Capitolo 22

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Crowley aveva sentito il suo sangue demoniaco smettere di pompare nelle sue vene.

Le parole che aveva appena sentito gli riecheggiavano attraverso la testa, il petto, l'essenza stessa.

È importante capire che Crowley non aveva mai neanche lontanamente pensato alla possibilità di tornare. Non era possibile, semplicemente.

Non si perdeva in certe fantasticherie, perché lo avrebbero distrutto. Ma nemmeno poteva dire di esservi passato sopra con grande facilità. Anzi tutt'altro.

Semplicemente, non era il tipo che nel tempo libero si immagina di essere riaccolto nel Paradiso, spogliato del suo tradimento e dei suoi peccati. Non era una cosa che succedeva.

Eppure.

"Q-quindi io... ecco, dovrei... potrei... risalire?"

Aveva ricordi confusi del tempo in cui era stato un angelo. La nostalgia li annebbiava e li chiudeva in una vera e propria bolla di perfezione.

"Certo che risalirai - disse Remiel, sbuffando - Abbiamo bisogno di te."

"D-di me?"

"Non di te in particolare, non farti strane idee. Però sì, ci serve un altro angelo. Non possiamo permetterci che all'Inferno ci sia un solo demone di troppo rispetto a noi, questo immagino che tu lo capisca."

Crowley rimse solo per un altro secondo in quell'estatica nube di confusione. Solo un attimo, poi la sua testa smise di fluttuare e lui tornò con i piedi per terra.

Crowley odiava gli angeli che non fossero Aziraphale. Li odiava molto profondamente. Certo, non voleva cadere, non si era ribellato con la stessa forza e decisione degli altri, però non era un angelo.

Aveva deciso che il Paradiso non gli piaceva più. Non il giudizio e la fermezza dei suoi abitanti, non il loro disprezzo per ogni cosa che ai loro occhi non fosse santa. Non gli piaceva stare laggiù ma allo stesso modo non sarebbe stato felice lassù.

C'era un motivo se lui era caduto, ed era che in cielo non era felice. Aveva peccato e meritava di essere un demone. Crowley era un demone e, in fondo, non avrebbe potuto in alcun modo potuto desiderare di non esserlo, perché nessuna creatura tra quelle create da Dio quando ancora la terra non esisteva era più lui di un demone.

E poi, Aziraphale era ancora lì, e Crowley non lo avrebbe lasciato da solo per nulla al mondo. Avrebbe fatto in modo di salvarlo, di aiutarlo, e non lo avrebbe abbandonato, mai.

Era già terrorizzato, chissà cosa sarebbe successo se lo avesse lasciato lì, al buio, senza nessuno.

Non sarebbe stato giusto, non sarebbe stato accettabile. Aziraphale non meritava di essere abbandonato.

E poi con che supponenza lo guardava Remiel, con quella profonda convinzione che per forza un piccolo e sporco demone, dopo aver sofferto della propria dannazione per seimila anni, non avrebbe fatto altro che saltellare di gioia all'idea di rientrare nelle grazie dell'Altissimo.

No, non sarebbe andato in Paradiso. Tutto ciò che lui desiderava era la terra, e nulla di più.

"Non posso venire. E non voglio." Crowley incrociò le braccia al petto.

Remiel alzò un sopracciglio, per il resto il suo corpo dall'aspetto ormai sano e forte non si mosse di un millimetro "Temo che tu non abbia sentito. Dovrai smettere di stare in questo ufficio che odi a fare qualcosa che non sopporti, e potrai tornare a essere chi eri millenni e millenni orsono. Raphael."

"Quello non è il mio nome - sibilò il demone - Io sono Crowley."

L'espressione di Remiel si indurì improvvisamente. Era palese che non si aspettasse da lui una reazione simile.

"Probabilmente non sono stato molto chiaro, mea culpa. Non ti sto dando una scelta."

"Ma io sono un demone! Non... funziona così! Non puoi solo dire che ora sono un angelo e rendermi un angelo. E in ogni caso no, io non verrò con te."

Remiel iniziò a battere a terra la punta del proprio piede "Spalanca le ali."

"Cosa?"

"Fallo, e guarda."

Crowley, pur non capendo, fece come gli era stato detto. Aprì le proprie ali, che in un paio di secondi apparvero sulla propria schiena, ben chiuse dato che lo spazio nella stanza non era propriamente ampio.

"Vedi?"

Crowley voltò la testa dietro le proprie spalle, vedendo un ammasso di piume color grigio scuro, non più nero corvino.

"Vedo." rispose Crowley, atterrito.

Non voleva tornare su. Dov'era Aziraphale? Doveva cercarlo, doveva parlargli.

Crowley richiuse subito le ali, puntando verso la porta. Non poteva lasciare che una cosa del genere accadesse.

Dopo neanche un paio di passi, però, si sentì trattenere con decisione dal braccio dell'altro, le sue dita forti e ruvide sul suo polso.

"Devo vedere Aziraphale, lui non può restare qua sotto da solo."

"No, Raphael."

"Non chiamarmi con quel nome schifoso." Crowley cercò di colpire l'altro con la mano libera, senza successo.

"Ricordati che ho ancora dietro l'Acqua..."

"E quindi? Non sono un angelo, ora?"

"Ma lo sei del tutto? Forse è meglio non rischiare così tanto, sbaglio?"

"Non puoi portarmi lassù."

"Oh sì che posso."

Remiel tirò fuori da una tasca quello che sembrava un cellulare di ultima generazione, e fece squillare il telefono.

"Pronto? Ambriel, carissima, me lo riesci a creare un collegamento diretto? Sì? Grazie, ti adoro."

Crowley non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca che venne accecato da una luce bianca. Si sentì fischiare le orecchie per un paio di secondi.

No. Non era possibile.

"No no no no no no no..."

Si guardò attorno. Vide bianco, il bianco di un ufficio, una grande finestra che dava letteralmente sul mondo intero e null'altro.

Si sentì tremare le ginocchia, la gola secca. Davanti a sé, solo Remiel, una scrivania, e un angelo dai capelli biondi.

Sotto i suoi piedi, piastrelle candide.

Lo stomaco gli si attorcigliò su sé stesso. Aziraphale era giù, era solo, lo aveva lasciato da solo.

"Allora Raphael, adesso noi..."

Crowley fece qualche passo. Aveva la testa offuscata. Doveva andare via da quella stanza. Schivò Remiel, come non era riuscito a fare poco prima, e andò verso la porta. Non era giusto, no.

Non lì, lui non poteva stare lì.

Cadde sulle ginocchia prima di arrivare alla porta, e quando Remiel cercò di prenderlo per una spalla si scostò con un gesto rabbioso.

"Non toccarmi!"

Aziraphale era giù, da solo, al buio. E lui era di nuovo lì. Dove non voleva stare.

Sentì la testa pesante, credeva che avrebbe vomitato.

Si limitò a lanciare un urlo che spezzò la quiete di quel luogo tanto candido da fare paura.

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