6.

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Il sudore trapelava attraverso la stuoia e imbiancava di schiuma i finimenti che sfregavano contro il manto lucido. Fiaccava i fianchi con energici colpi di tallone. Il galoppo sfrenato proseguiva da ore, inframezzato da ampi momenti in cui la povera bestia non riusciva a reggere il ritmo imposto dal proprio cavaliere.

I lembi della ferita tiravano oltre il sopportabile, tuttavia non doveva fermarsi, non poteva. Ora che aveva la certezza che la giovane donna potesse realmente correre pericolo, era necessario che facesse ritorno a Fosdinovo, prima che i custodi fallissero nell'eventualità di doverla proteggere. Da cosa, non aveva importanza.

Doveva tornare da lei.

Attraversò la campagna, incurante di seguire il sentiero, tangendo e intersecando campi coltivati e vasti prati dove le mandrie bovine pascolavano placide.

In più di un'occasione, era stato inseguito e accusato da contadini inferociti, vistisi danneggiati raccolti e acerbi maggesi. Ma proseguiva, imperterrito, seguendo il cammino per Lucca.

Si impose una breve pausa, soffermandosi lungo le sponde verdeggianti di un ruscello. Legò le redini del cavallo affannato al ramo spezzato di un tronco abbattuto e si gettò, avido, a dissetarsi presso le acque limpide. Si deterse il volto, madido di sudore, lasciando scorrere generose brancate d'acqua sulla cervicale, lasciandole insinuarsi, fresche, sotto gli indumenti. Bevve finché non sentì lo stomaco gonfiarsi. Peraltro, non aveva cibo, con sé, e l'acqua sarebbe stata l'unica cosa capace di ingannare il suo stomaco fino all'arrivo al castello.

Il cavallo nitrì, scostandosi di lato. Quel tanto che bastò a rivelargli un paio di stivalacci consunti, parecchio indaffarati, sbucare da sotto la pancia della bestia.

«Chi è là!» Gridò.

Gli stivali indietreggiarono di colpo. Raggiunse il cavallo a grandi falcate, arrestandosi giocoforza alla minaccia di un'arma bianca.

«Non ti muovere o lo sgozzo.»

Guardò quel volto deturpato dalla malattia, una lunga cicatrice l'attraversava dalla tempia al labbro superiore, i denti mancanti lasciavano scorgere la lingua gonfia ma l'occhio... fu la luce lattiginosa che avvolgeva quell'iride cieco a inorridirlo fino a mozzargli il fiato.

Il bandito tratteneva il lungo coltello con la mano offesa, alla quale sembravano essere state strappate con violenza le ultime due dita. Retaggio dello scotto d'un ladro. La lama, affilata di fresco, riluceva sotto la luce del sole e quasi sembrava voler affondare nella carne fresca, quasi sembrava chiedere il sapore del sangue.

Jacopo, suo malgrado, indietreggiò, quantomeno per aver salva la vita del cavallo.

«Cosa volete?»

Il fuorilegge abbozzò un paio di affondi, per saggiare i riflessi del ragazzo e, quando fu certo di non aver davanti un promesso spadaccino che potesse disarmarlo, ghignò leccandosi le labbra: «Cibo, denari, tutto.»

«Cibo non ne ho con me. Le bisacce sono vuote.» E diceva il vero.

Il bandito accennò un altro fendente, che quasi lo colse.

«Però ho denari! Qui, nella scarsella. Adesso la prendo.» Disse, mantenendo lo sguardo fisso in quello dell'aguzzino mentre con la mano entrava sotto alla cappa per agguantare quanto promesso.

Tastò sotto le vesti il profilo del plico che il chierico gli aveva raccomandato di riportare al castello, e un brivido lo percorse, al pensiero di cosa sarebbe potuto accadere se solo fosse capitato nelle mani sbagliate. Saggiò di fianco a esso e appena percepì la pelle della scarsella sotto ai polpastrelli, la afferrò e la gettò ai piedi del malvivente.

Questo la ghermì come un falco, per poi aprirla e vagliarne rapidamente il contenuto.

«Un damerino come voi... com'è che non ha altro con sé? Non mentite, o tingerò di rosso il greto del fiume!» Minacciò quello, afferrando di nuovo i finimenti del destriero terrorizzato.

«Non ho altro con me, lo giuro! Controllate!»

Il farabutto lo squadrò accuratamente. Erano anni che campava di espedienti, ormai era avvezzo a capire immediatamente quando chi aveva davanti mentiva o meno. E lo sguardo di quel giovane pareva sincero. Tuttavia, era così difficile campare, a quei tempi, così arduo accontentare i bisogni del corpo, che azzardò un'altra richiesta: «Gli stivali! Toglieteli.»

Jacopo obbedì, gettando al bandito, una dopo l'altra, entrambe le calzature. Dopotutto, dai piedi nudi non era mai morto nessuno.

L'uomo li osservò con cupidigia e si sedette a terra, per calzarli.

Quando si eresse di nuovo, pensò a cos'altro potesse sottrargli. Della sua sorte non gli importava granché e nemmeno della sua direzione. Le bisacce vuote non gli avrebbero fruttato alcunché: erano inutili quando non si sapeva con cosa riempirle.

Ma il cavallo...

Quella era una gran bella bestia. E un paio di mercanti al quale offrirlo li aveva, tra le sue conoscenze: uno che avrebbe corrisposto in monete, l'altro che avrebbe pagato in libbre di carne. Allettante, in entrambi i casi.

«Se proprio non vuoi darmi altro, mi prenderò questa bella bestia.» Affermò il delinquente, iniziando ad armeggiare con le briglie. Il coltello affondò agile nel cuoio morbido delle redini.

Ma senza cavallo, Jacopo non avrebbe raggiunto Aloisia.

Avrebbe rinunciato ai denari, al cibo, persino all'acqua, ma non all'unico mezzo che lo avrebbe riportato da lei.

Piombò addosso al povero disgraziato, spintonandolo e facendolo ruzzolare a terra. Il bandito perse l'impugnatura del coltello, che cadde lontano da lui, nell'erba alta. Parò la caduta e, con agile colpo di reni, si voltò verso Jacopo, slanciandosi con tutta la forza.

Caddero a terra, fra gli zoccoli del cavallo imbizzarrito che piombavano dal cielo come fendenti, troppo vicino quando alla testa, quando al fianco.

Rotolarono e si ghermirono nuovamente, si torsero i baveri della giacca e il colletto della camicia, strapparono i pantaloni, gesticolando tra grida ferine.

Jacopo menò un colpo diretto al mento, ma l'altro parò, chiudendosi a guardia, rispondendo poi con un gancio che colse l'avversario mandandolo a terra. Gli fu sopra, seduto sul petto e, con occhi di fuoco e bocca schiumante, gli strinse le mani attorno alla gola.

Jacopo sentì mancargli il respiro, gli occhi farsi gonfi, bruciare, annaspava in cerca d'aria, senza riuscire ad allentare la presa del nemico.

Tastando tra l'erba qualsiasi oggetto potesse aiutarlo, rinvenne il pugnale, lo afferrò quanto più saldamente la situazione gli permettesse e affondò la lama, con vigore, nel corpo dell'uomo. Un urlo atroce stravolse l'aria e subito la presa alla gola si attenuò. Il bandito si portò istintivamente le mani alla ferita appena ricevuta e fu comodo allora, per Jacopo, riuscire a disarcionarlo facendolo ruzzolare di lato.

Tossendo, si allontanò ginocchioni dal suo aggressore e si voltò repentino per prepararsi la difesa. Ma quello giaceva a terra, immobile se non fosse stato per gli ultimi spasmi della vita che l'abbandonava.

Quando Jacopo riuscì a tirarsi in piedi e si avvicinò a lui, vide il sangue denso colare dalla tempia sul masso contro il quale aveva sbattuto, e insozzare l'erba tutta attorno.

Cosa faccio, adesso?

Impensabile trasportarlo fino al primo ricovero. Inutile persino correre a cercare aiuto. Chissà se quel povero diavolo aveva famiglia. Chissà, se quel povero diavolo...aveva compagni.

Subito il terrore d'essere di nuovo aggredito lo investì. Cercò con gli occhi sagome scure nascoste alle spalle, o dall'altra parte del torrente, o ancora al limitare del bosco.

Pareva proprio che fossero soli.

Svelto, recuperò i propri stivali e la scarsella che il malvivente gli aveva sottratto. Recuperò le redini del cavallo che, per fortuna, avevano retto ed erano rimaste saldamente ancorate, impedendo all'animale di fuggire. Salì in sella e corse via, più veloce del vento. Solo quando fu ben lontano, si accorse della macchia brunastra che andava allargandosi in corrispondenza della vecchia ferita, non ancora del tutto risarcita.

Ma non v'era tempo di fermarsi. Già ne aveva perso, a causa di questo infausto incontro.

Continuò a cavalcare, spronando il destriero e sperando che la tempra di questi reggesse. Si promise che, se fosse riuscito a portarlo a Fosdinovo senza crepare prima, gli avrebbe concesso un mese intero di meritatissimo riposo, libero nei pascoli verdi.

E il cavallo parve sentirlo, sembrò accogliere quella strana promessa e corse, superò campi e boschi, attraversò radure, costeggiò villaggi, e lo portò a destinazione, seppur sfinito, alle ultime luci del tramonto.

Quando salirono la scala d'accesso, Jacopo era oramai sfinito quanto il suo cavallo. Abbandonato sulla sella, quasi con la fronte sfiorava la criniera, lasciando all'animale libera scelta d'itinerario.

Goffredo l'aveva visto arrivare, dalla torre. Lo scalpiccio degli zoccoli, nel silenzio della sera, non era passato inosservato.

«Buon Dio!» Aveva esclamato, prima di lanciarsi nel cortile ad accoglierli.

Aiutò Jacopo a discendere dalla sella, affidandolo alle cure di Marianna, accorsa pure lei, scortando la povera bestia dove potesse abbeverarsi.

«Messere, state bene? Siete ferito!» Chiocciò Marianna, sostenendolo. «Venite dentro. Ho del pane fresco e del buon formaggio.»

«Vi ringrazio infinitamente.»

Appena varcata la soglia, Jacopo si lasciò andare su una delle prime sedie che trovò. Marianna scostò l'arcolaio per fare spazio, poi si diresse subito a recuperare una bacinella e dell'acqua bollita, ancora ben calda.

Chiese al giovane di togliere i pantaloni e iniziò prontamente a sanare la ferita riaperta.

«Siete già stato a Roma?» Chiese Goffredo, sconvolto, appena rientrato.

«No.» Ansimò Jacopo. «Vengo da Borgo San Lorenzo. Un chierico ha raccolto la missiva destinata a Roma e mi ha permesso di tornare indietro. Sono partito stamane, alle prime luci.»

«E quella povera bestia vi ha portato sin qui in così poco tempo?» Chiese sbigottito, gettando uno sguardo all'animale col dubbio di vederselo morto da un momento all'altro.

«È stata la mia salvezza. Ci hanno attaccati, per rapinarci, ma hanno avuto la peggio.»

«Siete sicuro che non v'abbiano seguito?»

«L'ultima volta che l'ho guardato, prima di fuggire, era decisamente morto.»

Goffredo non chiese dettagli in merito alla faccenda. Tanto gli bastava che il ragazzo gli avesse assicurato che nessun altro, oltre a lui, era in arrivo al castello Malaspina.

«La vostra camera è come l'avete lasciata, Jacopo.» Disse Marianna. «Rifocillatevi e andate a riposare. Ne avete di bisogno.»

***

La camera in cui aveva soggiornato sino a pochi giorni prima non gli era mai sembrata più accogliente. Anelava la sua intimità quanto e forse più quella della sua casa, nella lontana Mantova.

Prese congedo dai custodi, dopo averli ragguagliati circa la sua disavventura lungo il greto del torrente, senza però sbottonarsi in merito all'identità del chierico benefattore che aveva accettato di venire in suo soccorso per permettergli di tornare da Aloisia, tantomeno del volume che gli era stato affidato.

Dal momento in cui aveva abbandonato Borgo San Lorenzo, non se ne era mai separato, tenendolo custodito e celato al di sotto del farsetto. Di primo acchito, aveva pensato di chiedere a Marianna notizie al suo riguardo, ma poi, assalito dall'ombra del sospetto alimentato dal comportamento dei custodi e dalle parole di Barberini, aveva deciso che certe cose potevano anche attendere momenti migliori.

Attraversò la sala, raggiungendo la porta della propria camera. Che singolare sollievo produsse il cigolio della maniglia.

Gli bastò un secondo per riconoscere il delicato pallore di quelle mani che trattenevano e accarezzavano un cammeo. Le dita affusolate tastavano la pietra, seguendone curiose l'intarsio.

Nascosta sotto l'ampia cappa nera che tutta la ricopriva all'infuori di un candido ciuffo morbido che sbucava dal cappuccio, non sollevò la testa, non si voltò nella sua direzione, non trasalì, ma tutto concorse a gridare la sua attesa.

«Perché siete ancora qua?»

Quella voce cristallina, sussurro di rugiada, gli sciolse le membra e pregò di sentirlo ancora. Per cui, Jacopo rispose: «Aloisia... siete voi?»

Ella indugiò. Smarrita o, forse, peggio.

«Perché siete ancora qua?» Tornò a chiedere, senza smettere di accarezzare l'intarsio floreale.

Dio, che sublime sussurro.

E provò l'inarrestabile richiamo di scoprirle quel volto di luna, di lasciarsi ancora pugnalare dal ghiaccio dei suoi occhi.

«Non vi avvicinate». Parve così intuire le sue intenzioni e Jacopo si ritrasse, rispettoso.

«Mia signora, non è mio volere recarle danno o disturbo. Ma...» chiuse la porta dietro di sé «voi mi avete richiamato qui. Tutto pare condurmi da voi, gli stessi ultimi accadimenti sembrano essersi accordati per riportarmi di nuovo in questo castello.» Prese un respiro profondo e, senza toglierle gli occhi di dosso, sussurrò: «E non so perché.»

«Ditemi il vostro nome.»

«Jacopo Branciforte.»

Aloisia voltò di scatto il viso, ancorando i suoi occhi glaciali allo sguardo perso del giovane. «Questo è il vostro nome?»

«Questo.»

Aloisia tornò a osservare il cammeo, quasi delusa da quella risposta. Poi, di nuovo tornò a rivolgersi al giovane con il respiro rotto. «Vi avevo detto di andarvene. Perché non ascoltate le mie parole?»

Jacopo intuì immediatamente lo sgomento celato dietro a quel velato rimprovero. «Aloisia, se solo avessi saputo che la mia presenza vi turbava tanto... non mi sarei mai permesso di chiedere...»

«Non è questo, bensì...»

Il tonfo echeggiò lontano, nel corridoio di pietra.

«Rimanete qui, Aloisia. Vado a vedere cosa accade.»

Uscì dalla camera e chiuse l'uscio, di modo che la donna fosse al sicuro. Attese un momento. Impossibile che un baccano del genere non fosse stato udito dai custodi. Il secondo urto, non gli lasciò dubbio alcuno sui propri sospetti. Nascondevano qualcosa, Goffredo e Marianna, e temeva che a niente sarebbe valso tentare di estorcergli la verità.

Seguì la direzione dalla quale era provenuto il rumore e, presto, si ritrovò allo sbocco sullo spuntone difensivo.

L'ombra scura si diresse all'esterno, comodamente protetto dall'oscurità serale.

Jacopo la seguì.

Quello spettro sfuggente pareva proprio avere le sembianze della stessa ombra che aveva inseguito quella notte, sui camminamenti di ronda. Possibile che in quell'occasione si fosse sbagliato? Possibile che quella non fosse stata Aloisia?

Uscì sullo spuntone, cercando di ambientare la vista all'oscurità, mentre i grilli intonavano la loro melodia.

Da ogni lato volgesse lo sguardo, vedeva solo il nulla.

Si avvicinò con cautela allo strapiombo. Ai lati dello spuntone, i cannoni baluginavano opachi alla luce del quarto di luna. Davanti a sé, in posizione centrale, una costruzione in legno si gettava nel vuoto.

Goffredo e Marianna gli avevano accennato alle torture alle quali il marchese condannava i suoi prigionieri e anche Barberini gli aveva regalato qualche misero particolare. Per questi motivi, riconobbe immediatamente dove si trovasse.

Il cumulo di casupole si allargava sotto la sua vista, come cupi spettatori di una miserabile vita, mentre il vento risaliva le mura e gli investiva, fresco, il volto.

Il colpo gli arrivò, silenzioso e spettrale, alle spalle e quando sentì il vuoto accoglierlo, il sangue si gelò nelle vene. 

Mulinò in aria le braccia, alla ricerca di un fortuito appiglio e il Signore lo prese di nuovo tra le sue braccia benevole: il polsino del farsetto rimase impigliato in uno dei chiodi sporgenti che tenevano assieme la struttura.

Rapidamente, afferrò il legno con la mano, poi con l'altra, cercando di issarsi anche con i piedi.

Terrorizzato, richiamava le gambe penzolanti, nel vano tentativo di trovare qualcosa a cui aggrapparsi. Ma il buio e lo spavento non aiutavano.

Le stelle sopra la sua testa scomparvero, oscurate dalla sagoma nera che andava inseguendo. Il panico lo colse. Sarebbe stato un salto nel vuoto, un volo mortale.

Con l'orrore negli occhi, rimase a guardare quell'ombra scura che incombeva sopra di lui.

Si decise a chiamare soccorso, con tutto il fiato che aveva in corpo e con le ultime forze che il trattenersi appeso a quella trave gli aveva lasciato. Lo fece chiudendo gli occhi, perché l'ultima cosa che avrebbe voluto vedere era uno spettro che lo lasciava cadere nel vuoto.

Ma invece di sentire ciò che si sarebbe aspettato, percepì un oggetto colpirgli le dita. E riaprendo gli occhi, vide la sua salvezza nella corda che pendeva, tra lo spuntone e la trave, a pochi centimetri dalla sua mano. L'afferrò saldamente, saggiò che all'altro capo fosse ancorata a qualcosa di solido poi, dopo un breve pensiero al benedetto Sant'Anselmo, si lasciò andare.

Sbatté con violenza contro le mura dello spuntone, per fortuna senza apparenti ripercussioni, e si issò fino alla cima.

Si aggrappò con tutte le forze all'orlo delle mura, si tirò su e, rotolando di lato, guadagnò la salvezza.

Carponi, si portò il più lontano possibile dall'orlo del precipizio e si abbandonò sull'erba.

Espirò e chiuse gli occhi.

Iniziava a essere una questione decisamente personale.

~ ANGOLO AUTRICE ~

Buonasera, carissimi lettori e lettrici. Con sommo piacere torno a raccontarvi della vicenda che vede il nostro Jacopo tentare l'impossibile per tornare dalla sfuggente Aloisia. il mistero si infittisce...cosa conterrà il plico che Barberini gli ha affidato? Perché lo ha fatto? E chi è lo spettro che tenta di regalargli l'ultima alba?

Spero che fino a qui la mia storia vi sia piaciuta. Come ho già spiegato, per me è qualcosa di assolutamente nuovo e mi sto impegnando molto per regalarvi un po' d'emozione.

Vi aspetto nei commenti come sempre!

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