26. Vittoria a tavolino

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Alla fine era stato Austin a vincere la scommessa.

Sembravano trascorsi secoli dal pomeriggio in cui eravamo finiti a bere un frullato insieme dopo gli allenamenti, uscita che si era conclusa con la mia ingloriosa perdita del senno e una lite furibonda con Amelia.

Ah, che bella la famiglia Miller... zero rancore e per niente drama queen!

Invece solo una manciata di giorni ci aveva permesso di lasciarci alle spalle l'incubo del rapimento di Amy e Austin. La faccenda non era affatto conclusa, doveva svolgersi il processo ed entrambi sarebbero stati chiamati a testimoniare; tuttavia, per il momento se ne occupavano papà e Klaus e noi potevamo goderci le vacanze natalizie in tranquillità.

Tranquillità... si fa per dire! Né Austin né Amelia erano il ritratto della serenità. La mia gemella aveva incubi che le impedivano di riposare per più di qualche ora consecutiva; solo con qualcuno accanto riusciva a dormire per almeno quattro ore senza svegliarsi.

Tuttavia, il suo sonno tormentato era in grado di disturbare anche chi le stava accanto, risvegliato dal suo continuo rigirarsi nel letto, dai lamenti e dalle prese ferree che le partivano come riflessi incondizionati per assicurarsi di non essere sola. Io e Lucas avevamo iniziato a fare a turno per dividere il letto con lei e nessuno si era opposto quando anche Margot si era proposta di aiutarci. I nostri genitori ancora non sapevano nulla di loro due, ma c'era tempo per parlargliene dopo che Amelia si sarebbe ripresa.

Naturalmente aveva iniziato a vedere una psicologa, ma il trauma di essere rapiti in casa propria, per quanto la faccenda si fosse risolta in fretta e senza gravi danni fisici, non poteva essere superato in un paio di sedute. La dottoressa era stata chiara: il percorso sarebbe stato lungo e non privo di ostacoli, anche a causa del carattere riottoso di Amelia, ma avrebbe aiutato la mia gemella a stare meglio.

Austin, invece... beh, intanto era diventato il mio ragazzo. Ufficialmente. Cioè, non c'erano stati anelli o proposte di matrimonio – grazie a Dio, quello sarebbe stato troppo – ma facevamo coppia fissa. I nostri genitori avevano accolto la notizia con una cena, ovviamente qualsiasi occasione era buona per Maeve Miller e Meredith Rogers di fare comunella.

Maledette, da quando Amelia e Kimberly parteggiavano per loro eravamo praticamente spacciati.

A ogni modo, nemmeno lui era uscito incolume da quel seminterrato. Oltre al polso quasi rotto, curato a suon di pomate lenitive e antinfiammatori, e ai numerosi lividi che si era procurato nel tentativo di liberarsi, quella faccenda aveva lasciato Austin in uno stato di allerta costante.

I suoi nervi erano perennemente tesi, il minimo rumore insolito lo faceva scattare come una molla e aveva quasi aggredito un suo compagno di squadra che gli era arrivato alle spalle per chiedergli come stesse. Beh, la risposta era palese: non bene.

Chiaramente anche lui aveva intrapreso un percorso psicologico e, quando non era a scuola, agli allenamenti o alle sedute, trascorreva il suo tempo con me. A quanto pareva ero la sua compagnia preferita, chi l'avrebbe mai detto?

Beh, a posteriori, i segnali erano chiari, ma a sedici anni ero piuttosto tonta e indossavo un bel paio di paraocchi che non mi permettevano di vedere oltre la traiettoria dritta di fronte a me. Dunque, finché Austin non mi si era piantato davanti, non avevo capito un tubo.

«A che pensi?» fu la sua voce a riscuotermi dalle mie riflessioni circa il bilancio dell'ultima settimana. Il tono vellutato era animato da una punta di curiosità che aveva cercato di nascondere, invano. A me piaceva la sua curiosità, specialmente quando aveva a che fare con ciò che mi ronzava nella testa.

Gli sorrisi, beandomi della tranquillità che emanavano i suoi magnetici occhi blu. Anche se non era grado di alleviare la sua stessa tensione, continuava a trasmettere serenità a chi gli stava intorno.

«A tutto quello che è successo» ammisi, perché ero certa che dal mio viso corrucciato avesse intuito la direzione dei miei pensieri. «Mi sembra assurdo adesso essere qui a cena, come se nulla fosse...»

Austin si passò una mano tra i boccoli biondi, spingendo forzatamente le ciocche dietro il capo. Si erano allungati ancora e sua madre lo tormentava affinché li tagliasse, ma a me piaceva l'ormai caschetto biondo che gli incorniciava il viso.

«Hai ragione, a volte mi sembra che sia passato un secolo, altre...» storse il naso cercando di nascondere la smorfia bevendo dalla lattina di light coke che aveva davanti. Notando però il mio sguardo su di sé che lo invitava a continuare, sospirò. «A volte ho l'impressione di trovarmi ancora in quel seminterrato.»

Allungai il braccio oltre il tavolo che ci divideva e gli afferrai la mano. Non potevo fare granché per lui, me ne rendevo conto, però potevo sostenerlo e mostrargli tutto il mio affetto. Austin sembrava apprezzare a giudicare dal sorriso sincero che gli illuminò il volto e fece sorridere anche me di rimando.

Non ci volle molto prima che si trasformasse in un ghigno, sdrammatizzare era il nostro modo preferito per allentare la tensione. «Non è vuoi accampare scuse per non offrirmi la cena? Ho vinto la scommessa.»

Gli tirai un calcio sotto al tavolo, perché ero sì vestita come una bambolina a causa di un attacco congiunto di mamma e Amelia, ma rimanevo un'orgogliosa scaricatrice di porto nell'animo.

«Per chi mi hai presa» gonfiai il petto, finta offesa, «una Miller paga sempre i propri debiti».

Alla citazione di Game of Thrones seguì una sua risata sommessa e, ovviamente, un altro calcio da parte mia. Insomma, non potevo permettere che si facesse beffe di me mentre mangiava indisturbato le sue patatine!

Ci trovavamo nella mia tavola calda preferita perché io avevo perso la scommessa. Naturalmente, come da me preventivato, avevamo vinto la partita – quella prima della festa al termine della quale Austin e Amelia erano stati rapiti, sì – tuttavia, non ero riuscita a segnare e dovevo offrirgli una cena.

La vibrazione del mio telefono interruppe il nostro battibecco. Lo afferrai quasi con foga per assicurarmi che non fosse la mia gemella – era lei l'unico motivo per cui giravo con la suoneria al cellulare da quel maledetto giorno. Ero terrorizzata dall'idea che avesse bisogno di me e io fossi irrintracciabile.

Il messaggio però era da parte di Kate, la quale mi invitava a raggiungere lei, Monica e altre ragazze della squadra per un caffè in centro. Ovviamente, sbadata com'era, si era scordata del mio appuntamento.

Austin, che aveva compreso i miei sensi di colpa nei confronti di Amelia e cercava di farmeli passare forse con più ardore di lei – in fondo la stronzetta ci godeva ad avermi al suo servizio – mi domandò come stesse. I rapporti tra loro erano civili, non c'erano più stati interrogatori imbarazzanti perlomeno, ma entrambi non erano propensi a fare amicizia e dunque si limitavano ai convenevoli.

Sospirai, perché io e Amelia eravamo due facce della stessa medaglia e, per quanto si impegnasse a fingere di stare bene, io sapevo che non era così. Me ne accorgevo dal ticchettio incontrollato delle penne mentre studiava, dalla foga con cui si spostava i capelli dal viso, dalle ombre violacee che ogni mattina copriva con fondotinta e correttore.

Avrebbe potuto fregare tutti, persino mamma e la psicologa, ma non avrebbe mai fregato me. Lo sapevo io e lo sapeva lei, per questo nemmeno tentava di nascondere il nervosismo quando eravamo sole.

«Ce la sta mettendo tutta, ma non è facile» mi limitai a dire perché qualsiasi altra parola sarebbe stata inutile. Lui lo sapeva, era con lei e aveva subìto lo stesso trattamento, non aveva bisogno di menzogne né che gli venisse spiegato perché stesse reagendo in quel modo.

Austin sospirò e strinse la mia mano ancora nella sua. «Già, non è facile...»

Per quanto tentassimo di non pensarci, di rivolgere la nostra attenzione altrove e goderci la cena, era inevitabile rimuginare su ciò che era accaduto. Pensai che l'unico modo per allentare la tensione fosse rigirare la frittata e portare la conversazione su lidi meno desolanti.

«Sai, credo di non averti ringraziato la sera della festa» iniziai, stampandomi in viso il sorriso migliore del mio repertorio. Non era luminoso come quello che mi dedicò Austin di rimando, ma si sarebbe accontentato.

Mi osservò incuriosito qualche istante cercando di capire dove volessi andare a parare, poi ghignò. «Per averti impedito di rompere il naso a Martin Hurt?»

Gli allungai un altro calcio. Se l'era meritato, non doveva ricordarmi dell'esistenza di quel pallone gonfiato! Feci una smorfia a cui seguì la sua risata sommessa. Per quanto provasse a trattenersi, proprio non riusciva a non farsi beffe di me. A quanto pare i miei calci non erano così ben piazzati.

«Sì, beh, anche per quello» mormorai scontenta. In fondo aveva ragione, se non fosse stato per lui, avrei rotto il naso all'idiota misogino e mi sarei pure beccata una denuncia. Papà mi avrebbe battuto il cinque prima di difendermi e infine uccidermi. Ero troppo giovane per morire.

«Però mi riferivo alla lite tra me e Amelia.»

Lo sguardo corrucciato che mi restituì mi fece sorridere. Non aveva idea di cosa stessi blaterando e non riusciva a seguire la deriva dei miei pensieri, quindi mi apprestai a spigare.

«Dopo il bacio alla festa» mi premurai di arrossire, perché ero comunque una sedicenne, «mi hai consigliato di chiarire subito con lei quando avremmo potuto impiegare il tempo in altro modo. Vuol dire che ci tieni e hai capito subito la portata del legame tra me e mia sorella».

Anche Austin arrossì, perché era un sedicenne pure lui, e mi sorrise. Quando lo faceva i suoi lineamenti spigolosi, che gli donavano un'aria perennemente seria, sembravano sbeccarsi. Quando sorrideva, il viso diventava tutta curva. Era bello.

Ed era bello anche quando il sorriso angelico si trasformava in un ghignetto. Sembrava sempre sul punto di dire qualcosa di scomodo che avrebbe potuto imbarazzare qualcuno, e sul fondo delle sue iridi blu scoccava una scintilla di divertimento.

«Ma, dimmi» abbassò il tono di voce, come se si trattasse di un segreto di Stato. «In che modo avremmo potuto impiegare il nostro tempo?»

Avvampai di colpo sentendo il calore sprigionarsi da ogni poro del mio corpo. Probabilmente avrei iniziato a sudare per evitare l'autocombustione. Fui costretta a tirargli l'ennesimo calcio. Non era colpa mia, se l'era meritato di nuovo.

Quello andò a segno, a giudicare dalla smorfia in cui si trasformò il suo ghigno compiaciuto. Così avrebbe imparato a mettere in imbarazzo Sam Miller. Ovviamente alla fine ero stata costretta a rispondere a tono, non potevo essere l'unica rosso pomodoro lì in mezzo.

Mi sporsi sul tavolo imitando la sua posa e lo vidi pendere dalle mie labbra. In realtà, supposi, teneva lo sguardo fisso per non sembrare cafone guardando nella scollatura. Bravo ragazzo, ma ci sei appena cascato con tutte le scarpe.

«Io avrei diverse idee in merito, tu no?»

A quel punto quasi cadde dalla sedia. La dinamica è tuttora ignota dato che non si mosse di un centimetro, ma ci mancò poco che finisse con la faccia nelle salse.

Ben ti sta.

Gli rubai un bacio a fior di labbra prima di tornare seduta comoda mentre la cameriera finalmente ci raggiungeva con le ordinazioni.

Sam 3 - 0 Austin. Vittoria a tavolino.

Questi due se la meritavano proprio un po' di tranquillità, dopo tutto quello che hanno passato! Io li adoro troppo, sono due cucciolini 🥺

Vi annuncio che siamo praticamente agli sgoccioli, questo è il penultimo capitolo e la prossima settimana avrete l'ultimo e l'epilogo. In realtà non li ho ancora scritti (pessima, lo so) ma spero di riuscire a essere puntuale 🙄

Come sempre, mi trovate su ig (flyerthanwind_) per qualsiasi cosa 💖

Luna Freya Nives

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