Prologo

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Aaron aprì gli occhi.

Si mise a sedere bruscamente, senza nemmeno pensarci, e scosse la testa sperando di riprendersi. Era certo che sarebbe caduto dal letto, finendo con il naso sul pavimento. Fu sorpreso di tastare la fredda superficie con le dita, senza percepire però le familiari lenzuola: non si era nemmeno accorto di trovarsi già a terra.

Alzò la testa e osservò l'ambiente intorno a sé; si trovava in camera sua, ma non c'era più nulla: niente mobili, niente poster, niente foto e niente letto. Le pareti ormai spoglie non erano di quel blu acceso che ricordava fin da quando era bambino, bensì nere; più si fermava ad osservarle più gli sembrava che si allontanasse sempre di più da lui, facendolo annegare in un'oscurità che non aveva mai fine.

Provò ad alzarsi in piedi ma cadde subito sulle ginocchia. Un forte dolore lo invase, mandandogli una scossa per tutto il corpo. Era da solo, solo e incapace di muoversi. Solo e... ferito.
Emise un verso strozzato quando vide che le punte delle sue dita erano macchiate di sangue. Quel rosso purpureo brillava sulla sua pelle diafana, ancora fresco.
Aaron si guardò di nuovo intorno e vide che il suo specchio era riapparso nell'esatto punto in cui lo vedeva ogni giorno, ma sembrava che stesse fluttuando in mezzo al nulla. Il ragazzo si trascinò finò ad esso appoggiandosi con i palmi a terra. Arrivato di fronte al vetro osservò il suo riflesso e quasi non riuscì a riconoscersi: i capelli prima rossicci erano più scuri, quasi corvini, e le sue iridi castane erano diventate di una sfumatura rossa, innaturale. Aveva anche dei graffi sul petto, più profondi di quelli che le sue unghie avrebbero mai potuto infliggere.

Stava avendo molti incubi nell'ultimo periodo ma quello era diverso. Sapeva bene che era pur sempre un sogno, eppure sembrava così terribilmente reale, come se lo stesse vivendo davvero. Quella stanza, così simile alla sua ma allo stesso tempo come se non gli appartenesse, gli faceva credere di star sprofondando in una realtà che non era la sua, come se fosse finito nel luogo sbagliato. Non era il suo posto, non era la sua casa, e lui non era al sicuro.

Con un grande sforzo, Aaron riuscì ad alzarsi. Ignorò il dolore alle gambe e al petto e iniziò a camminare lì intorno. Ad ogni suo passo la stanza continuava a ingrandirsi, come se il ragazzo non si stesse realmente muovendo.
Sbatté le palpebre ancora pesanti per il sonno e la scena intorno a lui cambiò: le pareti e lo specchio, gli unici oggetti a lui familiari, erano scomparsi.
Aaron si ritrovò circondato da un'oscurità che sembrava avvolgerlo, simile a un mantello scuro che si stringeva intorno al suo corpo fino a soffocarlo.

Per la prima volta nella sua vita sperò di finire con la testa contro un muro, o di andare a sbattere il piede contro un mobile... e invece non percepiva nulla. Qualunque cosa fosse quel posto in cui si trovava non aveva una fine; sembrava un mondo parallelo, ma senza vita, dove il tempo non scorre e non c'è mutamento. Senza niente. 

L'unica cosa che lo teneva ancora aggrappato alla sua sanità mentale era sentire il pavimento sotto i piedi. Cercava in tutti i modi di non pensare a cosa sarebbe successo se fosse scomparso anche quello: una discesa nel vuoto, una caduta eterna, fino all'oblio.

Cominciò a pensare che fosse solo un incubo, ma c'era qualcosa, come una voce nella sua testa che cercava di convincerlo della sua lucidità. Aaron sentiva di star vivendo qualcosa di vero, anche se non completamente, come se fosse ancora attaccato al mondo reale con una fune ma non riuscisse a tirarsi su.
In qualche modo sapeva che niente sarebbe stato più come prima, tutto stava cambiando, e non poteva fare nulla per impedirlo.

Fino a quel momento non si era mai reso conto che c'era qualcosa che non andava. Intorno a lui tutto era rimasto sempre invariato: era tutto normale.
Aaron però era cambiato, non era più lo stesso. Si svegliava in mezzo alla strada o nel bosco, continuava ad avere incubi, un'ombra lo perseguitava ovunque e aveva delle frasi nelle testa che non riusciva a comprendere. Anzi, una frase. Ogni giorno capiva qualche sillaba, ma le parole erano ancora troppo confuse e in disordine perché riuscisse a dar loro un senso logico. 

Nel silenzio più totale uno strano rumore, simile al respiro di un animale, risuonò alle sue spalle. Il ragazzo strinse i pugni e affondò le unghie nei palmi, sentendo un dolore inaspettato, acuto e pungente. Tra le sue dita scivolò del sangue, denso e scuro, che gocciolò vicino ai suoi piedi per poi scomparire completamente, come se fosse stato assorbito dal pavimento.
Aaron alzò la testa e chiuse gli occhi, sperando che quel rumore cessasse ma divenne solo più forte; sembrava provenire da ogni angolo, vicino e lontano: un sussurro indistinto, una profezia proibita.

Il ragazzo si girò cauto e vide ciò che temeva di più, il mostro che dominava tutti i suoi incubi. Lo riconobbe all'istante: il corpo umanoide ma più alto e snello, più simile a un'ombra; gli occhi grandi e vuoti, eppure in grado di lanciare sguardi che attraversavano il corpo di Aaron come la lama di una spada, fin dentro alla gabbia toracica.

All'improvviso, come se qualcuno avesse gridato nel silenzio, sentì ancora la frase nella sua mente, quella che continuava a ripetersi in ogni suo incubo.

Stavolta era chiara, l'aveva capita:

Tu appartieni all'oscurità.

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