La "lista" [New]

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New York, 9 marzo 2015

"Il DNA è una combinazione unica, un dado lanciato nell'universo, il «libretto di istruzioni» che regola ogni singolo aspetto del tuo organismo: pensa a come sei esteriormente, a come le persone attorno a te ti vedono e ti percepiscono come essere unico, pensa alle minime interazioni a livello cellulare: ogni piccola mutazione ha un enorme impatto sulla tua salute e sulla qualità della tua vita. Non ti piacerebbe scoprire come funziona davvero il tuo corpo e come sarà il tuo futuro?"

Kathy rilesse tra sé e sé le poche frasi di quella mail, poi sistemò la montatura nera degli occhiali sul naso. Si alzò in piedi e si sporse dalla finestra della sua stanza. Il sole di marzo si stava nascondendo tra le torri d'acqua e i tetti di Manhattan: adorava il momento della giornata in cui quel disco luminoso si incanalava tra i palazzi dai mattoni rossi dall'Upper West Side e sgusciava poi nelle strade, disegnando lunghe ombre sui marciapiedi. Si aggiustò la treccia bionda e studiò la fanciulla davanti a lei roteando le spalle contratte per il lungo allenamento del pomeriggio.

Portava ancora addosso la divisa della squadra: era come se avesse paura di togliersela. Non poteva fallire ora che il suo unico sogno era lì a portata di mano. Per realizzarlo doveva oltrepassare un ultimo scoglio, qualcosa che sfuggiva al suo controllo e, per questo, ancora più spaventoso: il test del DNA effettuato dalla scuola per conto del governo. Alcuno studente aveva la possibilità di sottrarsi senza precludersi il futuro. Per una sportiva come lei, quel test era la prova del nove: nessun istituto avrebbe ammesso un'atleta con un problema genetico qualsiasi. Data la sua storia clinica le pareva veramente di giocare con un dado truccato: l'esito non era affatto così scontato come poteva sembrare.

Era nata prematura, incapace di alimentarsi autonomamente e con un soffio al cuore, operato all'età di tre anni: prima di allora i suoi l'avevano tenuta in una specie di campana di vetro. Aveva sofferto di fragilità ossea per buona parte dell'infanzia, soprattutto alla colonna vertebrale e questo le aveva precluso molte attività. In quel momento, mentre studiava le ombre scavallare le linee del passaggio pedonale in fondo all'isolato, le parve di sentire un peso sul petto. Quando il fisioterapista, finalmente, le aveva consentito di liberarsi del busto all'età di dieci anni e aveva suggerito ai suoi genitori di farle frequentare uno sport "simmetrico", che permettesse il corretto sviluppo della sua postura, aveva sbuffato pensando la mandassero in uno di quei classici centri per la riabilitazione che aveva già frequentato da piccola ogni volta che si rompeva un osso qualsiasi. Invece si era ritrovata in una vera palestra con palloni e un numero inciso sulla maglia: era stata una rivelazione.

Per la prima volta nella sua vita si era sentita non più diversa, ma speciale. La sua allenatrice diceva sorridendo che aveva un goniometro in testa, come se i suoi occhi riuscissero a tracciare la traiettoria giusta, l'angolazione perfetta nello spazio per mandare la palla esattamente nel punto e nell'istante giusto sopra la rete. Mrs. Brown era sicura che Kathy potesse diventare una giocatrice professionista. Dal canto suo, la ragazza non aveva alcun piano B. Era una sfida, la sua sfida, era ciò in cui era più brava. Non le interessava molto lavorare in campo scientifico come il padre o tentare la strada del foro al pari della madre. Lei voleva solo rincorrere un pallone il più a lungo possibile.

­­«Katherine!» Una voce decisa e squillante la riportò al presente. La giovane lasciò il portatile acceso e corse verso le scale.

«Non si corre per i corridoi, quante volte te lo devo ripetere?» Il padre sbucò dalla loro stanza matrimoniale ancora in camicia e cravatta, impregnati dell'odore di disinfettante, come accadeva sempre se doveva trascorrere alcune ore del suo tempo in giro per i reparti dell'ospedale; il solo sentirlo le causò un fremito.

«Non ricomincerai con le statistiche di incidenti domestici?» Kathy lo precedette giù dalle scale.

«È un problema serio che nessuna famiglia americana dovrebbe sottovalutare» la rimbeccò lui mentre si slacciava la cravatta abbandonandola sul corrimano. Steven Richardson ero un uomo alto e possente; la camicia bianca di ordinanza non riusciva del tutto a nascondere i muscoli derivanti dalla sua passione per il canottaggio. La attirò a sé e le stampò un bacio sulla fronte. Lavorava nel consiglio amministrativo dello Union Mercy, una grossa clinica privata vicino a Union Square che Kathy conosceva, tristemente, fin troppo bene. Da bambina scherzava dicendo che aveva più amici in quell'ospedale che a scuola o nel suo quartiere.

Sua madre, Allison, stava scartando la cena. Kathy era abbastanza sicura fosse indiano dall'odore pungente di curry che inondava la sala. Non si cucinava spesso a casa Richardson. Kathy addentò una Samosa e una cascata di sapori gli esplose in gola al frantumarsi di quel piccolo triangolino di pasta fritta. Si sedette sullo sgabello e appoggiò un braccio sul ripiano.

«Non avevi chiesto una cena leggera per via della partita di domani?» le ricordò la madre. Kathy sorrise imbarazzata. Allison le assomigliava parecchio: era una donna alta, dal fisico prestante e gli occhi scuri che nascondeva dietro una montatura elegante e dorata. Il taglio sbarazzino con la frangetta le aveva tolto diversi anni: se non fosse stato per la collana elegante o per la giacca di Tweed, avreste potuto pensare che Kathy avesse una sorella più grande.

«È arrivata la mail della .NET Genomics» confessò la ragazza massaggiandosi il gomito. Doveva aver dato un colpo durante un tuffo. La stanza precipitò nel silenzio; la madre deglutì a fatica la Samosa che aveva in bocca.

«Devi stare tranquilla, Kathy, non c'è niente che non va nel tuo patrimonio genetico, è solo una formalità» rispose il padre versandosi un bicchiere di vino. Per quanto cercasse di nasconderlo, appariva teso. Allison si schiarì la gola e lo trapassò con sguardo severo. «Che c'è? Anche se l'analisi trovasse un'anomalia, penso sia meglio saperlo in anticipo, ci dà più opzioni per il suo futuro.»

«L'unica opzione che voglio è un college che giochi nella NCAA» Kathy si riferiva al campionato studentesco di maggior rilievo per la sua fascia di età.

«Sai come la penso, non puoi giocare tutta la vita, presto o tardi dovrai cercarti un vero impiego.» La madre le aveva ripetuto quella frase come un mantra negli ultimi cinque anni. I suoi genitori non sembravano valutare la carriera sportiva al pari di un lavoro.

«In qualsiasi collage vedrai che troverò qualcosa che mi piace, l'importante è giocare ... e passare quello stupido esame!» Addentò nervosa il suo magro pollo Tandoori. Le facevano davvero gola quei succulenti triangoli.

«Quando hanno introdotto il test, nel 2008, sono stato ben contento di effettuarlo. Nessuno ha posto resistenza nella nostra clinica» sottolineò Steven.

«Non avevano ancora istituito la "lista"» replicò polemica l'avvocatessa.

«Cos'è la "lista", mamma?»

«È un database dove inseriscono le persone per cui sono stati evidenziati difetti genetici. A causa della "lista" il 5% degli infermieri e dei medici ha perso la sua occupazione nel solo stato di New York, dalla mattina alla sera; ci sono state grandi cause, appelli: è stato inutile.» Allison riepilogò.

«Sono numeri gonfiati. Non saranno sopra al 2%! Sono tutti bravi a parole, ma chi lascerebbe il cuore di sua figlia in mano a un medico con evidenti problemi genetici che potrebbero compromettere la sua performance in sala operatoria?» la provocò Steven alzando per un attimo il tono di voce.

Kathy appoggiò la forchetta stupita: di solito non parlavano mai della sua operazione, come se quell'evento fosse stato rimosso dalla storia dell'universo Richardson.

«È la più grande violazione della privacy che sia mai stata consentita da uno stato di diritto.»

«La "lista" non è pubblica, non lo è mai stata.»

«Per le cliniche, per le case farmaceutiche è accessibile senza alcuna restrizione o autorizzazione da parte dell'organo giudiziario» arringò Allison.

«È stata istituita apposta, altrimenti come facciamo a curare le persone se non conosciamo la loro situazione genetica? Non hai idea delle cause milionarie che abbiamo dovuto affrontare in passato per diagnosi errate o uso di medicinali a cui il soggetto era allergico.» In fondo quei numeri facevano parte del suo lavoro.

«Certo, che ne ho un'idea! Tuttavia, esistono altre soluzioni, meno invasive» iniziò a spiegare a sua figlia.

«Una prelievo di sangue una volta nella vita non è invasivo» la interruppe Steven seccato. «Il cerotto è solo una buffonata pubblicitaria: la commissione istituita dal senato ha dimostrato che i risultati non sono certi, non come lo può essere un test del DNA.» Il padre di Kathy era sempre alquanto rigido quando si parlava di questioni mediche.

«Ovviamente, ma forse è più che sufficiente.» La donna tentò di mitigare la situazione abbassando i toni. Si era accorta che Kathy li guardava a turno spaventata: se prima aveva paura di fare quell'esame, ora ne aveva decisamente il terrore.

«In ogni caso è inutile discutere, se voglio giocare nella NCAA l'anno prossimo, devo effettuare il test» rispose la ragazza alzando le spalle. Le si era chiuso lo stomaco. Non erano tanto i battibecchi tra loro su questioni etiche a cui era alquanto abituata, era la sensazione crescente di sentirsi intrappolata in un vicolo senza via d'uscita.

«Kathy, sei sicura di stare bene? Non hai mangiato niente!» le chiese preoccupata la madre.

Steven trasse un profondo respiro, pentendosi di essersi alterato. «Perché non vai a farti una doccia e dopo mangiamo il dolce?»

Kathy annuì mesta abbandonando il suo pollo speziato per ritirarsi in camera sua. Si sporse dalla finestra: il pub in fondo alla via aveva acceso le luci a led colorando l'asfalto di rosso e di giallo. Il camion della spazzatura procedeva lento: ormai non ci faceva nemmeno più caso al rumore profondo e ripetitivo delle spazzole. Il suo laptop la fissava immobile nella penombra della sera: scorse la mail fino al termine. Lesse una scritta in piccolo vicino alla fine del foglio che doveva stampare e firmare per il giorno successivo.

"Chiunque si rifiuti di effettuare il test nei luoghi e modi previsti dalla sua istituzione scolastica verrà punito con una pena pecuniaria fino a 5000$ e potrà essere scortato dalla polizia a effettuare nuovamente l'esame."

Kathy sospirò e spense il computer. Erano tutti impazziti? Stava per compiere diciott'anni, non una rapina in banca a mano armata! Lasciò che l'acqua calda scivolasse sul suo corpo e nella sua mente trasportando via i pensieri. Uscita dalla doccia si sentiva come svuotata: il compleanno avrebbe dovuto essere un evento gioioso e lieto, eppure tutte quelle assunzioni di responsabilità, gli esami, il college... Le sembrava di essere uno di quei palloncini puzzolenti di fritto che regalano all'uscita di Fast Gamp, il ristorante di gamberi. Solitamente, nessuno riusciva a passare l'angolo della trentaduesima strada, prima che il palloncino scoppiasse facendo girare la schiera di poliziotti di pattuglia o i figuranti attorniati da turisti.

Quando tornò nella sua stanza, la madre era seduta sul letto e un muffin coperto da gocce di cioccolato giaceva sulla scrivania nella sua cartina bianca anonima. Kathy lo guardò delusa e si sedette scartando il dolcetto.

«So che non è quello alla vaniglia con le fragole, mi hanno trattenuta in ufficio, ma giuro che domani ti prendo qualcosa di buono nella pasticceria sulla quarantaduesima» le promise Allison mortificata. Si alzò in piedi e guardò la figlia con un sorriso dolce, poi le accarezzò il viso. Le pareva impossibile che quel piccolo esserino coperto di tubi nell'incubatrice, a cui davano il latte con una siringa senza ago, fosse diventata una splendida ragazza, una campionessa, una sportiva. Non poté che lanciare un'occhiata alla pesante cicatrice che le scorreva lungo il petto e svaniva sotto l'asciugamano.

«Non permettere mai a uno stupido esame di definire chi sei. Qualsiasi cosa ti dicano, tu sei un miracolo, Kathy, e lo rimarrai sempre. Stai dritta con la schiena!» Le baciò la fronte, tirandole su il busto. La ragazza le sorrise con la bocca ancora sporca di cioccolato. Un vero miracolo.

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