Capitolo III - Segreti rivelati

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Banner inizio capito a cura della fantasmagorica -pistacchia.

La caffetteria Barney era affollatissima come sempre e un caloroso vociare ci accolse non appena mettemmo un piede nel locale. Adocchiai un tavolino libero e salii in tutta fretta le scale verso il piccolo soppalco, lasciando scorrere la mano sulla ringhiera metallica piena di graffi e piccole imperfezioni; adoravo quel posto. Le assi in legno del pavimento erano una vera meraviglia, non ce n'erano due dello stesso colore: avevi la stessa probabilità di trovarne sia una rossa di ciliegio, sia una azzurra riciclata da chissà quale edificio. I mobili che l'arredavano seguivano quella stessa regola, tutti unici a modo loro.

Ordinammo due crêpes: alla nutella per me e alla marmellata con granella di nocciole per Rose.

«Come mai ti sei trasferita qui a Templar?» chiesi a un certo punto, curiosa di saperne di più sul suo conto.

Rose tentennò, quasi fosse sorpresa dalla mia domanda. «I miei genitori sono separati», asserì con fare menefreghista, tipico di qualcuno a cui in realtà importa più di quanto non dia realmente a vedere.

«Mio padre è sempre in giro per lavoro e io abito con mia madre e mio fratello, Rey. Tanto tempo fa, mio nonno comprò dei terreni qui intorno che ci ha lasciato in eredità. All'inizio dovevamo occuparci solo di una semplice vendita, ma alla fine la mamma si è innamorata di questa cittadina ed è voluta rimanere. Perciò eccomi qui» continuò sospirando, con lieve sorriso abbozzato sulle labbra, «ad aspettare di fiondarmi su un buon piatto caldo e a parlare con una persona vista solo poche ore qualche giorno fa!»

Ridacchiai, pensando a come la sua vita fosse stata sconvolta in così poco tempo; di sicuro non si aspettava che prendesse quella piega: se fossi stata io a dovermi trasferire senza alcun preavviso dopo la scomparsa di mio padre, non l'avrei presa con il sorriso sulle labbra. Il pensiero di ricominciare da capo mi terrorizzava.

«Non che mi lamenti, certo», proseguì, arrotolando una ciocca rossa attorno al dito per spostarla dal volto. «Dove vivevo prima era decisamente peggio! Il paesaggio era mozzafiato, ma non avevamo molto tempo per godercelo. Spesso lo studio mi teneva fuori casa per giorni, mentre mio fratello alternava la scuola e il lavoro per poter permettere una vita migliore a nostra madre. Almeno fino a quando non abbiamo ereditato questa piccola fortuna.»

La ascoltai rapita, curiosa di conoscere lei e il suo passato.

Il discorso però fu interrotto dall'arrivo delle due nostre crêpes accompagnate da altrettanti frullati.

«Mi scusi» dissi ad alta voce, richiamando la cameriera. «Noi non abbiamo ordinato niente da bere.»

La ragazza, con tono piatto, replicò che dei ragazzi seduti a un tavolo vicino al nostro ce li avevano offerti. Poi, senza perdere altro tempo, girò i tacchi e se ne andò sculettando. Io e Rose ci guardammo intorno alla ricerca dei nostri ammiratori, ma notammo solo gruppi di quattro o più persone che non ci stavano prestando attenzione.

«Secondo te sono stati quei due dall'aria sospetta?», domandò sottovoce Rose indicando una coppia di uomini sulla trentina che fissava con malcelata curiosità la cameriera. La sua espressione era semiseria, perciò un brivido mi percorse la schiena.

«Speriamo proprio di no. Comunque, non ho la minima intenzione di assaggiarne anche solo un sorso: sia mai che venga preso come un segno di incoraggiamento!», commentai con voce stridula.

«Meglio così!» Allegra, la rossa allungò le mani per portarsi vicino anche il mio frullato, bevendolo con gusto.

Per diversi minuti fummo avvolte da un piacevole silenzio, ci limitavamo a mangiare e noncuranti di ciò che ci circondava. Senza che ce ne rendessimo conto, il locale aveva cominciato a svuotarsi; le finestre del bar lasciavano entrare la luce soffusa della luna che, con il suo colore argenteo, faceva apparire la pelle di Rose ancora più pallida. Nonostante l'atmosfera che si era venuta a creare fra noi due non fosse sgradevole, cominciavo a sentirmi a disagio, perciò proposi di fare una passeggiata nel parco.

Al momento forse il termine più appropriato era bosco, dato che negli alberi si erano moltiplicati e nessuno se l'è mai sentita di tagliarli. Era una macchia verde così gradevole!

Intorno a noi, tutto era tranquillo: il vento soffiava tra le foglie dando vita a una melodia delicata, gli animali del sottobosco si muovevano tra i rami secchi provocando scricchiolii che talvolta ci facevano sobbalzare, per poi farci arrivare a ridere della nostra stessa paura.

«Sai che al centro di esso» e indicai la fitta vegetazione alla nostra destra, «si trova una statua in bronzo del fondatore di Templar risalente alla fine dell'Ottocento?» Mi aveva sempre affascinato la sua storia, perciò sperai non dispiacesse a Rose che la condividessi con lei.  «Dicono lui l'abbia fatta realizzare in una notte il giorno prima della sua morte, come se sapesse ciò che stava arrivando.» Mi girai verso di lei, abbassando la voce e sussurrando: «si presume sia morto: in realtà non si è mai trovato il corpo. È scomparso da un giorno all'altro e nessuno ha più saputo nulla!»

La ragazza mi guardò fissa e poi scosse la testa. «Ora è sicuramente morto o dovrebbe avere più di cento anni e dubito sia possibile... a meno che non sia un vampiro.»

Le risate furono fu troncate sul nascere da un veloce rumore di passi dietro di noi.

D'istinto guardai Rose e, con lentezza, ci voltammo. Nessun coniglio, per quanto grosso, avrebbe potuto fare un frastuono simile. L'aria venne squarciata da un nitrito acuto e subito cercammo l'una il contatto con l'altra.

«Non ti muovere» sussurrò Rose con un filo di voce.

Ero paralizzata dalla paura, quindi dubito sarei riuscita a fare anche solo un passo. Sforzai la vista e, con mio grande orrore, riuscii a scorgere tra i rami l'avvicinarsi di un'enorme macchia scura dalla quale spuntavano tentacoli di tenebre in ogni direzione. Pian piano che la figura si avvicinava, prendeva una forma sempre più nitida e avrebbe infestato i miei incubi per ogni notte a venire.

«Scappa!» urlò Rose, dandomi uno spintone verso gli alberi.

Non me lo feci ripetere due volte e iniziai a correre a perdifiato, perdendo anche l'orientamento.

Dietro di me sentivo un respirare strozzato e feci il madornale errore di voltarmi. La creatura era a una decina di metri da me e stava guadagnando terreno. Assomigliava a un lupo che si muoveva retto sulle zampe posteriori e brandiva per aria un lungo bastone nero. Il ripugnante muso equino terminava con un naso consumato e lurido ed era incassato in due spalle larghe ricoperte di peli ispidi. Le orecchie appuntite come lame e si muovevano appena a ogni minimo brusìo.

Gridai e cercai di aumentare il passo, terrorizzata oltre l'inverosimile e incapace di metabolizzare ciò che stava accadendo. Sapevo solo di essere inseguita da una bestia alta due metri che non pareva aver intenzione di fermarsi.

Di Rose, nessuna traccia.

All'improvviso, la creatura fece un balzo verso di me, buttandomi per terra. Sentii subito il sapore del sangue in bocca e iniziai a piangere.

Era la mia fine.

Guardai il suo muso squadrato e fissai i miei occhi nei suoi: erano due buchi neri senza anima. I suoi denti si stavano avvicinando sempre di più verso il mio volto ed io ero bloccata al suolo senza via d'uscita.

Una luce verde fece arrestare il mostro, che si voltò di scatto, lasciandomi lo spazio necessario per sgusciare via. Non mi premurai neanche si capire cosa l'avesse distratto, tornai soltanto a correre sperando di capire dove fossi.

«Elizabeth, fermati.»

Mi bloccai, guardandomi intorno spaventata. Speravo con tutto il cuore che non fosse ancora quella bestia. Un ragazzo uscì dall'ombra di un albero e mi si avvicinò cauto. Indietreggiai e strinsi i pugni, pronta a colpire come mi aveva insegnato Owen.

«Non voglio farti del male», disse lui, alzando le mani con i palmi rivolti verso di me. «Ho solo bisogno che mi ascolti.» Aveva i capelli biondo argenteo e gli occhi del colore del mare.

Tutte le cellule del mio corpo mi urlavano di continuare a scappare, eppure non lo feci. Volevo provare a capirci qualcosa. «Chi sei?»

«Mi chiamo Ocean. Sei al sicuro adesso: Rose si è occupata del nostro piccolo problema.»

Che egoista, non avevo più pensato a lei da quando avevo visto il mostro. Mi ero solo preoccupata di salvarmi.

Ocean, che sembrava aver letto il rimorso nei miei occhi, si affrettò ad aggiungere: «Sta bene, non preoccuparti. Hai fatto la cosa giusta, non l'avresti potuta aiutare.»

Adesso che stavo riprendendo lucidità, tutto ciò che era appena successo mi investì con forza. Che cosa era appena successo? E soprattutto, perché c'era uno sconosciuto nel bosco che conosceva il mio nome e la situazione in cui ero?

Mi si accese un campanello d'allarme e cercai una scusa per andarmene. «Se non ti dispiace, ora tornerei a casa.» Senza neanche aspettare una risposta, ripresi a correre. Non avevo la minima idea di dove fossi, ma qualunque altro posto era meglio di quello. In più, non ero neanche certa che la bestia non spuntasse da chissà dove da un momento all'altro.

Finalmente iniziai a vedere le luci della città e sorrisi. Ero quasi al limitare della strada cementata, quando una voce delicata rimbombò nelle mie orecchie come una cantilena.

«Non aspettare l'alta marea,

ma accogli il consiglio della Dea

fino a quando il Tempo scorrerà senza sosta

tu rimarrai sola e nascosta.

Quando però a questo verrà imposto un blocco

sii più veloce del prossimo rintocco;

i Dodici soltanto troverai

dopo che con cura cercato avrai.

Ma ricorda, solo di Sei ancora in vita non ignoro,

perciò affrettati se non vuoi perdere anche loro.

Accogli il tuo raro dono

perché per te è già previsto un trono.»

Scossi la testa con forza, premendomi le mani sulle tempie: non potevo fermarmi adesso, ero quasi in salvo.

«Lasciami stare!» gridai al cielo. Ormai mancavano una manciata di passi; riuscivo a scorgere bene le case di fronte a me. Di colpo, non vidi più nulla. Tutto era nero. Tentai di invocare aiuto, ma non fui in grado di emettere alcun suono. Che il mostro mi avesse uccisa senza che nemmeno me ne accorgessi?

Abbassai le palpebre, arresa alla mia nuova cecità. Pian piano, il cuore tornò ad avere un battito regolare e iniziai ad avvertire il peso della stanchezza. Forse era arrivato il momento di concedermi il riposo di cui avevo davvero bisogno.

Mi accasciai esausta a terra, facendo scricchiolare le foglie.

Sentii poi il mio corpo sollevarsi da terra. Un braccio sotto le spalle e uno sotto le gambe, un corpo caldo contro cui accoccolarmi e un passo cadenzato mi cullavano. Adesso non avevo paura.

Dei bisbigli mi tenevano desta, anche se non abbastanza da prestare attenzione a cosa dicessero. Ero al sicuro, questa quiete aveva lavato via come acqua fresca tutta l'ansia e il terrore puro che mi avevano attanagliato lo stomaco fino a poco prima; ero finalmente in pace.

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