CAPITOLO 30

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Continuavo imperterrita a camminare, seguendo una linea retta infinita. Ogni passo diventava sempre più difficile da compiere, mentre il piede si infossava sempre più in profondità nella sabbia. Il caldo solito del Sottomondo era del tutto assente, al suo posto un freddo agghiacciante penetrava nelle ossa, mentre degli improvvisi attacchi di vento gelido muovevano la sabbia scura, azzerando la visuale.

I muscoli avevano iniziato a farmi male lunghi minuti prima, e spesso dovevo fermarmi per riprendere fiato. Tuttavia il contatto con la sabbia ghiacciata sequestrava calore dal mio corpo, rimanendo successivamente attaccata sui vestiti, costringendomi a proseguire. Per tutto il tragitto avevo i nervi a fior di pelle e i muscoli tesi. Sapevo che prima o poi sarebbe successo qualcosa, ma non avevo la più pallida idea né di quando sarebbe successo, ne di cosa si sarebbe trattato. Le mie pause stavano diventando sempre più frequenti e lunghe, mentre iniziavo a perdere la sensibilità nei piedi e nelle mani. Non potevo vedermi, ma sapevo che le gote mi erano diventate rosse per il freddo, accompagnando le gambe scoperte che bruciavano, al limite del violaceo.

In quel momento, in lontananza, mi parve di vedere la sagoma di una persona e, prima di rendermene conto, la stavo raggiungendo ad ampie falcate, ma non appena la raggiunsi, fui invasa dal terrore.

Davanti ai miei occhi c’era una scena raccapricciante: una preda, giaceva immobile nel deserto, con la sabbia che la avvolgeva fino alle ginocchia. La pelle era bluastra e le labbra violacee. Aveva gli occhi aperti, ma lo guardo era vuoto. Le ciglia e i capelli erano brinati, mentre i vestiti, diventati duri e lucidi, sembravano realizzati in vetro.

Con un grido caddi all’indietro, strusciandomi con i gomiti e i talloni nella sabbia, cercando di allontanarmi da quel corpo. Mi girai di colpo, e presi a correre in una direzione casuale ancor prima di essere completamente in piedi. Così facendo però, persi inevitabilmente l’equilibrio e rotolai per qualche metro, facendo volare le scarpe a qualche centimetro davanti a me.

Rimasi a terra per alcuni secondi, finché la sabbia gelida a contatto con la mia pelle non mi riportò sull’attenti. Mentre cercavo di alzarmi notai come, lentamente, le mie scarpe stessero venendo inghiottite dalla sabbia scura. Con un sussulto capii all’istante che si trattava di sabbie mobili, e cercai di alzarmi velocemente, ma un forte strattone al braccio destro me lo impedii. La sabbia mi teneva bloccata. Nonostante fossi colta dal panico cercai di ragionare razionalmente e, a piccoli e lenti strattoni, riuscii a liberare il mio braccio. Il mio primo pensiero fu controllare l’ampolla contenente la Stilla Angeli, accertandomi che fosse integra. Successivamente mi rimisi subito in piedi e presi a correre, notando con dolore che il mio braccio non rispondeva più ai comandi e che, avvolto dalla fanghiglia bagnata, era ancora più freddo di prima. Le fitte di dolore erano lancinanti, e spesso dovetti fermarmi per riprendere fiato, ma inutilmente.

Continuai a camminare, senza sapere in che direzione, mentre i miei arti erano diventati completamente insensibili. Quando pensavo che la situazione stesse, in un qualche modo, migliorando, si alzò una forte bufera. Era già capitato, ma questa volta era diverso: più violenta e più duratura. In lontananza vidi la sabbia sollevarsi, girando turbinosamente, mentre continuava ad avanzare crescendo man mano di dimensioni. Dovevo fare qualcosa. Mi guardai intorno ma non c’era né modo di evitare il tornado, né qualcosa a cui aggrapparmi. Avevo bisogno di un’idea, una qualunque idea. Il tornado si avvicinava e con lui, i miei battiti aumentavano, rimbombandomi della testa.

Dieci metri, sette, cinque, tre… non potevo arrendermi, ero riuscita a superare anche il Bosco delle Ossa.

E in quel momento la speranza mi si riaccese.

Due metri. Doveva funzionare, o sarei morta.

Un metro. Chiusi gli occhi.

Zero. Un tepore mi avvolse e il tornado mi superò, lasciandomi illesa.

Aveva funzionato, la collana si era attivata.

Mi lasciai ricadere al suolo, liberando un sospiro di sollievo. La luce dell’ambra però non si era spenta, e continuando a brillare sollevata a mezz’aria, indicava una direzione. La seguii. Qualche minuto dopo, in lontananza, si stagliava possente l’immensa porta in ematite.

Ce l’avevo fatta.

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