Fuoco come acqua

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La donna aprì gli occhi.

Lasciò scorrere lo sguardo sulle pareti di pietra della cella in cui era stata buttata, seguendo il profilo umido delle chiazze di muffa e soffermandosi sulla minuscola feritoia da cui era possibile scorgere il leggero brillare delle stelle e la soffice luce lunare. Era in trappola.

Prese un respiro profondo e, ignorando un'improvvisa fitta al costato, si alzò in piedi con le gambe che le tremavano. Coprì a fatica il breve tratto che la separava dalla feritoia, aggrappandosi alla parete a ogni nuovo capogiro, e provò ad allungare una mano verso il lontano frammento di cielo; si rese conto con una punta di disperazione che, anche se fosse stata abbastanza alta per aggrapparsi alle sbarre, non sarebbe mai riuscita a scappare attraverso quella lacerazione del muro, bassa quanto una spanna e larga circa il doppio.

"Da qui non si fugge."

La donna si voltò con uno scatto, maledicendosi per la sua disattenzione e portando una mano al fianco. Si lasciò sfuggire un'imprecazione nel rendersi conto che l'avevano disarmata prima di buttarla lì dentro.

"Sta' calma..." mormorò la voce del prigioniero ancora nascosto nell'ombra. "Non sono pericoloso."

"Allora perché non ti mostri?" sibilò lei a fatica. Si appoggiò al muro con le spalle, le mani serrate a pugno e pronta a combattere se fosse stato necessario.

L'altro rimase in silenzio, sgusciando fuori dal nascondiglio con i palmi rivolti verso di lei. Quando il profilo ruvido dell'uomo si immerse nel velo di luce proveniente dall'esterno, la donna non riuscì a trattenere una risata strozzata al pensiero che gli antichi dèi avessero un discreto senso dell'umorismo; oltre ad aver manovrato i fili del destino per farla catturare, avevano deciso di farle scontare gli ultimi giorni della sua vita terrena in compagnia di un coral. La rete di tatuaggi azzurrini che gli scorreva sulla pelle, coprendogli le braccia muscolose e sottolineandogli i tratti del volto, era un indizio fin troppo eloquente. Oltretutto, era certa che alla luce del giorno la massa di capelli lunga fino alle spalle e la barba corta si sarebbero dimostrate bionde, mentre i grandi occhi dalle iridi nere sarebbero diventati di un blu intenso – come quello del mare, dicevano sempre i suoi compagni, facendole provare fitte d'invidia al pensiero che lei, la distesa d'acqua salata, non l'aveva mai vista.

L'altro lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, le labbra arricciate in una smorfia. "Una cirment?"

"E tu sei un coral" replicò lei, lasciandosi scivolare a terra. "Ironico."

L'uomo aprì la bocca in un ghigno. "Non c'è nulla di ironico" disse, muovendo un passo nella sua direzione. "Non hai idea di come sia questo luogo."

Lei strinse i denti, la rabbia che subito iniziò a scorrerle nelle vene, incendiandola e ricordandole l'errore che l'aveva condotta lì. "Dici, fiorellino? E allora perché non me lo spieghi dall'alto della tua profonda saggezza?" sputò, provando ad alzarsi. Le gambe, però, non ressero lo sforzo e la fecero crollare con un tonfo sordo che venne subito seguito da un fiume di imprecazioni.

"Penso avrai modo di scoprirlo domani, demone" disse lui, chinandosi verso di lei. Si fermò a un palmo dal suo viso, gli occhi socchiusi e le labbra secche piegate in una linea dura. "Sei ferita."

L'altra alzò un sopracciglio. "E quindi?" sibilò sprezzante, indecisa se allontanarlo con una spinta ben assestata o se scivolare di lato. Un'ulteriore fitta, però, mise fine alle piccole macchinazioni, portandola a gemere.

"Potrei aiutarti, sai?"

"Tu e il tuo aiuto potete andare a farvi fottere."

L'uomo si lasciò sfuggire una risata sommessa e scosse la testa, per poi allontanarsi. "Vedremo come la penserai domani."

Detto questo tornò a nascondersi nelle ombre all'angolo opposto della cella, lasciandole addosso la strisciante sensazione di aver appena rifiutato la migliore occasione di salvezza presente in tal luogo.

"Dèi, non dovreste far così" si ritrovò a pensare, sdraiandosi a terra e chiudendo gli occhi, il sonno che subito l'avvolse.

La mattina seguente la donna fu svegliata dallo sbattere di una daga sulle sbarre della cella.

Si alzò a fatica, il dolore che si era trasformato in un pulsare sordo, e si lasciò incatenare dalla guardia assieme al coral, il cui aspetto alla prima luce del giorno appariva conforme alle sue supposizioni: biondo, occhi blu... solo la carnagione abbronzata la lasciò per un momento perplessa.

Decise di permettere alla mente di inseguire possibili risposte, il corpo docile come quello di una marionetta nelle mani dei carcerieri, che la trasportarono fino a un carro dove si trovò pressata tra altri prigionieri. Seguì poco attenta la lenta processione fuori dal fortino in cui era stata rinchiusa, per poi concentrarsi sul profilo delle montagne che brillavano in lontananza; riusciva a immaginare dove si trovasse – il caldo torrido che saliva dal terreno poteva indicare che erano prossimi al deserto –, ma non a capire a cosa sarebbe andata incontro. Solo quando i carri si fermarono riuscì a comprendere: davanti agli occhi, socchiusi a causa del riverbero del sole, riusciva a scorgere il profilo di una strada in costruzione, quel collegamento sicuro tra Hydrus e l'Oltre a lungo millantato da Everett.

"Benvenuta all'inferno, demone" le sussurrò il compagno di cella all'orecchio, prima di precederla e andare a mettersi in coda dietro ad altri prigionieri. Secondo una logica nota solo alle guardie, ad alcuni come lei e il coral vennero dati dei picconi per andare a spianare il terreno su cui altri, invece, avrebbero dovuto portare malta e bianche lastre di pietra levigata. Mimando i movimenti dei detenuti, andò a posizionarsi dove la terra era ancora brulla; una guardia le legò la caviglia sinistra a una catena, così come a tutti i condannati al suo fianco, e poi urlò loro di mettersi a lavoro, sottolineando le parole con uno schiocco di frusta.

"E sia" pensò, stringendo il piccone tra le mani. La fatica fisica non l'aveva mai spaventata, così come il calore asfissiante in cui era immersa era parte della sua stessa natura, quindi iniziò subito a lavorare. Una lenta picconata dopo l'altra, ora dopo ora, lasciò che la testa seguisse i percorsi che più le aggradavano, pur di allontanarsi: la cattura avvenuta nei bassifondi di Lumien, le parole con cui Cain l'aveva convinta a imbarcarsi nella missione, squarci di una vita lontana dove ancora era felice, il primo sangue versato... e gli occhi blu del compagno di cella. Li sentiva bruciare sulla schiena, più caldi dei raggi del sole, ma non aveva la forza di voltarsi per ricambiare il suo sguardo con uno altrettanto sprezzante.

Doveva solo continuare a lavorare, altrimenti sarebbe finita come l'uomo vicino a lei, con la schiena aperta in infinite piaghe a causa del sibilare della frusta e la gola secca per le urla disperate lanciate al cielo. Poteva solo stringere i denti e andare avanti.

"Darei il mio braccio un otre d'acqua."

La donna sollevò lo sguardo sul compagno di cella, appoggiato al muro opposto a quello su cui si trovava lei e con le dita intente a sciogliere i nodi dei capelli. Schioccò le labbra, una mano ferma sul costato, e scosse la testa. "Prima mi parli d'inferno, poi fai il vanitoso. Sei un essere strano, fiorellino."

"Dumneal" replicò lui con un sospiro, la luce della torcia appesa fuori dalla cella che si rifletteva nei suoi occhi creando un contrasto di fuoco e acqua. "Mi chiamo Dumneal, demone." Si alzò in piedi, raggiungendola con poche falcate, e rimase a squadrarla dall'alto al basso, un sorriso stanco appena visibile sotto la barba. "E l'acqua sarebbe utile non solo a me, ma soprattutto a te. La mia offerta è ancora valida."

Lei lo osservò in silenzio. Si sentiva spossata e le braccia erano un reticolo di fitte muscolari, anche se il peggio erano le mani, coperte di fiacche e sangue; una piccola parte fu sull'orlo di cedere alla tentazione, ma l'orgoglio e il repulso al pensiero delle dita del coral che scorrevano sulla sua pelle furono più forti della stanchezza.

"Togliti quella casacca lurida e fammi vedere la ferita" insisté intanto Dumneal, sedendosi davanti a lei. "Se s'infetta non potrai sopravvivere a lungo."

"No."

L'uomo si passò una mano sulla faccia, mormorando qualcosa d'incomprensibile sottovoce; forse qualche imprecazione, pensò la donna. Dumneal, però, si sporse verso di lei con uno scatto talmente rapido da lasciarla pietrificata; le afferrò il mento e la costrinse a guardarlo negli occhi, il cuore che subito prese a battere a una velocità impossibile da sopportare.

"Perché vuoi aiutarmi?" sussurrò, sostenendone lo sguardo e inumidendosi le labbra. "Non ha senso. Fuori i tuoi simili mi ucciderebbero senza pensarci due volte."

"Non ha senso volere rimanere umano?" replicò lui, sciogliendo la presa. "Fammi vedere la ferita."

Fu un'ulteriore fitta a convincerla a togliersi la casacca, rimanendo coperta solo dalla fascia che le sosteneva il petto. Dumneal tornò ad avvicinarsi con cautela, quasi avesse il timore di venire scacciato con forza, e, dopo essersi reso conto che la donna non l'avrebbe allontanato, sfiorò con la punta delle dita lo squarcio che si apriva sotto il seno sinistro; subito dei brividi le corsero lungo la spina dorsale davanti a quel tocco delicato.

"Bisogna pulirla" disse Dumneal, guardandola. "E bisognerebbe mettere dei punti."

"Cose entrambe improbabili, non trovi?" replicò lei, il tono più duro di quanto avesse voluto. Sapeva fin troppo bene che la ferita era grave – l'odore sgradevole, le fitte, il sangue misto a pus e sudore che aveva sentito colarle sulla pancia nel corso della giornata... tutto indicava che c'era poco da fare. Non che potesse aspettarsi nulla di diverso, vista la pugnalata infertale a tradimento; se nel momento della cattura non avesse indossato la spessa corazza di cuoio duro, sarebbe morta sul colpo.

"Solo la seconda" specificò lui, alzandosi per andare ad afferrare la scodella vuota in cui prima i carcerieri avevano lasciato loro del cibo. Dopodiché si sedette a gambe incrociate vicino al muro e appoggiò il contenitore davanti a lui, per poi chiudere gli occhi e salmodiare qualcosa sottovoce. La donna rimase in silenzio, inclinando appena la testa per ascoltare meglio come la voce roca di Dumneal inseguisse parole a lei sconosciute; quasi urlò quando si rese conto che il coral stava chiamando a sé l'umidità che impregnava le pareti della cella, gocce d'acqua che in una lenta processione scivolavano verso il fondo della ciotola.

"Non è possibile" pensò, ignorando la parte di sé che scalpitava per uscire e divorare con le fiamme il miracolo che stava accadendo. Per quel poco che sapeva, pochissimi tra i coral erano ancora in grado di governare l'acqua a loro piacimento.

L'improvviso silenzio che calò nella cella la costrinse ad abbandonare simili riflessioni, mentre Dumneal si alzava a fatica e la raggiungeva con la scodella stretta tre le mani; dentro si erano raccolte tre dita d'acqua limpida.

"Sorpresa?" sogghignò il coral, mettendosi davanti a lei. "Ora stenditi."

La donna si ritrovò a obbedire, troppo stordita dal dolore e da ciò che aveva visto per obiettare. Rimase in silenzio mentre lui tornava a governare l'acqua, costringendola a scorrere sopra e dentro la ferita, così da trascinare via tutto ciò che si era accumulato nel corso dei giorni precedenti; non si oppose neppure quando le chiese di dargli la fascia che le copriva i seni, né quando la usò per bendarla con delicatezza, sfiorandole la pelle con le dita sottili e fresche. Solo quando l'uomo si allontanò da lei, distogliendo lo sguardo, uscì dallo stato in cui era caduta e si rivestì, borbottando un "Grazie" gelido.

"Come ho già detto, non potevo lasciarti in quello stato" replicò lui, alzandosi per tornare nel suo angolo.

La donna lo fermò a metà strada. "Sei un guaritore?"

"Lo ero" specificò. "Ora vedi di dormire."

"Da quanto sei qui?"

Dumneal alzò lo sguardo stanco verso di lei, le linee dei tatuaggi che gli evidenziavano gli zigomi. "Perché?"

"Vorrei capire" rispose la donna, massaggiandosi la gamba destra. Nei quattro giorni precedenti la ferita le aveva dato meno noie, ma in compenso le gambe, abituate a correre e muoversi di continuo, lamentavano la forzata immobilità e lentezza a cui erano costrette; le braccia erano anche peggio, ma aveva deciso di non pensare ai crampi che le correvano tra i muscoli.

"Quanto a lungo si può sopravvivere qui?" le chiese l'altro, il tono amaro. "Poco, demone."

"Siamo tornati ai nomignoli?"

Dumneal grugnì. "Dammi un nome con cui chiamarti, allora."

La donna non rispose, preferendo invece rannicchiarsi su se stessa e chiudere gli occhi, e le immagini della giornata trascorsa le premettero subito sulle palpebre: le guardie avevano preso tutti i prigionieri troppo debilitati per lavorare e li avevano uccisi, trafiggendoli con delle daghe e lasciando ad altri condannati il compito di rimuovere i cadaveri. Lei aveva continuato a picconare senza neppure un fremito, conscia che qualsiasi reazione l'avrebbe portata a condividere la sorte di quegli sventurati, ma aveva colto con la coda dell'occhio un movimento di Dumneal, un rapido alzarsi della testa, un tentennare che l'aveva terrorizzata più di quanto volesse ammettere. C'era stato del folle coraggio in quel gesto che il coral aveva poi soppresso, qualcosa che invidiava e la confondeva al contempo.

Non lo voleva vedere morto, ma avrebbe dovuto volerlo.

"Nessun nome, quindi?" mormorò lui a pochi passi da lei, facendola sobbalzare. L'aveva colta di sorpresa ancora una volta, cosa che la portò a digrignare i denti dal fastidio; le disattenzioni dettate dalla fatica l'avrebbero uccisa.

"Mi devi l'essere sopravvissuta a questo giorno" continuò intanto Dumneal, avvicinandosi ancora. Le passò una mano tra i capelli, scostando le ciocche rosse che le coprivano il volto. "Potresti almeno dirmi il tuo nome."

"Amnej."

Dumneal rimase in silenzio, procedendo col lavoro che si era imposto.

"Non dici niente?" chiese lei, aprendo gli occhi e scostandosi da lui per mettersi seduta. Sentiva ancora bruciare sulla pelle il tocco dell'altro.

L'uomo scrollò le spalle. "Immaginavo fossi più alta" borbottò, incrociando le braccia. "Per il resto... tutti possono essere catturati. Anche il miglior sicario del Laeiros."

Amnej si ritrovò a sorridere mesta, annuendo appena. "Anche il miglior sicario" confermò, per poi socchiudere le labbra davanti a un pensiero improvviso. "Non usciremo mai vivi da qui, vero?"

Dumneal scosse la testa, incapace di pronunciare una sola parola. Ciò a cui avevano assistito non poteva significare altro.

"Credo sarebbe meglio dormire" si ritrovò a dire Amnej, la speranza che l'oblio del sonno cancellasse almeno per qualche ora la certezza sbocciatale nel cuore. Senza aspettare alcuna risposta, si accoccolò sul nudo pavimento dandogli la schiena, scossa dai tremiti; era stata spesso vicino alla morte, ma mai l'aveva sentita fiatarle sul collo con una tale insistenza.

Sentì le lacrime pizzicarle le palpebre, ma prima che una singola goccia potesse sfuggire al suo controllo – "Non piangere, non piangere, non piangere" – si ritrovò un paio di braccia ad avvolgerla e trasmetterle un calore che mai aveva provato. Dumneal infilò il volto nell'incavo tra il collo e la spalla di lei, sussurrandole qualcosa nella sua lingua sconosciuta fino a quando entrambi non crollarono addormentati.

I giorni si susseguirono lenti, gli uni uguali agli altri. Arrivò la pioggia, benedetta e maledetta al contempo, e Amnej poté vedere il suo viso nello specchio delle pozzanghere: la pelle cinerea tirata sugli zigomi, i capelli rossi aggrovigliati e luridi, le labbra spaccate come la terra su cui lavorava, le profonde occhiaie a sottolineare lo sguardo... La pacata consapevolezza che lesse in quell'ultimo la lasciò senza fiato, gli occhi che mai si erano mostrati piegati.

Tuttavia, andò avanti.

Tutto diventava sostenibile al pensiero che, una volta tornata nella cella, avrebbe potuto dormire rannicchiata vicino a Dumneal, il calore reciproco a farle sperare che una via d'uscita potesse esistere, che il fuoco diventasse come acqua e la terra inghiottisse le guardie. Una parte di lei aveva fame di quel contatto fisico, arrivava a desiderarlo in modo totalizzante e disperato, la sensazione che il coral potesse ricomporla a infuocarle il sangue e a costringerla a mordersi le guance per non cedere.

"Non dovrei" pensò, impegnata a osservare Dumneal intento a plasmare l'acqua colata dalla feritoia in un piccolo drago. "Eppure..."

Amnej si concentrò nel seguire le rughe di concentrazione che gli increspavano la superficie della fronte, scivolando poi lungo il naso aquilino, le labbra socchiuse in respiri sottili e le dita callose piegate. "Eppure..."

"Dimmi una cosa" le disse, costringendola ad abbandonare il filo dei suoi pensieri. "Ma è vero che voi cirment sapere maneggiare il fuoco?"

La donna si ritrovò a ridacchiare sommessa, portandolo a distogliere lo sguardo dal lavoro. "Cosa c'è di divertente?" le chiese perplesso, il drago controllato dalle sue dita che si era voltato a squadrarla con un'aria altrettanto confusa.

"Nulla" disse lei, scuotendo la testa. "Pensavo al fatto che, all'inizio, anch'io mi ero fatta la stessa domanda su di te..."

Le labbra di Dumneal si piegarono in un sorriso dolce. "La tua risposta l'hai avuta. Dammi la mia."

Amnej si morse il labbro inferiore e, dopo un attimo di riflessione, chiuse gli occhi. Pensò al Laeiros, al vulcano sotto le cui pendici era cresciuta e alle prime volte in cui si era dilettata in tali piccoli giochi, unendo ai ricordi il calore che gli sguardi di Dumneal le provocavano nello stomaco; ci volle poco perché le dita formicolassero di scintille, ancor meno prima che una debole fiammella si accendesse sul palmo aperto. Aprì occhi, incontrando subito quelli stupefatti del coral, e con un pizzico d'ulteriore calore iniziò a modellare un drago, anche se di dimensioni ridotte rispetto a quello d'acqua. Quando fu soddisfatta del risultato, lo lanciò in aria, lasciandolo libero di svolazzare per qualche secondo, prima di vederlo dissolversi in una nuvola di fumo.

"Sei incredibile" mormorò l'uomo, la sua creazione che al contempo tornava a essere pozzanghera.

"Se avessi a mia disposizione un braciere... basterebbe così poco per fuggire" disse con un sospiro, la stanchezza che subito le pesò e sulle spalle. "Questo è solo un gioco."

Dumneal si alzò e andò a sedersi al suo fianco. "E cosa hai usato? Il tuo calore?"

Lei annuì, avvicinandosi involontariamente. "Eppure..."

"Ma non è pericoloso?" continuò l'altro, il viso rivolto verso il suo e così vicino da farle desiderare di abbattere ogni distanza.

Annuì di nuovo, la mente che non riusciva più a pensare. "Dammene del tuo" si ritrovò a sussurrare, le barriere che si era imposta sbriciolate davanti alla fame montatale dentro. Senza attendere alcuna replica, colmò la distanza che li separava, il coral che si era mosso in contemporanea, guidato dallo stesso istinto. Si aggrapparono l'uno all'altra famelici, consumandosi le labbra a vicenda fino a quando, con un verso strozzato, Dumneal l'allontanò da sé per costringerla a rannicchiarsi sul suo petto. Non potevano.

"Vorrei avere più tempo" mormorò Amnej, sfiorandogli le labbra con le dita, non ancora sazia.

"Anch'io."

Erano trascorsi venti giorni da quando aveva messo piede per la prima volta sulla strada, venti giorni in cui il suo spirito aveva resistito a tutto il possibile.

Quella mattina, però, Amnej si rese conto che c'era qualcosa di diverso nell'aria di nuovo rovente, qualcosa che le faceva tremare le gambe ancor più della fatica. Forse era la guardia dietro di lei, capace di osservarla con occhi lascivi nonostante le condizioni pietose in cui versasse, o forse era solo un presentimento di quelli malvagi. Fu a causa di ciò che non si stupì quando l'uomo si avvicinò e le afferrò il braccio, facendole scivolare il piccone dalle mani.

"Sei bella per essere un mostro, sai?" le disse, passandosi la lingua sulle labbra. "Potrei darti un pasto decente, vestiti migliori... potrei aiutarti."

Lei, ignorandolo, fece per chinarsi a raccogliere il piccone, ma l'altro la strattonò. "Non hai sentito?" le chiese, gli occhi scuri che saettavano maligni.

"Ho sentito."

Si liberò dalla presa, pronta a tornare a lavorare, ma l'uomo le bloccò un braccio dietro la schiena. "Io ci ho provato con le buone, puttana" sibilò. "Ora mi seguirai con le cattive."

Amnej provò a ribellarsi, ma non fece in tempo a muoversi che vide spuntare tra gli occhi della guardia il freddo metallo di un piccone, Dumneal dietro col volto imbrattato di sangue. Sentì un urlo di avvertimento salirle in gola, ma altre guardie li raggiunsero prima ancora che potesse lanciarlo. Fu buttata a terra, mentre il coral, con gli occhi puntati nei suoi, quel mare che mai aveva visto ad amarla per un ultimo attimo, fu trafitto da una daga; le cadde davanti, le labbra che trovarono il tempo di sussurrare un'ultima parola.

"Perdonami."

Apatica, con ancora lo sguardo di Dumneal a bruciarle le vene e delle lacrime a solcarle il viso sporco di polvere, lasciò che gli uomini la voltassero, strappandole i vestiti e ridendo sguaiati, pronti a dar vita a un nuovo scenario d'orrore.

Amnej chiuse gli occhi.

Angolo autrice:

Forse dovrei chiamarmi stronza, piuttosto che Rebecca.

Però, insomma, quando ho visto il contest I <3 20s indetto da ClubInchiostro a inizio 2020, per quale era richiesto di scrivere una storia incentrata su uno specifico tipo di amore - io ho scelto il disperato - e contente il numero venti, non ho potuto fare a meno di tornare con la mente al 2013 e alla gloriosa prima storia scritta per un contest di Efp: Odi et Amo

La prima versione è ovviamente illeggibile, tanto che a posteriori non riesco a comprendere in alcun modo come possa averlo vinto. Sì, l'idea era caruccia e ho scritto robe peggiori dal punto di vista morfosintattico, ma a rileggerla mi sono sentita male per i cliché, le battutine, la sviolinata retorica finale e altre schifezze. Bleah

In ogni, ne ho ripreso l'idea di base e ricostruito i punti salienti, approfondendo dove era necessario. La trama ha preso una piega di gran lunga più cupa - e io continuo a sentirmi in colpa per il finale -, ma nell'insieme sono tuttora soddisfatta, visto che mi rappresenta bene sia per lo stile che per i temi. Non sono una grande simpaticona, insomma.

Fatemi sapere cosa ne pensate!

Rebecca

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