CAPITOLO 19

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“Alexa!” Distante qualche metro da me, c’era Kalin, vivo e vegeto.

Aveva il respiro affannoso e delle gocce di sudore gli imperlavano la fronte.

“Era un’illusione.” Disse avvicinandomisi e indicando la macchia melmosa, poco distante dalle mie ginocchia.

“E chi mi dice che l’illusione non sia tu!”

Per quanto speravo che Kalin fosse ancora vivo, il Bosco mi stava consumando, facendomi perdere il senno. Non riuscivo più neanche a fidarmi di me stessa: ero come in balia di un turbine che mi faceva vorticare senza mai fermarsi.

“Ti sembra realistica una morte di quel tipo?”

In effetti tutti i demoni finora, alla loro morte, erano diventati cenere nera, senza produrre né l’esplosione, né la melma.

Lentamente mi convinsi che quello che avevo davanti era il vero Kalin, in carne ed ossa, e mi sollevai dal suolo.

“Scusa per i vestiti Milady.”

Kalin mi rivolse un gentile sorriso, mentre iniziava a ripulirmi dalla melma, che però aveva già impregnato i vestiti.

“Quando mi sono accorto di averti persa ho visto del fuoco e sono tornato indietro. Cos’è successo?”

In breve gli spiegai di come la Perdizione Morale aveva cercato di inghiottirmi.

“La collana mi ha salvato di nuovo.” Annunciai sfiorando l’ambra incastonata nel ciondolo.

Kalin restò qualche secondo a fissarla, poi, senza più aggiungere altro, mi precedette, incamminandosi nella gola del Bosco, accertandosi che io fossi sempre dietro di lui.

Man mano che procedevamo sentivo la voce di Leith chiamarmi e i rami scricchiolare, allungandosi verso di me. Reduce della brutta esperienza, cercavo di stringermi nelle spalle o di avvicinarmi a Kalin. Fortunatamente, i rami non mi sfiorarono mai.

Ad un certo punto, dopo del lungo cammino, i fitti alberi iniziarono a diradarsi e ciò mi fece sperare di aver raggiunto la fine della necropoli. Ma mi sbagliavo.

“Questo è il cuore del Bosco delle Ossa.” Disse Kalin solenne.

Davanti a me si stagliava possente un immenso salice piangente, nero e nodoso, come il resto degli alberi. La differenza stava nei suoi rami rigidi e spessi che, conficcati nel suolo, formavano una gabbia attorno al tronco. Le sue radici invece erano, come onde, ora sopra ora sotto il suolo, umido, ma contrastante con tutto il resto: petali di rose rosso scarlatto ricoprivano l’humus, come a formare una grande e unica pozza di sangue.

“Leith!” Il suo nome mi si bloccò in gola, e ne uscì solo un sussurro.

Al centro del salice, fuso nel legno del tronco fino alla vita, c’era Leith, con gli occhi chiusi e il volto chino sul petto, nudo e sanguinante per i graffi.

“È-è anche questa un’illusione, vero?” Chiesi a Kalin, con il cuore che cercava di uscirmi dal petto tanto batteva. Il mezzo demone scosse la testa, mentre un luccichio triste negli occhi gli rabbuiava il volto.

“No, lo vedo anche io.”

Mi portai le mani sulle labbra, cercando di silenziare l’urlo straziante. Dai miei occhi spalancati cadevano, pensanti, grosse lacrime che, segnando due solchi sul volto, lo ripulivano dalla polvere. A passi traballanti ma determinati mi avvicinai ai rami ricurvi sul terreno.

“Leith!”

Lo chiamai disperata una, due, tre volte, ma nulla, riuscivo solo a vedere come lentamente il corpo di Leith continuava ad essere assimilato dal tronco cupo. Cercai di passare attraverso la fessura dei rami, ma erano troppo fitti. Venni presa dallo sconforto e dalla disperazione, mentre guardavo il corpo, sempre meno umano, di Leith. Ma non potevo arrendermi ora, ora che era qui avanti ai miei occhi.

A quel pensiero un'improvvisa scarica di adrenalina mi pervase e afferrai con forza i rami che mi sbarravano la strada.

Brucia!

Dalle mie mani divampò una fiamma selvatica, cocente e viva, che in un solo istante arse il legno, trasformandolo in mera cenere. Attraversai ad ampie falcate la gabbia di rami e raggiunsi il tronco. Sfruttai una radice come piedistallo, per raggiungere meglio il corpo di Leith.

Lo chiamai di nuovo, appoggiando delicatamente la mia mano tremante sulla sua guancia, ma invano.

Incrociai per qualche secondo lo sguardo di Kalin, che era rimasto fuori dalla gabbia a guardare, poi tornai a concentrare la mia attenzione su Leith e feci l’unica cosa che mi venne in mente: pressai con forza entrambi i palmi sul legno secco e, con la massima furia e potenza che trovai, avvampai un gigantesco fuoco, che prese a bruciare e corrodere il salice. Presto però, la mia vista iniziò a sfocarsi, la testa a girare e gli arti a tremare; stavo raggiungendo il limite, ma non potevo ancora arrendermi.

Continuai imperterrita finché il corpo di Leith non fu sufficientemente libero, poi con un'ultima e potente spinta che fece aumentare la voracità del fuoco, mi abbandonai al buio.

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