L'esame del DNA [New]

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Era tarda sera quando Kathy, a partita ultimata, uscì dallo spogliatoio sistemandosi gli occhiali. Si fermò per un attimo sull'uscio, salutando le sue compagne di squadra. Lasciarsi quelle grida alle spalle e inoltrarsi nei corridoi vuoti della Pacific High School un po' le dispiaceva. Salì sull'ascensore diretta all'infermeria e la voce robotica l'avvisò della chiusura delle porte di vetro smaltato. La sua scuola era uno strano miscuglio, conservava il suo involucro esteriore, risalente ai primi del 1900, ma dentro era stata completamente rimodernata da pochi anni. Vedere quei mattoni vecchi di secoli scorrere attorno a lei le dava sempre la sensazione di viaggiare nel tempo, come se quei cubi di terracotta, seppur immobili e inanimati, fossero stati testimoni del passaggio di molte vite. La loro statica indifferenza quella sera le faceva più male. Qualunque fosse stato l'esito di quell'esame, loro sarebbero rimasti lì a guardarla passare e scomparire, inseguendo una vita che non voleva, diversa dall'unica che aveva sognato. Il campionato della NCAA sarebbe andato avanti senza di lei e quel pensiero la faceva sentire impotente.

Rassettò la treccia bionda guardando il suo viso paonazzo riflesso nello specchio, quindi allentò la zip della tuta: si sentiva soffocare dal colletto attillato. Entrò in infermeria a passo lento e strascicato, come quello di un condannato al patibolo. La professoressa Sullivan le sorrise facendo segno di raggiungerla. L'infermiera stava preparando il kit; represse un brivido che le attraversò la schiena. «Allora com'è andato il match?»

La giovane le raccontò diffusamente del risultato, contenta di poter distrarre la sua mente dall'ago che presto sarebbe penetrato nel suo braccio. Percepiva il sudore freddo imperlarle la fronte, ma si costrinse a respirare profondamente.

«Perfetto, due minuti e vedrai che chiudiamo la giornata in tranquillità. Ti vedo tesa!»

«È solo che non mi piacciono gli aghi» semplificò lei sedendosi sul lettino. Si stava giocando una partita a carte coperte e non era solita affidarsi unicamente alla fortuna. Normalmente, sul campo, non aveva paura di sbagliare, ma sapeva anche che la palla era nelle sue mani. Ora invece le pareva di essere lanciata in un destino già scritto al momento della sua nascita. Il suo DNA non lo poteva cambiare, per quanto si allenasse, per quanto si sforzasse, per quanto veloce potesse correre, non poteva mutare chi era.

«Non sei obbligata a guardare.»

Kathy annuì e consegnò i documenti firmati come richiesto dalla mail della sera precedente. Quindi, si impose di continuare a fissare quella donna esile sulla quarantina coi capelli castani, la frangetta e la camicetta a fiori. Doveva ammettere che i suoi orecchini erano eleganti senza essere troppo pesanti; le illuminavano il viso. In quel momento sentì il pizzico dell'ago, serrò le palpebre. Non osò respirare, finché la donna non le slacciò il laccio emostatico e le coprì la puntura con un cerotto. Avvertiva il braccio pesante e le spalle contratte per la tensione. Notò distrattamente l'infermiera consegnare una provetta alla sua docente e inserirne un'altra in una scatola frigorifera chiusa a combinazione.

«Ho letto che sei gruppo sanguigno 0 negativo: sapevi che è molto raro?». L'insegnante si voltò con il suo classico sguardo curioso e indagatore che usava durante le interrogazioni. La sua B era nella media necessaria per poter stare in squadra, ma nulla di più: non aveva mai amato granché le scienze. Questa volta, tuttavia, aveva la risposta: non si trattava di un essere umano qualunque disegnato su un libro di testo, si parlava del suo sangue e sapeva bene quanto era prezioso.

«Quando ero piccola, mia madre era terrorizzata all'idea che mi facessi male. Mi ha istruito a ricordarlo sempre.»

«I tuoi genitori hanno lo stesso gruppo sanguigno?»

«Non ho mai chiesto, in realtà.»

«Se mi dai il tuo permesso, vorrei solo fare un check veloce sul tuo DNA» aggiunse lei condiscendente. La giovane si pronunciò disponibile a patto che questo ennesimo test non fosse troppo lungo: era già in ritardo e aveva promesso ai suoi di rincasare prima delle otto.

Seguì la professoressa nel laboratorio di scienze; Mrs. Sullivan estrasse dalla provetta una goccia del liquido rossastro e la depose su un vetrino. Kathy si sedette in un banco vuoto, guardandola incuriosita. Dopo aver controllato il campione al microscopio, estrasse da una cassaforte un macchinario nero con uno strano simbolo inciso sul lato, che non aveva mai visto: un fiore. Mrs. Sullivan inserì il suo vetrino nel macchinario e le sorrise mettendosi al computer. Tamburellava con le dita sul tavolo mentre aspettavano l'esito. «Allora c'era l'osservatrice di Harvard, questa sera?»

L'allenatrice le era parsa soddisfatta e le aveva detto di stare tranquilla; non aveva indagato più a fondo: Harvard non era mai stata la sua prima scelta. La donna riportò l'attenzione sullo schermo e sbiancò. Rilanciò un altro esame identico, tentando di mascherare il nervosismo. In realtà non riusciva a non tremare. Nascose le mani sotto la cattedra, cercando di non far trapelare le sue emozioni. Non voleva terrorizzare Kathy per un'analisi difettosa. Preferì rilanciare la procedura senza dire nulla.

Kathy percepì il suo disagio. «Cosa c'è che non va nel mio DNA?»

Mrs. Sullivan scorreva su e giù i risultati, come se non avesse udito la sua domanda.

«Dice che non potrò più giocare a pallavolo?» Si avvicinò allo schermo cercando di capire qualcosa in quei grafici, ma faticava a scorgere i numeri. La docente continuava a ignorarla: infine la giovane notò una lacrima scenderle lungo la guancia. Il computer segnalò in quel momento che un'altra analisi era finita. Mrs. Sullivan dopo un attimo di cupo sconforto, si costrinse ad alzarsi con le gambe che le tremavano e il volto pallido di chi non vede via d'uscita. Prelevò il vetrino e la provetta e sparì nel bagno. A Kathy parve di udire il rumore dello sciacquone. L'insegnante tornò da lei, improvvisamente più decisa.

«Probabilmente non è troppo tardi per distruggere anche l'altro campione e mettere il mio sangue al posto del tuo: se mi muovo in fretta, posso farcela. Tu però devi andartene a casa. Non parlare a nessuno di quello che è successo e, soprattutto, se qualcuno mai si dovesse presentare a casa tua, chiedendoti di rifare il test, tu scappa!»

La studentessa la fissò sbattendo le palpebre, senza capire. «Sul foglio c'era scritto che non potevo rifiutarmi, perché mai dovrei fuggire?»

Mrs. Sullivan inspirò profondamente per recuperare tutte le sue energie necessarie per risponderle. «Ci sono quindici tipi di anomalie genetiche riconosciute dal test del DNA che comportano l'iscrizione nella "lista", ma la tua è speciale. Devi ascoltarmi bene; non abbiamo molto tempo. Gli LWF spariscono. C'era un ragazzo che studiava qui qualche anno fa, si chiamava Jacob. Si sarebbe dovuto diplomare, ma è stato rapito pochi giorni dopo l'iscrizione del suo DNA nella lista e non è più tornato. Tu hai diritto di vivere, Kathy, di essere libera, di scegliere e non impedire mai a nessuno di toglierti questo diritto fondamentale. Ora corri, vai e non fermarti finché non sei a casa!»

La fanciulla la guardò un attimo incerta, poi afferrò la sua borsa e scattò nel corridoio come faceva correndo verso la rete. Percepiva le lacrime rigargli le guance, il respiro affannoso e gli arti stanchi, ma non si sarebbe fermata. Lo stabile era completamente deserto e i suoi passi rimbombavano nell'oscurità.

Quando uscì all'esterno si infilò velocemente la giacca. Recuperò dal deposito delle bici la sua mountain bike e partì cascando con un tonfo sulla strada. Il vento di marzo si insinuava nei viali trafficati a fianco di Central Park facendola tremare come una foglia. Le parole della sua insegnante di scienze perdevano i loro contorni e le si confondevano nella mente tanto più procedeva nella notte. I lampioni a led del parco si illuminavano al suo passaggio salutandola col loro profondo ronzio. Gli ultimi corridori si attardavano verso casa e il gabbiotto degli hot-dog stava chiudendo per spostarsi in una zona più frequentata.

Strinse il pugno e si concentrò sulla strada. Era come se, dentro di lei, avesse sempre saputo che quella inutile analisi di laboratorio avrebbe rovinato la sua vita. Da quando Jennifer, la sua migliore amica, aveva fatto l'esame, non faceva che torturarsi al pensiero di quando sarebbe toccato a lei. Le membra le dolevano, ma la schiacciava di più un peso nel petto. Quando arrivò davanti al suo palazzo in mattoni a faccia vista rossi si fermò di botto. Smontò e portò la bicicletta nel deposito a fianco dell'ingresso elegante. Guardò il telefono: le sue mani tremavano e con esse anche quello schermo. C'erano tre messaggi di sua madre. La professoressa era stata chiara e sembrava terribilmente certa. Doveva davvero mentire? Si asciugò le lacrime e salì sull'ascensore.

Allison era in cucina con un pesante grembiule addosso e ai piedi un paio di scarpe che costavano più della sua paghetta di sei mesi: stava impostando sul forno il grado di cottura della carne. Era il suo compleanno e probabilmente le aveva cucinato uno dei suoi piatti preferiti con le sue mani, per farsi perdonare del muffin della sera precedente. Kathy però aveva lo stomaco chiuso come una cassaforte a combinazione, ma se non avesse mangiato nulla i suoi avrebbero capito subito che qualcosa non andava. Le diede un bacio, avvicinandosi.

Suo padre era impegnato nello studio: vedeva il riflesso di una conference call sul muro e sentiva voci ignote provenire dalla stanza. La giovane si sedette al tavolo della cucina ed azzannò una barretta proteica cercando di respingere la nausea in gola.

«Com'è andata la partita?» Le sembrò strano che non le chiedesse del prelievo di sangue, poi ricordò che era indicato nel foglio che i risultati sarebbero arrivati a casa per posta. Come aveva fatto Mrs. Sullivan a sapere già l'esito in pochi minuti con quel macchinario?

«Abbiamo vinto. C'era l'osservatrice di Harvard. Penso di aver fatto bella figura» rispose tentando di frenare la voce tremante. Le sembrava così lontana ormai la scelta del college: il suo DNA aveva una delle quindici anomalie. Quale fosse, poco contava. Prima o poi, i suoi genitori l'avrebbero scoperto, forse anche i compagni di classe, perfino gli amici, allora non avrebbe più potuto giocare.

«Sembri così pallida, però! Sei stanca, tesoro, o è stato quell'esame?» Allison si avvicinò, le accarezzò il volto e le passò una mano nei capelli.

«Lo sai che odio gli aghi.» Le sorrise debolmente. Ogni prelievo o flebo della sua infanzia era stata una piccola tragedia, perciò temeva tanto gli ospedali. Questa volta, tuttavia, aleggiava in lei una paura più adulta e profonda che riguardava strettamente il suo futuro, ma parlarne ad alta voce equivaleva ad ammettere che il suo sogno era finito, spezzato, distrutto. Non voleva sentirsi rimproverare per tutto lo studio rimandato a causa di allenamenti o partite.

«Vedrai che domani andrà meglio. Vai su in camera a stenderti un po'. Ti chiamo quando l'arrosto è pronto, ho usato la ricetta della nonna Olga» disse la madre.

La ringraziò, salì le scale e infine si gettò sul letto. Le tremavano le gambe: era davvero esausta. E se quel test avesse rovinato tutta la sua vita, la sua carriera, le sue speranze? Forse Mrs. Sullivan poteva realmente sistemare quella strana situazione. In quel caso aveva ancora un piccolo barlume di speranza, eppure non si capacitava del perché l'insegnante si fosse offerta di rischiare a tal punto per lei e il suo futuro: non era nemmeno una delle sue alunne migliori.

Ancora vestita si lasciò andare a un sonno tormentato.

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