Capitolo 18 - Strenght

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Jep si muoveva freneticamente nell'atrio della sua magione, masticando nervosamente del tabacco. Non riusciva ancora a capire come aveva fatto il prigioniero a scappare, anche se una flebile idea aleggiava nella sua testa. Le rughe d'espressione gli disegnavano il viso in un perenne stato di feroce ira.


Dannatissimo Gufo, bofonchiò fra sé. Era sicuramente stato lui a tradirlo.
Quel Brick era potenzialmente in grado di metterlo in manette. L'unico che avrebbe potuto testimoniare portando prove certe del suo coinvolgimento.


«Mi hai fatto chiamare, Jep?» chiese con vigore il magnate russo, facendo il suo ingresso.
«Sì. Ho bisogno di un favore, caro Alexander», asserì Jep, poggiando una mano sulla spalla del suo interlocutore e aumentando la pressione via via che parlava.


«Forse è meglio concludere qui le nostre collaborazioni, Jep», mugugnò Alexander, intimorito.
Jep gli rivolse un sorriso macabro, prima di sputargli addosso un grosso bolo di tabacco masticato.


«Non sembravi di questa opinione quando mi hai chiesto di far fuori la tua cara figlioletta Natalia».


Alexander chiuse gli occhi, improvvisamente colto da un senso di colpa invisibile dall'esterno.


«Odio i genitori che vogliono uccidere i figli» commentò a bassa voce Jep, staccandosi da Alexander come se provasse effettivamente un senso di nausea dovuto alla sua vicinanza.
Alexander continuò a non rispondere.


«Hai due possibilità, schifoso: o mi aiuti o muori. Sta a te».



Quando aprì gli occhi si rese subito conto che Gufo non era lì. Tirò un sospiro di sollievo e cercò di rimettersi in piedi. Tutti i muscoli del corpo sembravano essere contrari all'azione, infatti si trovò costretta a sedersi di nuovo sul pavimento polveroso su cui dormiva da giorni. Si toccò il viso, cercando di capire se fosse cambiata esteticamente, ma le sembrò essere tutto uguale, al tatto. Anche la mano robotica era ancora lì, con le sue movenze scattose ma precise.
Sospirò, sdraiandosi. Anita si chiese cosa avrebbe fatto adesso che era una Diversa. Non avrebbe potuto semplicemente presentarsi in centrale e sperare che nessuno se ne sarebbe accorto. Rottemberg era un tipo particolarmente attento ai dettagli.


Si chiese se i suoi amici la stessero cercando.


Anita non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Le uniche persone che le erano state accanto durante tutta la sua vita poteva contarle sulle dita di una sola mano. La squadra duecentocinquantaquattro era tutto per lei. Il pensiero che Rottemberg non la stesse cercando le riempì il cuore di una rabbia cieca, che la portò a scagliare un pugno contro il pavimento, il quale si aprì in due in un solco profondo nel terreno. Le mattonelle spaccate a metà le avevano lacerato la carne della mano. Anita osservò la scena come in catalessi. Non poteva essere veramente stata lei. Non aveva mai avuto così tanta forza...


Tremò visibilmente.


«Nervosetta?» chiese la voce del suo carceriere, improvvisamente piombato nella stanza.
«Dove cazzo sei stato?» berciò Anita, tirandosi in piedi e ignorando il giramento di testa improvviso che la colse alla sprovvista.


«Già inizi a essere gelosa, mi piace», commentò sarcasticamente Gufo, poggiando una busta a terra, «Ti ho preso la colazione».


Anita si rese conto che la busta sembrava contenere qualcosa di vivo, perché si muoveva a scatti. La detective la osservava con fare sospetto.


«Non mi sembra il solito vassoio di uova e bacon», commentò Anita, perplessa.
Gufo sfoggiò il suo miglior sorriso. «Oh, noi non mangiamo quella roba».


Dicendo questa frase rovesciò la busta ai piedi di Anita, scoprendo una lepre grassoccia e ancora molto viva, che la abbagliò con i suoi occhi giganti prima di fuggire saltellando via rapidamente.


«Mi prendi in giro?» chiese Anita, perplessa. Per un attimo pensò che si trattasse di una nuova tortura ideata da Gufo. Il pensiero la rese di nuovo rabbiosa.


«No», asserì candidamente, «I Diversi mangiano carne viva. Vedrai che quando avrai fame te ne renderai conto da sola».


Anita arricciò il naso, guardando Gufo.


«Non mangerò mai un animale vivo»
«Allora muori di fame».


Era difficilissimo cercare di esporre un'idea diversa da quella di Gufo. Lui non avrebbe mai capito come si sentiva in quel momento, pensò Anita, guardandolo lasciare di nuovo l'edificio.


Le sue nuove orecchie riuscirono ad avvertire i passi di Gufo allontanarsi. Lo ascoltò muoversi fino alla Streitmeier, poi si rese conto che era abbastanza lontano. Si fiondò subito alla porta d'ingresso e con un pugno secco riuscì a sfondare la serratura.

Gufo aveva sbarrato tutto con una serie di catene e lucchetti, i quali erano diventati come burro nelle sue mani da Diversa. Anita si meravigliò di sé stessa, quando, finalmente, mise piede all'esterno della struttura.

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