Colosso (I)

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Sabbia.

Sottile, calda, dorata.

Infida.

Scivolava negli occhi e bruciava i polmoni, abbracciando gli sprovveduti che avevano osato addentrarsi da soli nel deserto per accoglierli sotto di sé; non li avrebbero protetti né i lunghi e pesanti caffetani scuri, né i numerosi strati di veli posti su ogni singola bocca riarsa e piegata dal desiderio di bere. La sabbia era imparziale e disposta ad accogliere chiunque si fosse mostrato troppo impavido davanti a lei: mercanti, straccioni, mercenari, nobili... Amava tutti indistintamente.

Xetos ricambiava il suo amore in modo incondizionato.

In realtà, quando ancora camminava per l'oasi cercando di nascondersi dagli sguardi accusatori e schifati che gli rivolgevano gli altri, l'aveva odiata. Non aveva fatto niente quando era stato assalito dal gruppo di uomini che gli aveva sfregiato il viso con dei pugnali ricurvi, così da mostrare a tutti chi fosse in realtà quel ragazzino alto e muscoloso, dalla pelle scura e lucida come i chicchi di caffè che le carovane di passaggio portavo verso il settentrione. Xetos aveva trascorso i giorni successivi a piangere lacrime calde e amare, sia per la vergogna di ciò che era accaduto, sia per le ferite faticavano a guarire a causa dei morsi dalla sabbia.

Non l'aveva aiutato nei momenti in cui il padre, ubriaco d'odio, entrava nella tenda per riempirlo di calci e di percosse, per poi abbandonarlo a terra come uno straccio, pieno di lividi e tagli che bruciavano a contatto con la sabbia rovente. Non gli aveva dato alcuna pace nemmeno quando era stato costretto a digiunare per giorni, con davanti a sé solo una brocca d'acqua sporca e calda.

"Gli esseri umani odiano gli ibridi."

Le sei parole erano diventate la sua ossessione, la spiegazione per ogni dolore a cui veniva sottoposto; gli altri lo odiavano per la sua natura, e lui non poteva far altro che chinare la testa e ingoiare tutte le lacrime che sentiva pronte a cadere, bloccate sull'orlo delle ciglia perché troppo preziose per essere regalate alla sabbia.

A quella maledetta sabbia.

Il settentrione gli era sembrato un paradiso. Il cuore desiderava l'Oltre, attratto dall'insieme di regni sconosciuti su cui giravano infinite storie di cavalieri, gelidi inverni e mostri, ma sapeva che sarebbe stata un'impresa al di fuori delle sue capacità già solo raggiungere Lumien, la città nascosta dal deserto. Tuttavia, ci aveva provato lo stesso, spinto dal desiderio di scappare dall'oasi che lo tollerava solo perché era il bastardo del suo signore.

"Andartene? E dove? Nessuna carovana accetterebbe un mostro del genere" aveva affermato il padre quando Xetos gli aveva chiesto il permesso di abbandonare l'oasi. "Ricordati che noi umani non vogliamo aver niente a che fare con voi ibridi. Se non fosse per tua madre, ti avrei già cacciato" aveva aggiunto nel momento in cui il ragazzo aveva provato ad aprire bocca per replicare, per poi sputargli in faccia e tornare nella tenda in cui viveva col resto della famiglia.

Sua madre...

Xetos l'aveva amata, colmato da un sentimento così puro e incondizionato da farlo sentire ubriaco.

"Tuo padre, il tuo vero padre..." gli raccontava ogni volta che lo raggiungeva nella tenda, pronta a medicarlo e a riempirlo di carezze e baci – l'unico modo che conosceva per salvarlo dalla crudeltà del marito. "Sarei dovuta scappare via con lui. Non credo mi abbia mai amata. Ero il suo trofeo nascosto, la bellezza del deserto che era riuscito a conquistare, la ragazza promessa che aveva violato... ma avrebbe amato te, ne sono certa."

Xetos faceva sempre una smorfia, muovendo con la bocca anche la rete di cicatrici che costellavano il volto. "Lui non ti amava, ma tu ami lui. Non riuscirò mai a capirlo."

"È normale, mio colosso, è normale."

Colosso, lo chiamava. Quel figlio diventato adulto troppo in fretta, ricordo di uno sbaglio dolcissimo e di una vita di libertà e felicità.

"Anche lei è morta" pensò, lasciando che lo sguardo vagasse sulle dune dorate e riarse dalla calura su cui camminava da giorni. Solo. "Solo io sono rimasto... solo io..."

Xetos alzò gli occhi verso il sole ormai allo zenit, chiedendosi perché lui solo si era salvato. Perché la sabbia l'aveva graziato? Perché gli aveva donato la possibilità di vivere, al contrario di tutti gli uomini e donne che vivevano nell'oasi? Forse era stato solo uno scherzo crudele voluto dagli dèi, annoiati dallo scorrere lento e ripetitivo della vita dei piccoli esseri umani.

"Solo io... solo io..."

Nei giorni in cui aveva vagato tra le dune, intontito da uno stordimento continuo, aveva ringraziato il padre per le lunghe punizioni in cui gli aveva impedito di mangiare e di bere. L'avevano fortificato e fatto fiorire la speranza di riuscire a raggiungere Lumien con le sue forze, accompagnato solo da una borraccia d'acqua sporca, l'unico tesoro trovato tra i cumuli di sabbia assieme a qualche telo per costruirsi un riparo durante la notte; i profili delle montagne, rimasti sempre a destra, l'avevano poi aiutato, guidandolo verso il nord e la salvezza.

"Solo io... solo..."

Ma, mentre tentava di scalare l'ennesima duna modellata dal vento, con la sabbia che gli scivolava tra le dita e lo riportava sempre in basso, si rese conto di essere stato troppo ottimista: la sabbia l'aveva salvato, ma il sole non gli avrebbe permesso di raggiungere la salvezza. Il caldo, oltretutto, gli aveva riarso la bocca e seccato la lingua, facendolo ansimare a ogni passo.

"Solo... solo..."

Xetos si accasciò a terra, incapace di continuare, e un profondo silenzio accolse la caduta. Lasciò vagare lo sguardo sulla sabbia, respirando a pieni polmoni l'aria bollente alla ricerca delle energie necessarie per procedere col viaggio intrapreso contro la sua volontà.

Voleva bere.

"Solo... sol..."

Il pensiero rimase fermo, cristallizzato, quando Xetos scorse in lontananza una figura rossa, pari a una macchia di sangue in mezzo al deserto. Forse era un miraggio, segno che ormai la pazzia si era impossessata della sua mente, ma non poteva rimanere sdraiato senza fare un ultimo tentativo.

In qualche modo riuscì ad alzarsi, senza accorgersi della sabbia che gli bruciava i palmi delle mani, e s'incamminò a fatica verso la figura, strisciando i piedi e stringendo i denti quando sentiva la testa farsi più leggera in un invito a tornare a terra. Non poteva cedere. L'uomo in rosso era reale, come gli urlavano i particolari che man mano si mostravano agli occhi: le mani nere come il carbone che spuntavano fuori dalle lunghe maniche del caffetano, i piedi nudi con cui calcava la sabbia, il vistoso turbante dorato che ne copriva il viso...

Xetos aprì la bocca nel tentativo di urlare, ma dalla gola uscì solo un suolo gutturale, secco e flebile, che fece fatica a udire lui stesso. Allungò la mano destra verso la figura e si protrasse in avanti, ultimo spasmo prima di cadere; la sabbia gli entrò nella bocca e scivolò sotto gli abiti, mentre gli occhi annebbiati cercavano ancora l'uomo, ora invisibile a causa delle dune.

"Perché?" penso Xetos, la testa leggera a causa del desiderio di addormentarsi. "Perché lotto ancora?"

Lasciò che gli occhi si chiudessero, beandosi per un'ultima volta della sabbia dorata, tanto odiata e tanto amata, che aveva fatto da cornice a tutta la sua vita. 

"Visto? Respira ancora."

Xetos aggrottò la fronte e aprì a fatica gli occhi scuri. La prima cosa che vide fu il tessuto marrone, ben tirato e attraverso cui filtravano alcuni raggi di luce, di una tenda, seguito da un paio di lunghi piedi scalzi, neri come la notte, che procedevano avanti e indietro, comparendo e scomparendo alla sua vista con regolarità.

"Lo so, lo so... dovevo fidarmi subito di voi. Pensavo fosse uno dei vostri scherzi bislacchi, ma mi sbagliavo."

Il ragazzo provò a girarsi supino, ma non fece in tempo a torcere il busto che delle mani lo afferrarono, lo misero seduto e gli porsero una borraccia, per poi aiutarlo a bere. Xetos non avrebbe mai immaginato che l'acqua potesse essere così buona; chiuse gli occhi e la lasciò scivolare nella gola riarsa come un balsamo, riacquistando un sorso alla volta parte della lucidità perduta.

"Grazie..." borbottò, la voce ancora roca, per poi guardare l'uomo che si era seduto davanti a lui a gambe incrociate. La pelle scurissima, lucida come pece bollente e piena di rughe che s'intrecciavano le une con le altre, contrastava con gli occhi di verde brillante e la barba bianca, portata corta, che gli contornava il viso allungato; il capo, invece, era lustro come una biglia a lungo usata, senza neanche un capello.

Lo sconosciuto scrollò la mano, quasi a dire che non aveva fatto nulla di particolare, e si rivolse alla sua destra. "Ringrazia me quando dovrebbe ringraziare voi!" sibilò eccitato.

Xetos seguì lo sguardo dell'uomo nel tentativo di capire chi fossero gli altri salvatori, ma incontrò solo l'anonima stoffa della tenda e un cesto di vimini chiuso da un coperchio. "Ma con...?" fece per chiedere, ma l'uomo si portò l'indice alle labbra, intimandogli di fare silenzio, per poi alzarsi e raccogliere la cesta.

"Ragazze mie, non dovreste essere così curiose. Ora vi presento, state tranquille" mormorò, sedendosi di nuovo davanti a lui prima di sollevare il coperchio con misurata lentezza. Una serie di sibili accolse il suo gesto.

"Sibilla, Medusa..." disse, estraendo dalla cesta due serpenti. Xetos spalancò gli occhi e indietreggiò, trattenendo il respiro: il più piccolo dei due era nero e sottile ed era scivolato lungo braccio destro dell'uomo, attorcigliandosi sopra; l'altro, all'apparenza più lungo, era rimasto accoccolato tra le gambe, un nastro crema dagli intarsi marroni sul carminio della tunica.

L'uomo sorrise, mostrando una fila di denti rossi e affilati. "Vi presento... Come hai detto che ti chiami?"

Xetos impallidì, un balbettio sulle labbra. "Io... io mi chiamo..."

"Sibilla e Medusa ti danno dei problemi?" chiese l'altro tagliente, stringendo gli occhi.

"No... è che..." biascicò ancora, ingoiando aria a pieni polmoni e scuotendo la testa. "Xetos... mi chiamo Xetos."

L'altro si aprì ancora nel suo sorriso scarlatto e accarezzò con delicatezza il serpente aggrovigliato sul braccio.

"Voi come vi chiamate?" chiese il ragazzo, cercando di non guardare i rettili. Miei dèi, dov'era finito? Possibile fosse stato salvato due volte per finire in una situazione ancor peggiore?

"Asif. Ma dammi del tu."

Xetos annuì e buttò un'ulteriore occhiata all'ambiente in cui si trovava, alla ricerca di eventuali armi o oggetti da afferrare per difendersi nell'infausto caso in cui il matto seduto davanti a lui l'avesse attaccato. Oltre alle stuoie su cui erano seduti, però, pareva non esserci niente, esclusa una lanterna spenta appoggiata vicino ai lembi che costituivano l'ingresso, da cui filtravano i cocenti raggi del sole; forse avrebbe potuto spaccargliela in testa, ma non credeva che sarebbe bastato a fermarlo.

"Cosa hai fatto alla faccia?" gli chiese l'uomo all'improvviso, distraendolo dai piani di fuga.

Il ragazzo scrollò le spalle, non sapendo come rispondere. Di certo non credeva che raccontare il suo passato a uno sconosciuto nel bel mezzo del deserto fosse una buona idea; avrebbe solo voluto ringraziarlo e riprendere il cammino per Lumien, non fare conversazione.

Asif, però, non era dello stesso avviso. "Ha a che fare con quei capelli?"

Xetos si portò una mano in testa e afferrò una ciocca di un rosso scuro, per poi attorcigliarla sulle dita. "Anche."

"Cosa sei?" insistette l'altro, accarezzando le sue beniamine. "Quale incrocio?"

"Mia madre era un essere umano, mio padre un cirment."

L'uomo spalancò gli occhi e, superato lo stupore, scoppiò a ridere. "Hai sentito, Sibilla mia?" chiese al serpente nero, avvicinandolo al volto. "Abbiamo trovato un dominatore del fuoco."

Il serpente sibilò, solleticando con la lingua rosata il naso schiacciato dell'interlocutore e facendolo ridere con ancor più gusto. Cosa ci fosse di divertente, però, Xetos non riusciva proprio a comprenderlo.

"Su, Medusa!" esclamò Asif, afferrando l'altro rettile. "Mostra un po' di entusiasmo! Abbiamo trovato un dominatore del fuoco! Ti rendi conto del regalo che ci hanno fatto gli dèi?"

Medusa, indifferente alle parole dell'uomo, gli scivolò dalle mani e tornò con un tonfo nella posizione iniziale.

"Non credo che tu abbia capito bene" disse Xetos, riportandone l'attenzione. "Sono un ibrido, non un cirment vero e proprio."

"Non sai controllare il fuoco?"

"No... cioè sì. Circa."

Asif si umettò le labbra e gli fece cenno di andare avanti.

"Non..." Xetos sospirò, torcendosi le mani. "Non so crearlo e posso maneggiarlo per pochi attimi, a meno di bruciarmi io stesso. L'unica cosa che ho di un cirment sono i capelli e la stazza."

L'altro rimase in silenzio, squadrando Sibilla e Medusa; sembrava impegnato in una conversazione silenziosa coi rettili, le labbra carnose che facevano per aprirsi e parlare prima di richiudersi di scatto, assumendo una piega dura. Alla fine, prese i serpenti e li accomodò con delicatezza nella cesta, per poi chiuderla e spostarla.

"Devi raccontarmi cosa ti è successo" disse, con la voce all'improvviso stanca. "Noi... io, in realtà, avrei bisogno del tuo aiuto. Ma prima devi raccontarmi ogni cosa di te."

Xetos rimase in silenzio, ancora indeciso su cosa fare. Fuori, intanto, il vento aveva preso a fischiare con più forza, facendo schioccare i lembi dell'apertura della tenda e infilandosi all'interno, sollevando così della sabbia. L'uomo si alzò di nuovo e andò a serrarli, per poi tornare a posizionarsi davanti al ragazzo col medesimo sguardo interrogativo.

"Sono un bastardo" borbottò Xetos, spostando lo sguardo sui sandali che aveva ai piedi. "Mia madre era stata sedotta da un cirment e alla mia nascita non ha avuto cuore di uccidermi. Ha convinto suo marito a tenermi, ma sarebbe stato meglio morire: sono stato picchiato, punito, marchiato... tutto perché sono un ibrido. Gli esseri umani odiano gli ibridi."

"E per quale motivo vagavi da solo in mezzo al deserto?"

Xetos tornò a guardare l'uomo, che a sua volta lo scrutava preoccupato con una mano a massaggiarsi le tempie.

"Circa dieci giorni fa c'è stata una tempesta" rispose, sentendo ancora sferzare sulla pelle del viso la sabbia. "Sembrava non fosse nulla di terribile, all'inizio. Poi il vento è aumentato e ha sradicato le tende e le palme da dattero della nostra oasi, togliendo ogni protezione."

Xetos prese a disegnare dei cerchi sulla morbida sabbia vicino ai piedi, perso nei ricordi. Com'era diversa da quella che l'aveva quasi ucciso. "È durata tre giorni, con tutti noi piegati vicino al suolo che tentavamo di coprirci con qualcosa, per poter mangiare o bere il poco che non era stato sepolto." Il ragazzo tornò a guardare Asif, le cui iridi erano velate da una patina di lacrime. "L'unico che si è rialzato sono stato io."

Xetos tacque, i pensieri volati alla madre, ai piccoli fratelli e sorelle senza colpa, ai vecchi che l'avevano accolto sotto la loro protezione quando tutta l'oasi sembrava volerlo morto... Gli spuntò sulle labbra un sorriso ironico, pensando a quante risate si fossero fatti gli dèi nel vedere che era stato lui, l'ibrido, l'unico a sopravvivere.

"Dove stavi andando?" gli chiese l'uomo, asciugandosi una lacrima.

"Lumien."

L'altro aggrottò la fronte, perplesso. "Perché? Le montagne sono più vicine e piene di piccoli villaggi o vecchie città in cui ti saresti potuto rifugiare."

Xetos scosse il capo, rimanendo in silenzio. Per quanto lo desiderasse, non poteva andare verso le montagne.

L'uomo sospirò, grattandosi la testa pelata. "Io sono diretto lì, però."

"Non ho intenzione di seguirti."

Asif lo guardò in silenzio, il soffiare del vento come unico rumore che riempiva il vuoto; il giovane, intanto, continuò a giocare con la sabbia, disegnando e cancellando spirali.

"Non vuoi neppure sapere perché ho bisogno del tuo aiuto?"

Xetos alzò lo sguardo sull'uomo e gli fece cenno di andare avanti; anche se non aveva intenzione di seguirlo, doveva dargli almeno la possibilità di provare a convincerlo, visto che l'aveva salvato da morte certa.

"La questione è molto semplice..." disse l'uomo, battendo le mani sulle ginocchia. "Tra le montagne esiste una città scavata nella roccia, ormai abbandonata."

Xetos drizzò le orecchie. Era forse...? No, non era possibile.

"Devo entrare in uno dei palazzi" continuò l'altro, con tono evasivo. "Il problema sono le arpie che popolano i resti. Sono mostri pericolosi, da cui non sono in grado di difendermi."

"Perché ti sei messo in cammino da solo?" chiese il giovane, confuso. Più la conversazione andava avanti, più si rendeva conto che l'uomo con cui aveva a che fare era stato baciato dalla follia più di una volta, visto il modo in cui scivolava dalla lucidità alle stranezze senza battere ciglio.

Asif lisciò le pieghe del caffettano, piegando le labbra carnose in una smorfia. "Sapevo che avrei incontrato qualcuno. Sibilla e Medusa non ci credevano, ma io ne ero più che certo."

"Perché?"

L'uomo tornò a guardarlo, aprendosi in un sorriso rosso, da bestia. "I morti, me l'hanno riferito i morti."

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