librava leggero tra una boccata e l'altra, ero lì immobile, aspettando di capire come si sarebbe sviluppata quella giornata. Quali impegni, appuntamenti avrebbero trasformato tutto in un susseguirsi di spostamenti in auto, strette di mano, sorrisi, discorsi in inglese che non riuscivo nemmeno a seguire.

All'improvviso, sentii le braccia di Marcello avvolgermi completamente, il suo corpo premuto contro il mio e le sue labbra che accarezzavano il mio collo. Avevo dormito diverse notti a casa sua, ma prima la presenza del figlio Riccardo e poi la stanchezza delle notti passate insonni fino all'alba non ci avevano mai concesso un momento per noi due. Dormire a sua casa era piuttosto un pretesto per permettergli di controllare i miei movimenti, soddisfare i suoi capricci e indirettamente farmi rinunciare a seguire i corsi universitari. Stavo per perdere l'opportunità di laurearmi nella sessione estiva, se non avessi sostenuto gli esami del trimestre in corso e iniziato almeno a lavorare sulla tesi. Avrei dovuto aspettare un altro anno prima di completare il mio percorso di studi. Stavo rinunciando ai miei amici, ai miei progetti per un'ossessione. Avevo desiderato stare accanto a lui per così tanto tempo da temere di vivere solo in un sogno.

«La cosa che apprezzo di te è che parli veramente poco per essere una donna» disse Marcello.

«Lo dici sul serio...».

«Ti piace questo posto?».

«Sì, mi piace molto».

«È strano... inizio a sentire il peso di questo progetto...». Per la prima volta, durante tutto il tempo trascorso con Marcello, quella frase sembrò non avere un secondo significato. Piuttosto, sembrò l'affermazione di un uomo spogliato delle sue certezze, delle sue armature fatte di cinismo, falsa gentilezza e tanta arroganza.

«Ieri abbiamo trascorso ore interminabili a trattare con la burocrazia per ottenere i permessi necessari» si confidò. Ero consapevole di quanto il progetto del Madama fosse importante per lui. In quei mesi, tutti i suoi sforzi e il suo tempo erano focalizzati su quell'obiettivo.

Mi girai in modo che i nostri volti si incontrassero, separati solo da un battito di ciglia. Lo baciai, e questa volta ero stata io a cercare le sue labbra per la prima volta. Ero lontana da casa, a migliaia di chilometri di distanza, al di là dell'oceano, lontana dalla voce di Paolo che cercava di fermarmi, dalla disapprovazione di Carla sulle mie scelte. Ma nessuno poteva fermarmi. Volevo finalmente prendere ciò che avevo desiderato per così tanto tempo. Mi strinsi al corpo di Marcello, avvolgendo le mie mani intorno al suo busto. Con piacevole sorpresa, il suo corpo rispose con la stessa passione. Le sue braccia mi tenevano salda mentre la sua lingua esplorava ogni angolo delle mie labbra. Sentivo il calore salire dallo stomaco e una sensazione di piacere e abbandono mi invase. Le sue gambe si insinuarono tra le mie e mi sentii pronta a soddisfare il suo desiderio di me. Marcello aveva preso il controllo. Senza darci respiro, ci ritrovammo distesi sul divano, mentre le sue mani si aprirono un cammino tra i miei vestiti. Il mio corpo vibrava ogni volta che la sua pelle toccava la mia. Sbottonai la sua camicia e mi lasciai avvolgere in un abbraccio intenso per sentire la sua muscolatura dura premermi. Le sue labbra si spostarono dalle mie e si spinsero verso il basso, sui miei seni ormai liberati dalla costrizione degli abiti. Tremavo febbricitante per il piacere della sua lingua sul mio petto, per le sue mani che si insinuavano tra le mie cosce, per la consapevolezza di stare per fare l'amore con Marcello. Dal divano finimmo sul soffice tappeto di lunghezza morbida e non riuscivamo a fermarci, non potevamo rischiare di interrompere quella scintilla di passione che ci aveva travolti. Non l'avevo confessato a nessuno, nemmeno a me stessa. Non era solo attrazione fisica nei confronti di Marcello. Non ero solo rapita dai suoi gesti seducenti e decisi, non ero solo attratta dal modo in cui indossava le camicie, lasciando intravedere gli avambracci muscolosi su cui un piccolo tatuaggio alimentava la mia immaginazione al di là del cotone. Non ero solo affascinata dal calore della sua voce o dalle sue labbra morbide. Mi stavo innamorando di Marcello e per questo avevo paura. Sapevo che avrei acconsentito a ogni sua richiesta. Era l'unico modo per sperare di mantenere in vita quella strana relazione. Se fosse finita, ne avrei sofferto.

Mi lasciai andare alle mie paure, sentendomi al sicuro con le sue mani intrecciate alle mie. Mi persi nei suoi baci e negli occhi accesi di passione e desiderio che mi fissavano. Non era la prima volta che ero con un uomo, ma lui stava risvegliando parti del mio corpo che erano state sopite. Mi portò a desiderare di prolungare all'infinito il nostro intenso e travolgente amplesso. I nostri corpi si muovevano in armonia e sincronia. In un istante infinito, sentii ogni terminazione nervosa del mio corpo esplodere in un calore profondo. Il desiderio di appartenere reciprocamente non si affievoliva e Marcello non sembrava avere intenzione di interrompere i nostri eccitanti movimenti sessuali. Eravamo accalcati, completamente nudi, e il suo viso era madido di sudore. Sentivo un piacevole dolore alle labbra a causa della barba incolta, un leggero bruciore ai capezzoli, sottoposti a piccole e piacevoli torture. Non mi ero mai sentita così sua, sottomessa ai suoi desideri, in quel momento avrebbe potuto fare di me ciò che voleva, e così fece. Iniziò a non fare più l'amore con me, ma a usare il mio corpo per soddisfare il suo bisogno. Mi girò e prese a spingere il suo membro nel mio corpo senza preoccuparsi se fossi pronta o se la cosa mi desse piacere. Continuò a toccare il mio sedere dentro e fuori. Il suo orgasmo segnò la fine di tutto. Rimase senza fiato dentro di me. Improvvisamente mi sentii devastata e provata. Il suo capo si appoggiò sulla mia schiena, sentii il suo respiro in sintonia con il mio battito, all'inizio affannoso, poi sempre più calmo. Anche se non potevo vederlo, sentii che Marcello aprì gli occhi e accarezzò la pelle della mia schiena con lo sguardo, dove posò un bacio. Senza dire una parola, si allontanò dal mio corpo. Scomparve dalla sala principale della suite e, dietro la porta chiusa della sua stanza, sentii lo scroscio dell'acqua della doccia.

Mi aveva cercato, desiderato e conquistato, ma ora il suo interesse era passato altrove. I pensieri si intrecciarono con le parole di Paolo; nulla era stato tralasciato. Marcello era un predatore, il suo gioco preferito era la caccia e la mostra dei suoi trofei. Mi sentivo come un foglio ammaccato, usato e gettato in un angolo. Due lacrime si affollarono agli angoli delle mie ciglia e in breve tempo precipitarono sulle gote infuocate. Una sensazione di dolore acuto mi attraversò lo stomaco. Mi rannicchiai su me stessa, cercando di proteggermi dal dolore di mortificazione e umiliazione che provavo. Quando l'acqua smise di scorrere, feci forza sulle gambe tremanti e mi rifugiai nella mia stanza. Non volevo dargli la soddisfazione di vedermi abbattuta e persa. Mi feci un'altra doccia, cercando di confondere le lacrime con l'acqua che colava dal rubinetto di acciaio lucido. Le gocce cadevano con forza, mescolandosi a quelle che scivolavano via dai miei occhi. Non riuscivo a smettere. Stupida, continuavo a ripetermi. Ero stata io a immaginare altro, per Marcello ero poco più di una donna da usare a suo piacimento, ogni romanticismo era superficiale e inutile. Mi vestii lentamente, ancora sentendo le sue mani su di me.

Toc, toc. Marcello bussò alla porta e senza aspettare che aprissi, disse: «La macchina è arrivata, ti aspetto nella hall».

Sentii i suoi passi sordi sulla moquette allontanarsi. Marcello era sereno e soddisfatto, aveva scaricato lo stress, mentre io mi odiavo per avergli permesso di usarmi come una stupida bambola. Il sole aveva inondato la stanza con una luce dorata che non lasciava spazio alle ombre. Il lenzuolo bianco ancora visibile sul letto disfatto quasi brillava, e guardando il mare al di là della parete vetrata, desiderai ardentemente tuffarmici dentro, sfuggire agli impegni ai quali avrei dovuto partecipare, senza capire nulla. Marcello, con il suo fluente inglese, intratteneva gli ospiti, mentre io non potevo fare altro che sorseggiare orribili caffè lungi di giorno, amari aperitivi durante l'happy hour e ubriacarmi di notte in serate interminabili. Rimisi il trucco e presi la pochette, infilando la chiave magnetica all'interno, prima di uscire. Mentre uscivo dall'ascensore, indossai degli occhiali da sole per nascondere il viso. Avevo paura dei segni delle mie lacrime negli occhi gonfi o sulle gote infuocate. Mi sentivo quasi come una Vamp, pronta a nascondermi dai flash dei paparazzi.

«Sei bellissima» mi disse Marcello con aria ammaliante, avvicinandosi a me.

Provò a baciarmi, ma istintivamente mi ritrassi, quel mio gesto inatteso dipinse sul suo volto un'espressione di risentimento, che presto fu sostituita da una mascella irrigidita, come quando era nervoso perché i suoi capricci non venivano soddisfatti. Lo superai senza aspettare il suo braccio, lanciandomi verso l'uscita dell'hotel. Il concierge mi disse qualcosa, ma risposi senza capire, con un debole sorriso. Osservai una lunga fila di macchine scure parcheggiate davanti e, non sapendo quale fosse la nostra, capii che non potevo fare altro che aspettare. Dopo pochi secondi, fui raggiunta da Marcello, intimorita e raggelata dal suo sguardo penetrante, che riuscivo a percepire nonostante gli occhiali scuri. Mi chiesi come poteva essere così attento a certi gesti cortesi, come trattenere la portiera dell'auto per facilitare il mio ingresso, quando poi era completamente indifferente ai miei sentimenti. Mi considerava un oggetto con cui divertirsi all'occorrenza e mostrare in pubblico come un bel gioiello. Piuttosto che baciarlo, avrei voluto sciogliere la sua rigidità marmorea con un abbraccio e supplicarlo di vedermi per quello che ero: una donna innamorata in cerca di un po' di attenzione. Probabilmente mi sarei trovata a stringere una statua di marmo o sarei stata respinta come avevo appena fatto io. Di certo, Marcello non era il tipo che mostrava debolezze. Credere di poter cambiare la sua natura sarebbe stato come perdere una partita a tavolino. Lo avevo osservato nelle settimane trascorse insieme, manifestare ostinazione, tenacia e un'inclinazione indomabile a restare fermo sulla sua posizione. Accettava solo le sue condizioni, erigendosi come l'unico giudice per dettare le regole del gioco. Questo valeva per ogni aspetto della sua vita, sia nel lavoro con i suoi dipendenti, i clienti e gli avversari, sia nelle relazioni personali.

«Dove stiamo andando?» chiesi, cercando di mantenere un tono neutrale.

Nessuna risposta.

Marcello era assorto, con lo sguardo fisso sul display del suo tablet. Cercai quindi di attirare la sua attenzione, appoggiando delicatamente la mia mano sulla sua. Si creò un istante di silenzio, ma il suo sguardo non si volse verso di me. Poi, lentamente, prese la mia mano e la portò alla bocca, baciandola senza staccare gli occhi dal dispositivo. Il suo messaggio era chiaro: stava lavorando e non voleva essere disturbato da inutili domande. Alla fine, anche se avessi saputo dove ci stavamo dirigendo, cosa sarebbe cambiato? Decisi di distrarmi prendendo lo specchietto dalla pochette rigida a bauletto. Notai le labbra gonfie, a malapena nascoste dal rossetto. Erano chiari segni del pianto e sperai di non dover rinunciare agli occhiali almeno per un paio d'ore. Arrivati a destinazione, presi il mio solito posto accanto a Marcello. Proseguiamo a piedi lungo un viale di ciottoli bianchi e alte palme. Restammo in silenzio, procedendo lentamente. Riuscivo a sentire il fruscio delle fronde mosse dalla brezza leggera. Camminavamo uno accanto all'altro, ma sembrava che chilometri ci separassero, ognuno immerso nel proprio risentimento tacito. Era strano non sentirmi presa sottobraccio. Stavo forse perdendo il suo interesse? Bastava, dunque, negargli un bacio per mettere a rischio la nostra relazione? Non potevo permetterlo. Mi fermai improvvisamente.

«Scusami,» dissi, sentendomi offesa ma trovandomi a chiedergli scusa. «Non sopporto di stare tutto il giorno con te senza che mi parli e con questa aria cupa». Allungai il braccio verso di lui, che era solo a pochi passi di distanza. Tornò sui suoi passi, prese il mio viso tra le sue mani come per impedirmi di ritirarmi di nuovo e mi baciò. Fu un bacio morbido e delicato.

«Dobbiamo andare». concluse prendendomi per mano e insieme raggiungemmo la porta in vetro e acciaio di fronte a noi.

Iniziarono le consuete strette di mano e i calorosi saluti. Marcello stava espandendo la sua cerchia di conoscenze per rientrare negli investimenti messi a disposizione per il Madama. La prima tappa ci condusse in una terrazza affacciata sull'oceano, dove ci sedemmo per sorseggiare un drink analcolico. Tutti aspettavano qualcuno, oltre a noi. Gli altri uomini in giacca e cravatta sembravano tesi. A differenza delle altre volte, Marcello continuava a tenermi per mano durante tutto il tempo, come se temesse che scappassi. In un certo senso, poteva essere vero: la mia mente era lontana e completamente assente. Grazie al sole alto avevo tenuto gli occhiali, del resto la terrazza quadrata era ombreggiata solo in parte da una spettacolare struttura di sostegno simile a una ragnatela, realizzata con sottili fibre metalliche e elementi lucidi ispirati ai rami degli alberi. I miei pensieri si tuffarono nell'oceano. Avrei voluto avere l'attenzione di Marcello per potergli parlare e chiedergli conferma di ciò che pensavo. Ormai era chiaro: ero solo la sua puttana, utile solo per alleviare lo stress. Ero diventata un'accompagnatrice, da usare a suo piacimento per il sesso. Mi stavo innamorando di un uomo che mi considerava praticamente nulla. Come avevo potuto gettarmi via in questo modo? Mi rimproverai. Ero stata abbagliata dai lustrini e incapace di rifiutare le sue richieste, e a quel punto mi trovavo in una situazione difficile. Non sarei riuscita a sopportarlo a lungo, ma non volevo rinunciare a lui. Dopo meno di mezz'ora, tutti gli presenti si alzarono entusiasti all'arrivo di altri due uomini che sembravano usciti da un film gangster hollywoodiano. Erano rozzi e kitsch, indossavano grossi e vistosi collane d'oro. Le loro facce non sembravano quelle di rapper o DJ che cercano di dare un tocco di street al loro style, ma dei veri e propri delinquenti. Parlavano in inglese con molti slang e frequenti "fuck". Non capivo completamente cosa si stessero dicendo, ma le loro frasi non sembravano pacifiche. Colsi solo alcune parole sconnesse, come "Sanna" pronunciato da Marcello. "Money, money", ripetuto dall'altro uomo in modo ossessivo, sembrando il più importante dei due. Infine, "coca", capii a cosa facevano riferimento soprattutto quando un altro individuo proveniente dalla stanza accanto porse a Marcello e a me un tagliacarte con un po' di polverina bianca, gesto fatto con tanta spontaneità come se stesse servendo un tè con biscotti.

Da quanto avevo capito, Marcello stava agendo come intermediario tra i due spacciatori e gli uomini in giacca e cravatta. Quindi, potevo aggiungere al suo curriculum una nuova esperienza lavorativa: narcotraffico. Era come un'intermediazione finanziaria, con venditori e acquirenti, e Marcello fungeva da consulente per entrambe le parti.

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