Prologo

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Campagna emiliana, Italia. 548 d. C.


La giornata prometteva pioggia. Battente. Di quei comuni rovesci che avrebbero fatto perdere la strada al più abile degli emissari. Nuvoloni plumbei si accalcavano all'orizzonte, galoppando e sovrapponendosi con rara frenesia; pareva proprio che volessero raggiungerlo.

Dando le spalle al massiccio portone, se ne restava di fronte alla stretta apertura, dalla quale aveva un'ottima visuale della campagna circostante e della fitta macchia di ontani di fronte all'edificio. La città era al di là di quella coltre oscura che si estendeva oltre radi campi coltivati e terreni a maggese. Una vera fortuna che quel manso avesse fatto parte della curtis di suo padre, Ilduino Ottavio. Uomo attento ai bisogni dei propri massari, egli era sempre riuscito ben voluto da gran parte del proprio seguito, nessuno gli aveva mai negato una qualsiasi richiesta avesse perpetrato.

La sua mancanza bruciava più di una freccia conficcata in profondità nel costato.

Non distoglieva lo sguardo oramai da ore dalla stretta viuzza che usciva serpeggiando dalla boscaglia. Il minimo movimento catturava la sua vivida attenzione: sperava ogni volta che l'ombra si traducesse nella sagoma di un cavaliere.

Si portò la coppa alle labbra e sorseggiò l'aspra bevanda rossastra. Il meglio che l'ospite avesse avuto a disposizione. Non che gli importasse poi molto, in quel momento. Tutto ciò a cui aspirava da anni dipendeva dalla risposta che avrebbe ottenuto.

Il vento sferzava le fronde e creava giochi ondosi attraversando l'erba nei campi.

Spostò lo sguardo stanco per riprendere lucidità, trasse un profondo sospiro per acquietare l'animo, poi tornò a fissare la sua attenzione sul sentiero.

Lo vide. E il cuore gli balzò in gola.

Il morello galoppava a spron battuto in direzione dell'abitazione.

Il cavaliere ne discese senza attendere che si fosse del tutto arrestato, lasciando il cavallo nelle mani dei servi e si diresse rapidamente verso l'edificio dove era atteso.

L'interno della casa non era tanto spoglio come si era aspettato: lo stupì l'intaglio del tavolo in legno massello e ancor di più lo sguardo penetrante dell'uomo che lo fissava dall'altro lato, seduto sulla panca.

Il messo scostò il mantello con rapido gesto e si genuflesse abbassando lo sguardo.

«Alzati, Caio.» Gli intimò il suo interlocutore.

Il tono fermo e potente con il quale l'ordine fu dato gli attraversò la mente con la rapidità di un lampo, che parve percorrergli il dorso giù, fino alle reni.

«Che notizie porti?»

«Belisario ha lasciato Ravenna cinque giorni fa, mio signore. L'emissario imperiale ha comunicato di tumulti, più a ovest. Pare si tratti di Vitige.»

«Lo supponevo. Rivuole la città, c'era da aspettarselo.»

«Sono rimasto tra le mura come voi avete comandato, fino a che le torri di guardia non hanno segnalato uomini in avvicinamento, da nord.»

L'interesse balenò nello sguardo attento. Aspettava questo momento dal giorno in cui gli avevano strappato colui che gli era più caro al mondo. «Ebbene?»

«I Franchi di Teodoberto, mio signore.»

«Ne siete certo?»

«Il messo non può essersi sbagliato, ha riconosciuto il vessillo. Sono partito non appena ho saputo che hanno stanziato l'accampamento al di là della palude.»

«Lasciateli entrare.»

Il legato non mascherò la sorpresa, di fronte a questo imperio. «Mio signore, Ravenna è sguarnita: l'intero esercito è partito al seguito di Belisario.»

«Siate ospitali, rimettetevi alle sue richieste e avvertitelo che presto gli farò visita in segno di accoglienza.»

***

Non c'era voluto molto, prima che Teodoberto avesse colto l'occasione di avvicinarsi a Ravenna. L'attenzione che l'imperatore bizantino aveva dovuto volgere ai Visigoti aveva giocato completamente a suo favore.

Aveva fatto posizionare l'accampamento al limite di un leggero pendio, nascosto da alberi fitti, dal quale avrebbe comunque avuto ampia visuale sul suo obiettivo. La battaglia infuriava alle sue spalle, la decisione andava presa in fretta: dirigersi a espugnare Ravenna o attaccare Belisario sul fianco scoperto?

Città non lontano dal mare, territorio pianeggiante e ricco di campi da coltivare, avrebbe garantito nuovi territori alla sua gente, simboleggiato la vittoria su ciò che rimaneva della gloria romana, oltre a sancire il suo controllo sui territori ligure ed emiliano che già deteneva.

Prima di entrare in città, aveva bisogno di appoggio. Se fosse riuscito a trovare il favore della popolazione, avrebbe sicuramente potuto garantirsi il sostegno  di qualche dominicus.

«Mon seigneur.»

Teodoberto si voltò verso l'entrata della tenda, incrociando lo sguardo deciso del cugino, l'unico che si permettesse di rivolgersi a lui in via diretta. «Parla, Alberico.»

«Un'ambasceria. Accino Marzio chiede un incontro.»

Poteva essere l'occasione che stava aspettando. Sarebbe bastata l'alleanza giusta per poter ottenere il pieno controllo su tutto il territorio, per ricacciare i bizantini lontano dal suo regno.

«Organizzate una battuta di caccia, il posto si presta.»

«Comunico al capocaccia.»

«Pochi uomini. Voglio raggiungere un accordo.»

***

L'indomani, l'alba era serena.

Sellarono i cavalli e partirono quando ancora gran parte dell'accampamento era sopito e le sentinelle girovagavano tra le tende.

Sotto il busto di cuoio, il re aveva comunque deciso per una leggera cotta di maglia. La fiducia, in certi casi, era meglio tenersela stretta.

Raggiunsero la radura in pochi minuti. Tre cavalieri in divisa scura li attendevano al centro del campo. Tra di loro, uno si fece avanti. Sguardo fiero, mascella serrata, portamento ben dritto. Il re accennò al suo seguito di rimanere nelle retrovie. Avrebbe condotto l'accordo di persona.

«Salute.» Il re dei Franchi si espresse nel miglior volgare che riusciva a masticare.

Accino Marzio indugiò su quel volto che troppe volte aveva scorto, nei suoi incubi. Ferito, accanito, impaurito, arrogante, in tutti i modi possibili l'aveva sognato.

«Salute a voi, re Teodoberto» riuscì poi a pronunciare con fermezza «vogliamo iniziare? Nella macchia qui vicina dimora un branco di cinghiali fra i più grandi che abbia mai visto. Il verro più anziano è vostro.»

Abile cacciatore, la promessa della preda solleticò l'animo del franco, che acconsentì all'inizio della battuta. Avrebbero avuto tempo, e modo, per i loro accordi, dopo aver rinforzato la loro alleanza.

Si lanciarono entrambi al galoppo, entrando nel fitto della boscaglia. Marzio si propose per andare in scaccetta: avrebbe spinto il maschio più grande a uscire allo scoperto, per permettere a Teodoberto di finirlo.

Il re lo perse di vista dopo poche falcate e rallentò. Quella non era la sua terra, non erano i suoi boschi. Si voltò cercando con lo sguardo gli altri compagni di battuta. Gli parve di scorgerli, un po' indietro.

Seguì lo stretto sentiero, si posizionò esattamente di fronte a una biforcazione, dalla quale si dipartivano, serrate, le fruste degli animali, e imbracciò la balestra carica, mantenendosi ben saldo in sella.

Senza battere le palpebre, tratteneva il respiro.

Un fruscio di foglie sommesso e Accino lo travolse lanciandosi dalla roccia alle sue spalle e lo disarcionò facilmente. Entrambi ruzzolarono a terra, nella caduta l'arma scaricò il dardo che per poco non colse il baio di Teodoberto che fuggì spaventato.

Il franco cacciò un grido sordo, acuito dal dolore pungente che si irradiava alla base del collo. D'istinto si portò la mano alla ferita, tastando con orrore lo stiletto che ne usciva, conficcato.

Accino gli fu sopra di nuovo. Il peso dell'uomo sul diaframma gli tolse il respiro mentre la mano guantata gli copriva la bocca e il ginocchio gli ancorava il braccio destro a terra.

Gli sgherri di Marzio avevano fatto bene il loro lavoro e i due franchi al seguito di Teodoberto erano abbastanza lontani, non si sarebbero accorti di niente.

«Ti ricordi di me?» Sibilò Accino a pochi centimetri dal volto terreo del franco.

Il re scosse la testa. Come avrebbe potuto ricordarsi di un ragazzino che in pochi anni era mutato a quel modo.

«E Ilduino? Di lui ti ricordi? Cane!»

La consapevolezza si fece largo negli occhi del sovrano. Rapidamente il terrore si avviluppò attorno al suo animo, gli tolse il respiro e gli inumidì lo sguardo, rendendo palese un destino mai scontato.

«Pietà ti chiese ma tu non gliela concedesti. L'hai sgozzato davanti ai miei occhi.» Lo sguardo di Accino ardeva d'ira. Il ricordo del padre morente lo sconvolgeva da anni, la sete di vendetta gli ardeva la gola ogni giorno la vita gli facesse scontare: una tortura, altro non poteva definirsi.

Digrignò i denti, tremando come cane rabbioso. Estrasse con violenza lo stiletto dalla ferita, caricò e abbatté un altro fendente nella carne lacerata. Fiotti vermigli gli inzupparono i guanti.

«Ora muori, maledetto!»

E al lasciare l'impugnatura, con essa lasciò anche tutta l'orrenda esistenza in cui il franco lo aveva costretto; la vita defluiva da quel corpo come la rabbia abbandonava l'anima di Accino.

Uno scalpiccio di zoccoli catturò la sua attenzione. Fuggire era l'unica possibilità, adesso che la sua vendetta era compiuta.

Cercò con gli occhi il morello che aveva legato al di là di un albatrello, poi lasciò la presa sulla vittima esangue.

Con quanta voce gli era rimasta, Teodoberto gridò esanime:

«Ah! Mala spina!»

Ma Accino Marzio era già scomparso, inghiottito dalla foresta in cui era nato e cresciuto, figlio di un padre amorevole, orfano per mano nemica, finalmente libero dal peso di sapere ancora vivo il carnefice di suo padre.

Sum mala spina malis,

sum bona spina bonis.

~ SPAZIO AUTRICE ~

Eccoci al prologo, cari amici di letture.
In questo ho voluto racchiudere l'incipit di una tra le leggende toscane più conosciute, sicuramente molto di voi ne avranno sentito già parlare!
Famiglia di antichissime origini, ha mantenuto i propri possedimenti fino al XIX secolo, circondandosi di un alone leggendario legato alla propria fama di mecenati e sanguinari.
Spero di coinvolgervi con questa mia narrazione che altro non vuole essere se non una chiave romanzata della storia dei Malaspina del Ramo Fiorito ❤️

Vi aspetto, come sempre, nei commenti.

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