Capitolo II - Una serpe in casa

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Rose non si fece più vedere per un paio di giorni e più volte mi ritrovai a chiedermi cosa le avesse potuto dire la preside. Questo era il pensiero fisso che mi assillava nell'ultimo periodo e in quel momento ero così lanciata in svariate congetture, che quasi riuscii ad estraniarmi dal compleanno in corso.

Solo quasi però, dato che per i festeggiamenti di zia Loren c'era un tale caos che l'unica cosa che avevo voglia di fare era rinchiudermi in camera.
In genere, in casa Aldrich non ci si risparmiava quando era il momento di dare una festa e nemmeno questa volta fu fatta eccezione. Palloncini e festoni di varia dimensione e dai discutibili colori erano appesi in ogni angolo della casa; i bambini correvano nel giardino sul retro mentre gli adulti sorseggiavano champagne nei loro calici di cristallo, regalo gentilmente offerto dal padre di Caroline dopo il trasferimento.

«Buongiorno, zuccherino!» Zia Loren, che in quanto festeggiata doveva aver bevuto un bicchiere di troppo, mi si avvicinò strizzandomi le guance con fare amorevole per poi bloccarsi e fissarmi con un cipiglio curioso sul volto rubicondo. Era una donna di media statura e formosa, amante della cucina in ogni sua sfaccettatura e del giardinaggio.
Fui sul punto di chiederle qualcosa su una ricetta pur di rompere quel silenzio imbarazzante, ma lei mi rivolse un sorrisone e, prima che potessi aprire bocca, scomparve in salotto.

Mi intrattenni per alcune chiacchiere veloci con alcuni dei parenti che avevo riconosciuto e, una volta certa di aver svolto appieno il mio ruolo di padrona di casa, sparii in camera mia.

«Aspetta, Ellie!»

No, la tortura non era ancora terminata, pensai amara.

Caroline era dietro di me che mi teneva salda per un braccio.

Mi voltai esasperata. «Cosa vuoi?» Sperai con tutto il cuore di togliermi quella spina nel fianco in fretta.

«Solo parlare.» Si guardò intorno circospetta. «Da sole.»

La scrollai di dosso pizzicandole la mano e ricevetti un'occhiataccia. «Quanto mistero» e feci strada verso camera mia.

Lasciai la porta aperta, per precauzione. «Sii breve.»

Inspirò profondamente, si sedette sul letto e iniziò un discorso molto strano. «Senti, lo sai che ti voglio un mondo di bene e che, essendo tu la mia unica sorella...»

«Sorellastra» tossii sottolineando il nostro reale legame di parentela. «I nostri genitori non sono nemmeno ancora sposati, perciò non esagerare con le iperboli.» Alan non avrebbe ricoperto il posto di mio padre e lei di certo non sarebbe mai stata davvero una di famiglia, soprattutto se si ostinava a comportarsi in quel modo così sgradevole.

Lei in risposta mi incenerì con lo sguardo, ma non si fece abbattere. «Come stavo dicendo, io farei di tutto per te perciò devi essere sincera: ti dà fastidio che io esca con Dallas?» Notai che mi stava squadrando a fondo, forse cercando nella mia espressione reazioni a quanto aveva appena detto. «So che è il tuo migliore amico da sempre, siete uniti da una vita e tutte queste belle cose. Tuttavia, lui mi piace davvero molto e gradirei che non ti mettessi in mezzo.»

Feci spallucce. «In realtà non mi è mai interessato con chi stesse. So per certo che presto o tardi riconoscerà la serpe che sei veramente e ti scaricherà come ha già fatto con tutte le altre» dissi, scandendo bene ogni parola.

«Tranquilla, le cose sono diverse con me.» Caroline scosse i boccoli biondi, deliziandomi di un sorriso smagliante. «E poi, mi stai dicendo così solo perché sei invidiosa che io abbia qualcuno che tenga a me, mentre tu rimarrai la solita piccola Elizabeth che nessuno considererà mai più di una semplice amica.»

Strinsi forte le mani attorno alle lenzuola, piuttosto che attorno alla sua gola. «Vattene», ringhiai a voce bassa. Non avrei sprecato nemmeno un solo secondo in più della mia vita ad ascoltare le sue stupidaggini.

Caroline, allegra, si alzò e si diresse ancheggiando fino alla porta. «Sono felice che abbiamo chiarito, ora sto molto meglio senza questo peso sullo stomaco. Io torno alla festa, tutto questo parlare mi ha fatto venire fame, ciao.» Uscì dalla camera agitando le dita di una mano a mo' di saluto.

Rimasi pietrificata e incredula per le sue parole. Un secondo dopo, nel punto in cui era fino a pochi attimi prima, lanciai la fotografia che ci ritraeva da piccole e che tenevo in bella vista sul comodino, promemoria del fatto che un tempo avevamo avuto un bel rapporto. Come poteva una bambina tanto buona essere divenuta una tale vipera?

La cornice e il vetro erano subito andati in frantumi sul pavimento e, nonostante sapessi che avrei dovuto pulire, non lo feci; riuscii soltanto a fissare i cocci sparsi per terra e ad architettare un piano per vendicarmi.

Mi alzai di scatto e presi una giacca poi, attenta a non tagliarmi i piedi, mi precipitai fuori di casa infuriata come non mai, ignorando tutti i presenti incuriositi.

A passo spedito, mi diressi verso la fine della strada a casa di Dallas. Bussai con violenza. Un attimo dopo udii distintamente il rumore di passi al di là della porta. Mi aprì una donnina minuta che mi informò dell'assenza del mio amico.

Prima ancora che riuscissi a formulare la domanda che sentivo avere sulla punta della lingua, mi chiuse la porta in faccia lasciandomi lì fuori impalata a fissare sconcertata gli intagli sul legno bianco. 

Proprio in quel momento però, squillò il telefono.
Non riconobbi il numero, perciò fui un po' titubante nel rispondere.  «Pronto?»

«Ciao, sono Rose. Ci siamo conosciute un paio di giorni fa a scuola.»

«Ciao! A cosa devo l'onore di questa chiamata?», domandai un po' dubbiosa. Non mi ricordavo di averle lasciato il mio contatto.

«Stamattina, appena mi sono sentita meglio, ho chiamato la segreteria della scuola chiedendo di te perché... Be' sei la persona con cui ho parlato maggiormente. Volevo chiederti i compiti e cosa mi fossi persa. Sono la nuova arrivata, mi manca solo essere ancora più indietro con il programma di quanto non lo sia già.»

Guardai l'orologio e notai che erano solo le sette e gli ospiti non se ne sarebbero andati prima delle dieci: avevo ancora un mucchio di tempo prima che si accorgessero della mia assenza. Esitai un secondo, giusto il necessario per decidere cosa fare. Tornare a casa non era un'opzione plausibile: avrei preferito buttarmi in una vasca piena di squali piuttosto che rivedere la faccia compiaciuta di Caroline. Decisi dunque che un po' di compagnia non mi avrebbe fatto male.

«Se ti va, posso raccontarti a grandi linee ciò che abbiamo fatto e potremmo incontrarci alla caffetteria Barney. La trovi quasi all'incrocio di Hallway Street e Crossroad. Comunque, ti mando l'indirizzo preciso. Affaccia sul parco principale; dovresti riuscire a trovarlo senza troppi problemi, è l'unico bar della città.»

«Perfetto, arrivo.» Dal suo tono intuii che la mia interlocutrice stava sorridendo dall'altro capo del telefono.

Sperai di essere stata il più precisa possibile e che lei avesse un buon senso dell'orientamento o una cartina a disposizione anche se Templar non era una cittadina così grande. La vita sociale si sviluppava su tre strade principali - Hallway Street a Est, Ivory Lane a Ovest e Old Row a Sud - che si incrociavano fino a formare una Y. Al centro, si apriva una piazza che ospitava una grande fontana in marmo. Crossroad era una traversa di Hallway Street e costeggiava gran parte del grande parco che occupava la parte occidentale di Templar ed era piena di negozi. A Nord invece, vi era un'intera zona dove sorgevano le ville delle famiglie più ricche; le persone normali come me invece vivevano sulle colline di Old Row, mentre la scuola sorgeva a metà di Ivory Lane.

Mi ero persa così tanto nei miei pensieri che non mi resi conto di quanto tempo avessi sprecato. Iniziai a correre fino a che, a un certo punto, alzai lo sguardo e notai un volto conosciuto illuminato dalla luce fioca dell'insegna al neon del bar.

«Alla buon'ora! Avevo paura di dover iniziare a fare i conti con i capelli bianchi!» cominciò subito Rose non appena mi vide arrivare, indicandosi la chioma riccioluta.

Emisi un respiro strozzato, poggiando le mani sulle ginocchia. Avevo sicuramente perso un polmone sul marciapiede e, sovrappensiero com'ero, avevo pure sbagliato strada un paio di volte.

Lei, incurante del mio stato fisico, mi prese sottobraccio esortandomi a entrare. «Andiamo a mangiare qualcosa così ci scaldiamo.»

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