Capitolo 37 - True Lies

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Anita riusciva a stento a trattenere le lacrime, mentre Gufo la gettava per l'ennesima volta in una stanza buia, locata al piano inferiore della Villa. La mancanza di luce e la fame, che si faceva sempre più pressante spinsero Anita a emettere un suono gutturale all'indirizzo dell'uomo.


«Che paura», bofonchiò lui, sarcastico, allacciandole i polsi con delle manette di metallo pesante. Quando gliele infilò, Anita avvertì tutta la sua rabbia sciogliersi come fosse stato un gelato al sole.


«Queste le fanno appositamente per noi, inibiscono la rabbia. Sono fatte di titanio», spiegò Gufo, con tono stranamente gentile.
Anita venne colta da un misto di nostalgia e dolore che le impedirono di guardare l'uomo negli occhi.


«Perché mi stai facendo questo, di nuovo?» bisbigliò lei. Era una domanda rivolta al cielo, più che a Gufo.
«Perché mi disgusti, Anita».


Lei strinse forte i pugni, ma neanche un minimo della rabbia che prima le avrebbe permesso di spaccare il cemento a mani nude, sembrava riuscire più a raggiungerla.
Era stata stupida, per l'ennesima volta. I suoi colleghi non sarebbero potuti venire neanche a prenderla.


«Ma tu... mi stavi aiutando. Mi hai baciata...»
Gufo rise, di gusto.
«Non farmici ripensare», commentò lui, scacciando il pensiero con la mano, la bocca ancora distorta in un sorriso.


Gufo le finì di legare anche i piedi con quelle stesse manette speciali, e poi si congedò con un sorriso, lasciandola da sola.
Anita non poteva crederci, tutta quella situazione aveva del surreale. Era sicura che sarebbe morta. Era giunto il momento.
Si era riuscita a salvare per due volte, ma aveva la sensazione che stavolta stata quella fatale.
Gufo sembrava un'altra persona rispetto all'ultima volta in cui l'aveva rapita. Era premuroso e amorevole.


Anita socchiuse gli occhi. La fame l'aveva investita duramente qualche momento prima, facendola lentamente impazzire.
Muoversi con quelle manette addosso era quasi impossibile.


«Cosa faccio adesso?» mormorò Anita, fra sé. Si sfilò dai jeans la polaroid che aveva rubato dalla stanza di Gufo e la fissò intensamente. Nonostante fosse buio, i suoi occhi da Diversa riuscivano a vedere tutti i dettagli del luogo e della foto che teneva fra le mani. Quella era l'unica differenza tangibile rispetto alle altre volte. Il fatto di riuscire a vedere la stava aiutando ad avere meno paura.


Il suo stupido cervello pensò subito a Gufo. Sperava che l'avesse trasformata appunto per riuscire ad affrontare meglio quei momenti.
Scosse violentemente la testa e si focalizzò di nuovo sulla foto.


Il ragazzino biondo era inequivocabilmente Gufo. Aveva i suoi stessi occhi e le stesse labbra sottili. Anita carezzò la foto in corrispondenza della testa del bambino, poi fissò i suoi occhi in quelli del giovane Jep.


Nonostante la foto fosse rovinata riusciva a vedere benissimo le sue iridi screziate d'ambra, e i suoi capelli lunghi e neri avvolgergli le spalle, come una cascata di notte. Era la prima volta che vedeva il sorriso sincero di Jep Tucci.
Un rumore metallico la riscosse dalle sue elucubrazioni. La porta di ingresso si stava riaprendo.
Gufo rientrò nella stanza, accompagnato da una figura che Anita non avrebbe mai più voluto incontrare.


Vin si ergeva dietro Gufo, sovrastandolo di almeno una decina di centimetri. La sua pelle grigia e avvizzita le conferiva una nota malaticcia che Anita trovò ripugnante.
Anita indietreggiò velocemente, muovendosi come un gambero, sfruttando solo il sedere per spostarsi.


«Non scappare, Anita», sussurrò lei, dolcemente. «Non ti faremo del male».
Anita sputò un mezzo sorriso pieno di risentimento, «Permettimi di non crederci».


Gufo sollevò leggermente gli angoli della bocca, poi lasciò Vin da sola con Anita.
Come poteva abbandonarla con quella creatura? Un nuovo moto di odio la invase.
Vin si accucciò davanti a lei. Ora poteva vederle bene il volto e le ferite incrostate che colavano un vischioso liquido verdastro. Anita volse lo sguardo altrove, schifata. Il suo odore speziato le stava inebriando i sensi, rendendole impossibile il respiro.


«Possiamo parlare?» chiese la donna, cupa.
Anita rimase chiusa in un silenzio astioso, incredula e nervosa.
Vin lo prese per un sì e, accomodandosi meglio sul pavimento gelato, afferrò le mani legate di Anita, iniziandole a carezzare dolcemente.


Un'ondata di disgusto la travolse, ma decise di lasciarla fare. A ogni modo, non sarebbe riuscita a reagire con la forza necessaria per fermarla.


«Mi dispiace non essere riuscita a salvare Brick. Non sono tornata in tempo», esordì la donna, con evidente dolore nella voce.


Anita odiava il nome di Brick in bocca a quello schifo, ma decise di non interromperla.
«Però sono riuscita a salvare te», continuò Vin, utilizzando l'altra mano per carezzare i capelli neri di Anita.


«Cosa c'entro io?»
Vin socchiuse gli occhi, perdendo qualche scaglia grigia durante l'operazione.
«Tu sei mia figlia, Anita».


«Cosa?»
«Lasciami spiegare, ti prego», sussurrò la donna, stringendole più forte le mani.
Anita sentiva la testa vorticare. Quella creatura orrenda davanti a lei poteva essere sua madre?


Non lo avrebbe accettato in alcun modo. Non senza avere le prove. Strinse i pugni.


«Ero felice, da giovane. Mi ero appena sposata con Steven, il padre di Brick. Lui era nato da pochissimo e non potevamo essere più felici di così», esordì Vin, con tono materno e dolce che non le si addiceva affatto. «Brick era un bambino meraviglioso, capace di donarti amore con un solo sguardo».


Anita non voleva sapere niente di tutta quella storia. Non aveva mai voluto saperne delle persone che l'avevano messa al mondo. Non le era mai importato.


«Un giorno sono stata rapita. La Ruggine era ancora una cosa relativamente nuova, a quel tempo, e le persone iniziavano a costruire sotterranei e bunker. Io... avevo solo sbagliato strada», la voce di Vin si ruppe, preoccupata. «Lui mi prese e fece cose che non riesco neanche a ripetere...»


Anita sembrò addolcirsi leggermente, voltando di poco il capo verso di lei. Una voce nel retro della sua testa era certa che stesse parlando della stessa persona che aveva torturato lei per anni.


«Ha fatto tantissimi esperimenti su di me. Mi ha reso quello che sono ora, questa creatura che non riesci neanche a guardare negli occhi».


Anita era consapevole degli esperimenti che si facevano all'inizio della Ruggine sulle persone; per cercare di tamponare l'incremento del morbo dei Diversi o per diventare qualcosa che potesse contrastarli. Ora, la pena che provava verso quella donna sembrò diventare solida, quasi riusciva a toccarla.


«E, ovviamente, mi ha stuprata innumerevoli volte», concluse, abbassando lo sguardo a terra.
Anita prese un forte respiro. Era ben conscia di quello che avrebbe portato quella conversazione. Non era pronta a sentirselo dire. Non voleva sentirlo.


«Rimasi incinta del mio torturatore, Jep Tucci. E dopo nove mesi di prigionia, nascesti tu».


Anita avvertì chiaramente il suo mondo crollare a terra, farsi in mille pezzi.


«Lui ormai era convinto che sarei rimasta sempre insieme a lui visto che avevamo una figlia, ma io non vedevo l'ora di tornare da Steven e da Brick... una notte ti presi e scappammo insieme»


Vin aveva ripreso un colorito roseo, mentre raccontava quella parte della storia.


«Purtroppo, però, Jep aveva già ucciso Steven tanto tempo prima, lasciando il mio Brick in chissà quale orfanotrofio».


Anita sembrava boccheggiare, alla ricerca di un'aria che non sembrava essere più presente in quella cella.


«Decisi che sarebbe stato meglio lasciare al sicuro anche te... Ti misi il nome di Anita e ti lasciai al primo orfanotrofio che vidi. Lui non ti avrebbe mai potuto trovare... ero serena».


Vin stringeva così forte le sue mani che Anita sentì mancare il respiro.
«Peccato che poi sia stata lei a trovare me», commentò la voce sarcastica di Jep Tucci, improvvisamente comparso sullo stipite della porta.

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