Colosso (II)

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Nel corso della sua vita, Xetos aveva sempre guardato alle montagne con timore. La mattina apparivano come un blocco lontano e indistinto che ricordava sempre a tutti dove si trovava l'est, dov'era l'Oltre, unico punto fermo in un deserto mutabile e capriccioso. Al tramonto, però, i caldi raggi del sole le tingevano di un rosso cupo, sanguigno, facendole diventare la rappresentazione dei denti di tutti i mostri di cui parlavano sempre gli anziani, mentre le stelle, appena sorgevano, disegnavano nuove ombre sui loro profili, facendole sembrare un ammasso di giganti accartocciati su se stessi.

Da bambino, quando ancora i capelli non erano ancora così rossi del peccato della madre, ne aveva avuto paura. Le percosse e i tagli gli avevano poi fatto capire che ciò che era bene temere era altro, non un mucchio di rocce raccolte al limitare del deserto, ma non era mai riuscito a scacciare del tutto l'inquietudine attecchita nel cuore.

"Perché cammini a piedi nudi?" chiese ad Asif, tornando a guardare la sabbia che scorreva sotto i sandali. Più la distanza dalle montagne si riduceva, più sentiva crescere dentro di sé un denso grumo di paura che gli pesava sullo stomaco e gli sussurrava tra i pensieri di scappare.

"Il dolore mi permette di rimanere in contatto con l'Oltretomba" rispose l'altro, di qualche passo davanti a lui. "I morti mi indicano la via."

Xetos scosse la testa, senza commentare. Aveva sentito parlare dei negromanti, stregoni in grado di comunicare col mondo dei defunti, uomini dai poteri divinatori immensi e capaci di giocare col tessuto stesso dell'universo, ma credeva fossero delle leggende inventate solo per mettere in guardia chiunque fosse stato benedetto dal dono della magia. Quando Asif gli aveva detto che erano stati i morti stessi a riferirgli cosa fare, però, si era piegato sotto il peso della verità: se avesse proceduto col cammino verso Lumien, l'avrebbero ricondotto nelle braccia del negromante. Nessuno poteva sfuggire alle profezie dell'Aldilà.

"Quanto credi ci vorrà ancora?" chiese, spezzando di nuovo il silenzio che chiudeva il deserto in una morsa malefica.

L'uomo sospirò. "Una giornata, o forse poco più."

Xetos continuò a camminare, il sole che batteva feroce sul deserto, rendendo bollente la sabbia e accecandoli coi suoi raggi; le montagne, sempre più vicine, sembravano quasi un'oasi di pace, con le loro creste portatrici d'ombra.

"Chi l'avrebbe mai detto, madre?" pensò, lasciando che un sorriso si formasse sulle labbra secche. "Chi avrebbe mai pensato che avrei raggiunto il luogo dove sono stato concepito?"

Aveva capito subito, nel momento stesso in cui Asif l'aveva nominata, che la città nascosta nella pietra verso cui erano diretti era la stessa che aveva riempito i suoi incubi da bambino. La madre, pensando di confortarlo, gli aveva descritto spesso quel luogo sepolto tra le montagne e gli aveva spiegato quanto fosse stato lungo e faticoso il viaggio che l'aveva portata fin lì; i racconti, per quanto carichi di meraviglia, avevano sempre rappresentato la conferma dell'essere uno sbaglio, un mostro che mai avrebbe dovuto calcare la sabbia dell'oasi. Forse ere anche a causa di ciò che ricordava ancora le esatte parole usate dalla donna l'ultima volta che ne avevano parlato.

"Credo gli antichi dèi abbiano messo tutto il loro amore nel creare un luogo simile" aveva sussurrato, accarezzando distratta i capelli del ragazzino. "Le montagne e la sabbia, due facce della stessa medaglia, s'incontrano e si fondono nella città nascosta. È meraviglioso."

Nel ricordare la riusciva a vedere davanti a sé, con gli occhi scuri persi a contemplare un mondo lontano e le labbra piegate in un sorriso dolcissimo che le illuminava il viso.

"Ciò che c'è di più bello, però, è il silenzio. In nessun luogo al mondo, nemmeno negli anfratti più profondi del deserto, ho mai sentito una pace simile: ogni più piccolo scricchiolio rimbalzava da una parete all'altra, propagandosi nel nulla e sfumando in un nuovo silenzio."

"Non avevi paura?" le aveva chiesto, pensando a quanto potesse essere terrificante la sensazione di essere soli ed esclusi dal mondo.

Lei aveva scosso la testa, facendo ondeggiare la cascata di ricci scuri sulla schiena. "No, perché c'era lui con me."

"Avrei dovuto chiederle se gli assomigliavo" pensò all'improvviso, abbandonando i ricordi sotto la pianta dei sandali per abbracciare nuove riflessioni. Nelle lunghe ore passate insieme alla madre non le aveva mai domandato di descrivergli il predone che aveva amato; aveva sempre dato per scontato di essere il ritratto dell'uomo, visti i capelli rossi che lo marchiavano. Eppure, quel legame sporco avrebbe potuto essere più flebile di quanto pensasse.

Forse era più umano, che cirment.

Forse l'odio con cui aveva convissuto non era così giustificato.

Avrebbe dovuto chiederlo.

"Ragazzo, tieni il passo!" esclamò Asif, più avanti rispetto a lui, distogliendolo da ogni altra possibile riflessione. "I morti indicano la via solo a me, quindi smettila di cercarli."

La città nascosta tra le montagne non aveva alcun nome. Xetos aveva chiesto a Asif se lo conoscesse, ma l'uomo aveva scrollato le spalle e ripreso a camminare tra le rovine con aria sicura, senza badare agli enormi edifici in pietra che si aprivano al loro fianco, mostrandosi in tutta la loro maestosità e bellezza. Templi dai grandi colonnati, case in mattoni scoperti, arene diroccate... Oltretutto il silenzio, come gli aveva narrato la madre, era totale, interrotto solo dallo scalpiccio dei loro passi sul terreno duro e secco, in parte ancora sabbioso.

"Distruggi ciò che non ha fondamenta solide, questo era stato il credo dell'imperatore" borbottò Asif all'improvviso, facendolo sobbalzare. La voce del negromante si perse tra le pareti rocciose, rimbombando e trasformandosi in infiniti sussurri. "Ora, però, tra le macerie vaghiamo senza meta" concluse, per poi fermarsi davanti a una stretta gola che sembrava diretta nel cuore pulsante delle montagne.

"Che cosa hai detto?" mormorò l'altro, affiancandosi all'uomo. "Cosa significa?"

"È la storia di questo luogo maledetto" gli rispose Asif, leccandosi le labbra e guardando la crepa con fare affamato. "Capirai tra poco cosa intendo."

Senza lasciare al giovane il tempo di replicare, s'incamminò con gli occhi puntati su qualcosa che solo lui pareva essere in grado di vedere.

Xetos lo seguì con un brivido di preoccupazione a increspargli la pelle, lanciando nel frattempo occhiate preoccupate attorno a sé; si sentiva esposto, osservato, e la sensazione pareva acuirsi man mano che si inoltravano tra le rovine, ammassi di roccia vuoti e pieni di storie impossibili da capire. Gli unici messaggi rimasti, comprensibili anche a un ibrido come lui, erano i delicati affreschi che talvolta coprivano le pareti dei corridoi in cui si infilavano: i disegni mostravano una civiltà antica, con uomini e donne che danzavano e presenziavano a banchetti alternati a scene di guerra e lotta in delle arene; c'erano anche delle iscrizioni, segni per lui incomprensibili che probabilmente narravano le gesta di chi era raffigurato.

A un certo si fermò a osservare incantato un fregio, dove la pietra era stata modellata per rappresentare un uomo vestito con una lunga toga, accompagnato da una creatura alata sopra di lui che lo incoronava e una donna ritta in piedi al suo fianco; indossava un'armatura piena di decorazioni e uno scudo era posto sotto i piedi. Eccolo, il potente imperatore che aveva portato alla rovina la civiltà nascosta nella roccia.

"Xetos, vieni qui" urlò Asif, più avanti rispetto a lui, con un tono tra l'estasiato e l'eccitato.

Il giovane allungò il passo, abbandonando di nuovo le testimonianze all'oblio. Quando si avvicinò all'uomo, fermo nei pressi dell'uscita del corridoio, rimase a bocca aperta e spalancò gli occhi dalla sorpresa: nella piana sotto di lui si apriva, immensa e alta quanto la montagna stessa, una maestosa porta scolpita nella pietra, introdotta da un quadruplo colonnato e con alla base tanti piccoli archi che si alternavano a statue prive del volto, spezzate. Il tutto era immerso in un mondo di sabbia, roccia e silenzio, interrotto solo dai loro respiri.

"Sì, sì..." mugolò Asif, passandosi le mani sulla faccia e tra i capelli con gesti frenetici, a scatti. "Siamo arrivati! Medusa, Sibilla, siamo arrivati!"

Xetos deglutì. "Ma dove?"

L'uomo si girò verso di lui, gli occhi spalancati e fissi nel vuoto e le labbra aperte in un sorriso rosso, estatico. Le mani scivolavano sul viso e sul caffettano, mai ferme e tremanti, come mosse da qualcosa di diverso della sua volontà.

"Nella città della roccia" disse, alzando la faccia verso lo spicchio di cielo che si apriva tra le montagne, per poi spalancare le braccia. "L'unico passaggio verso il regno dei morti."

Il giovane smise di respirare e lanciò di nuovo uno sguardo al maestoso varco, prima di tornare a osservare Asif che, nel frattempo, aveva messo a terra la cesta e recuperato i due serpenti; questi gli si erano arrotolati sulle braccia, un nastro nero e uno marrone che scivolavano verso il suo volto estasiato.

"E..." Xetos si inumidì le labbra. "E a cosa... a cosa ti servo io?"

L'uomo scoppiò a ridere in modo sguaiato, facendo rabbrividire l'altro, e il verso animalesco rimbalzò tra le pareti, propagandosi ovunque in una distorsione ancora più spaventosa.

Asif si fermò però all'improvviso, lasciando che l'eco si perdesse tra la roccia. "Devi uccidere i mostri" disse con un sussurro, afferrando all'improvviso la spalla del ragazzo in una morsa ferrea, gli occhi di nuovo persi a osservare qualcosa che solo lui era in grado di vedere. "Le arpie" continuò, sputando fuori il nome come un singhiozzo. "Le donne uccello."

Xetos stava per replicare che non avrebbe mai messo piede nel nido di animali simili, che lo lasciasse andar via e si dimenticasse di lui, ma le sue parole furono interrotte da un suono stridulo, come di uccello, che iniziò a ripetersi in modo cadenzato.

"Eccole" sussurrò Asif, aprendosi di nuovo in un sorriso rosso, tanto malvagio quanto folle. "Vengono a noi."

L'ibrido tornò a guardare verso la porta, da cui all'improvviso sciamò fuori un folto gruppo di figure alate accompagnate dai medesimi versi, articolati in una sorta di cantilena. Congelato sul posto sia per il terrore, sia per la stretta del negromante, riuscì a distinguere sulle figure il piumaggio di un grigio sporco, che non copriva però le ali, le quali presentavano invece una sottile membrana, e il viso che conservava ancora una vaga fattezza umana – una rimembranza di naso, occhi e bocca. La più vicina emise un nuovo grido, mostrando le fauci colme di zanne.

Le gambe di Xetos scattarono da sole.

Si staccò dalla stretta di Asif con uno strattone e iniziò a correre a perdifiato, lasciandosi alle spalle il negromante, il regno dei morti e qualsiasi altra pazzia fosse legata all'impresa a cui era stato costretto. Al suo fianco scivolarono di nuovo gli affreschi, le sottili colonne e le case diroccate che componevano la città, e il respiro affannato e il battere ripetuto dei passi risuonavano ovunque, creando una cacofonia di suoni continui e infiniti, accompagnati da improvvise grida di dolore e versi famelici.

Corse fino a quando non uscì fuori, ignorando le suppliche del compagno di viaggio unite alle urla delle donne alate. Corse fino a quando il fiato spezzato lo portò ad accasciarsi sulla terra rovente, sotto il medesimo sole che l'aveva spinto tra le braccia di Asif, e, senza cedere alla fatica, procedette puntellando i gomiti sul terreno. Non poteva fermarsi.

Si ripeté che l'infamia della fuga era nulla in confronto a quella di essere un ibrido, che se gli dèi e morti gli avevano permesso di fuggire allora era giusto che così fosse.

Intanto, nel cuore della città, Asif metteva piede nell'Oltretomba tanto agognato.

Sabbia.

Sottile, calda, dorata.

Infida.

Sempre uguale.

Come quel maledetto deserto, del resto. Come la gola riarsa, che bruciava e supplicava di ricevere almeno una goccia d'acqua. Come le visioni che si alternavano nella sua testa, in cui gli veniva mostrato Asif squartato dalle zanne delle arpie, il volto ridotto a brandelli di carne sanguinolenti e gli occhi diventati due pozze scure, vermiglie e prive di vita, mentre i due serpenti banchettavano con le sue viscere.

Lui, di nuovo, era l'unico sopravvissuto.

Gli dèi dovevano starsi sbellicando dalle risate, protetti dalle loro abitazioni dorate e opulente, mentre lui ingoiava ancora la sabbia e le lacrime che tentavano di rigargli il viso sporco e scivolare sulle cicatrici roventi. La codardia l'aveva salvato da dei mostri che avrebbe forse potuto sconfiggere, beandosi del loro sangue e godendo del rumore delle carni lacerate, e l'aveva riportato a vagare nel deserto da solo, mentre la pazzia s'insinuava tra i pensieri.

Forse era solo un ultimo regalo, una piccola vendetta da parte di Asif. O forse erano gli dèi che si erano stancati di osservare dall'alto le sue sventure, decisi a fargli subire una morte tanto crudele quanto meritata.

La sabbia, intanto, rimaneva ferma, blocco immutabile di calore rovente e disperazione, e il desiderio di acqua montava a ogni passo. Era tornato al punto di partenza, col sole che gli batteva sulla testa e lo costringeva a lottare per ogni passo compiuto. Oltretutto, scorgeva in lontananza una nuova figura, che procedeva lenta in sella a un dromedario; veniva verso di lui, Xetos lo poteva dire dal fatto che diventava sempre più grande.

Sorrise, le labbra secche che si ruppero, perché gli dèi non si erano ancora stufati della sua esistenza. Avanzò mentre l'uomo coperto da un caffettano nero si avvicinava a lui, smuovendo la sabbia e lasciando una traccia continua tra le dune, pari a un lungo serpente morto per il calore del sole.

Quando la figura lo raggiunse, Xetos non poté sottrarsi allo sguardo con lui stava studiando; gli occhi scuri, unica cosa che si scorgeva del volto coperto da un velo, non si distaccarono da lui per un tempo che gli parve infinito.

"Sei un ibrido" disse infine lo sconosciuto, la voce dal timbro cavernoso.

L'altro annuì, crollando a terra in ginocchio. "Vi prego..." sussurrò, accasciandosi al suolo, le braccia stese davanti a lui. "Non uccidetemi. Nonostante non sia umano, posso farvi da schiavo."

La risata dell'uomo lo colse impreparato, come una secchiata d'acqua gelata. Xetos alzò lo sguardo, sollevando appena la testa dalla sabbia.

"Anch'io sono un ibrido" replicò lo sconosciuto, chinandosi in avanti verso di lui. "Se tu fossi stato un umano, saresti già morto. Come ti chiami?"

Xetos rimase in silenzio, la bocca aperta in un'espressione di stupore. Ripensò al padre, all'oasi, alla vita che aveva condotto, e gli sembrò di sentire di nuovo i calci, la violenza, le ore passate a pregare anche solo per ricevere un bicchiere d'acqua. Non poteva esistere qualcuno che non lo volesse morto, non poteva.

"Ti consiglio di rispondermi."

Alzò lo sguardo sull'uomo, ora tornato in posizione eretta, che lo scrutava dall'alto con gli occhi che brillavano dalla curiosità. Forse il volto nascosto si era aperto in un sorriso.

"Colosso" sussurrò appena, ricordandosi di come sua madre lo chiamava quand'erano soli, unico dolce ricordo della sua vita precedente. "Mi chiamo Colosso."

Angolo autrice:

Colosso è una di quelle storie dalla genesi infinita, visto che ci sono voluti degli anni prima che trovassi il tempo e la giusta ispirazione per buttarla su carta.

Come al solito è stato un contest del forum di Efp nel 2018 (Raggio di Luna) a darmi la giusta spinta, per quanto la stesura sia stata faticosa e in parte ispirata a un altro contest a cui però non mi ero mai iscritta. Anche in questo caso mi erano stati dati una serie di promp con cui lavorare:

- luce

- universo affine a quello dell'impero romano

- genere fantasy

Diciamo che, escluso l'ultimo punto, non sono stata molto on point. La luce c'è, molta e dovuta al deserto, ma non è un elemento cardine, mentre dell'impero romano ho lasciato qualche accenno nella città delle montagne, ma nulla di palese se non si riconoscono le opere che ho descritto.

Oltretutto, è una storia strana. Parte e fa un lungo, lunghissimo giro che porta a una sorta di nulla di fatto, se non all'incontro col personaggio finale - che spero abbiate riconosciuto. Però, ho desiderato proprio a lungo poter raccontare la storia di Colosso, che avrei voluto approfondire fin da quando l'ho citato per la prima volta in Re, quindi trovare un modo per scrivere di lui è stato piacevole.

Spero che, nonostante tutto, sia piaciuta anche a voi.

Rebecca

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