Capitolo VII - Bar Luxtos

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Varcai le spesse porte di legno del Bar Luxtos con un certo tremore. Era strano entrare in un bar in pieno pomeriggio e con il sole che ancora brillava, ma in fondo una coca cola non mi avrebbe di certo uccisa, al massimo sarei passata per strana ma ormai ci ero abituata. Appena dentro, mi resi conto di quanto fosse normale e ordinario come ambiente: i raggi che entravano dalle veneziane semichiuse scacciavano le ombre e lo rendevano accogliente. Molti tavolini rotondi di colore blu scuro disposti in ordine casuale si specchiavano sul lucido pavimento di legno ed erano abbinati ad almeno quattro sedie intonate a essi. C'erano sì e no una decina di persone accomodate e sparse in vari gruppi. Nessuno però era solo come me.

Facendo scorrere lo sguardo, notai che dietro un grosso paravento lavorato con cura, s'intravedevano anche due grossi divani di bella fattura, coperti da un lussuoso tessuto marrone, che stonavano parecchio con l'aria di semplicità che permeava il resto del locale. Dall'altra parte della stanza, appesa al muro, c'era una TV accesa, ma senza audio. Andai verso il bancone, stando ben attenta a non sedermi accanto a qualcuno, e mi accomodai su uno di quegli sgabelli alti e scomodi.

Ci volle un attimo prima che due occhi grigi mi si parassero di fronte per squadrarmi da cima a fondo, facendomi arrossire maledettamente. «Che cos'abbiamo qui?»

Quasi cadetti dallo sgabello. Mi sentivo colta in flagrante pur non avendo fatto nulla di sbagliato: insomma, non c'era nessuna insegna che vietasse di entrare senza consumare alcolici!

Il ragazzo si voltò, prese una bottiglietta di vetro, la stappò e me la porse. «Offre la casa.» Fece un sorriso stiracchiato e io, per paura di fare una figuraccia, l'accettai senza troppe cerimonie. Bevetti un lungo sorso, non smettendo di squadrare il barista, e subito mi sentii meglio: era una bevanda così fresca e più dissetante di qualunque cosa avessi mai assaggiato; come una limonata, ma più dolce.

Sembrò trovarmi divertente, forse per il fatto che neanche mi ero preoccupata di ciò che mi stava dando in mano.

Sorrisi. «Grazie.» Osservai il suo profilo, attratta dall'aura di mistero che emanava. Non era troppo alto e aveva un fisico abbastanza mingherlino; i capelli erano lunghi fino al mento, castani e raccolti in una coda e il colorito della pelle era pallido.

Lui finì di sciacquare varie stoviglie e infine si avvicinò, poggiando i gomiti sulla superficie lucida e mi squadrò con attenzione. «Non sei di qui. Da dove vieni?»

Il mio sorriso si trasformò in una smorfia. Non avevo intenzione di aprirmi con uno sconosciuto. «Da fuori città.»

«Hm... Interessante, Miss Vengo-da-fuori-città. Tu credi nel destino?» Il suo tono si era fatto basso e profondo, le sue dita sottili si erano avvicinate alla mia mano che ancora stringeva la bottiglia.

Boccheggiai, non sapendo che rispondere. I suoi zigomi alti e affilati ebbero un fremito, poi scoppiò a ridere, attirando l'attenzione dei presenti.

«Io sì.» Subito la voce tornò squillante. Si portò uno straccio sulla spalla con un gesto fluido e si allontanò, andando a servire una vecchia coppietta poco distante. Aveva un passo deciso, ma elegante e la sua figura era delicata, ma allo stesso tempo forte. Insomma, quel ragazzo era l'emblema dei contrari!

Finii la mia gustosissima bibita e all'improvviso mi ricordai perché fossi venuta lì.

Attesi che il biondo tornasse da me per chiedergliene un'altra. Appena me la porse la trangugiai avida.

«Vacci piano. Non è proprio succo di frutta.» Posò una mano sul collo in vetro, allontanandomela dalle labbra con gentilezza. In un primo momento fui tentata di dargli uno schiaffo, però poi, quando mi resi conto che la testa cominciava a vorticare appena, gli diedi retta.

Appoggiai la bottiglia sul bancone e presi un bel respiro. «Sto cercando Dante Turner, lo conosci?»

Il ragazzo si era voltato, abbassandosi a prendere qualcosa che non riuscivo a vedere. «Dipende da chi lo chiede.»

«Myrna.» Sospirai flebile, ripensando a come quella donna mi avesse mandato lì senza una spiegazione.

Riapparve nel mio campo visivo, mettendomi davanti agli occhi un bicchiere d'acqua. «Bevi, ti farà stare meglio», affermò, indicando la mia fronte imperlata di sudore. Mi passai una mano sul volto, imbarazzata.

Come a leggermi nel pensiero, lo strano barista fece un cenno del capo fino a che non capii che mi stava mostrando dove fosse la toilette; lo ringraziai e, un po' barcollando, lo raggiunsi.

Aveva un buon profumo di pulito ed era bello luminoso, grazie al lucernario sopra la mia testa. Mi fiondai nella parte riservata alle donne.

Strinsi le mani attorno al lavandino, cercando di impedire alla mia testa di girare. Alzai lo sguardo e ciò che vidi riflesso nello specchio non mi piacque per nulla: i miei occhi marroni avevano una strana scintilla, parevano essere più tendenti al rosso. Sorvolando sul mascara colato e sui capelli non più trattenuti nella coda, c'era qualcosa nei tratti del mio viso che pareva più spigoloso, ma allo stesso tempo anche affascinante.

Oh, mamma, che quello strano tipo al bar mi avesse drogata? Il semplice alcool non faceva venire strane allucinazioni. O almeno credevo, dal momento che non è che ne avessi mai realmente abusato.

Scossi la testa, aprii l'acqua e aspettai che diventasse gelida prima di buttarmela in faccia. Mi godetti la sensazione delle goccioline fredde che mi scivolavano sulla pelle, rinvigorendomi un poco. Il giramento di testa c'era ancora, ma per lo meno non mi formicolavano più le mani quanto prima. Dopo pochi istanti, sentii bussare.

«Tutto bene lì dentro?» La voce del barista si fece largo con prepotenza nella confusione che avevo in testa. «Non per farmi i fatti tuoi, ma mi sto preoccupando.» Sentii la maniglia girare e dall'espressione che fece quanto mi vide si poté capire quanto capisse il mio imbarazzo per la situazione.

Posò una mano fredda sulla mia guancia e si piegò verso di me, scrutandomi. «Hai mai bevuto qualcosa in vita tua?», domandò infine sarcastico e prendendomi sottobraccio. «Perché sembri una dodicenne che ha appena assaggiato un sorso del vino della mamma.»

Ero troppo stanca per ribattere e, onestamente, farmi trascinare via era la cosa che mi veniva meglio in quel momento. Usciti dal bagno, mentre lui continuava a prendermi in giro, adocchiai un gruppetto di ragazzi seduti al bancone proprio dove prima c'ero io. Uno di loro, in particolare, catturò la mia attenzione. Forse era per gli svariati tatuaggi sul braccio destro che si intravedevano oltre la manica della felpa tirata su fino al gomito o forse a causa del dilatatore al lobo e al piercing al naso che, combinati con le macchie di inchiostro che gli decoravano la pelle, avrebbero dovuto dargli un'aria minacciosa, ma che era contrastata da qualcosa di angelico nei tratti del suo volto affilato e del naso dritto. Mi ricordava qualcuno.

Il barista mi strinse appena un braccio e affrettò il passo. «Vengono da fuori città anche loro.» Si strinse nelle spalle e mi lanciò un'occhiata eloquente. «Però non credo siano delle tue parti, nonostante abbiate molto in comune.» Non fui certa di aver sentito bene ultime parole, dato si erano un po' perse nel caos dei nuovi arrivati che ridevano sguaiati. Erano in sei, così diversi tra di loro; eppure, così simili per certi versi: emanavano tutti un'aria strana, carica di elettricità. Erano vibranti.

Li stavo fissando spudoratamente, quando all'improvviso il ragazzo tatuato si voltò verso di noi e fissò lo sguardo in quello del biondo al mio fianco. «Dante, quattro speciali e due birre.» Rimase a bocca aperta un secondo, come se stesse pensando, e poi posò gli occhi su di me. Uno strano cipiglio si dipinse sul suo volto, poi distese le labbra in un sorriso allusivo e aggiunse. «Appena ti liberi.»

Feci subito per ribattere di farsi gli affari suoi quando mi resi conto di essere ancora aggrappata alle braccia di Dante - perciò il barista aveva un nome che, per dirla tutta, era lo stesso della persona che stavo cercando lì dentro - mentre lui teneva un braccio saldo attorno alla mia schiena fino a cingermi la vita. Forse poteva apparire un po' ambigua come situazione, considerando che ci stavamo dirigendo dietro il bancone, più precisamente verso la porta sul retrobottega. Dante fece un cenno del capo e non disse nulla, limitandosi a spingermi oltre la soglia. La stanza non era molto grande e ospitava solo una poltrona un po' malridotta, una piccola televisione e un frigorifero rumoroso. Le pareti erano di un beige sbiadito, non c'erano finestre e l'unica fonte di luce proveniva da una lampada a muro. Mi adagiò con gentilezza sui cuscini sgangherati e andò verso una cassapanca dello stesso colore della tappezzeria. Ci frugò dentro per alcuni attimi, dandomi il tempo di assaporare quell'atmosfera di calma e comodità. Sebbene quel mobilio avesse visto giorni migliori, era davvero confortevole!

Chiusi gli occhi respirando forte e, con grande felicità, mi accorsi di stare molto meglio, tanto da tornare a ficcanasare.

Piegai la testa da una parte, analizzandolo. «Cosa stai cercando?» Non riuscivo a vedere nulla oltre le sue spalle larghe benché magre. La maglietta cerulea non si addiceva al suo incarnato pallido, lo rendeva più sciupato ed evidenziava le occhiaie che avevo notato prima. Di certo lavorava molto, considerando quanto sembrasse stanco; forse aveva più bisogno lui di me una bella dormita.

Sbuffò, scuotendo la testa. «Una cosa.»

Esitai un attimo, ma decisi di rimanere in silenzio: non credevo avrei ottenuto di più. Rimasi a rimuginare sul fatto che speravo con tutto il cuore che mia mamma non si fosse accorta della mia assenza tanto prolungata. Tuttavia, il fatto che non si fosse ancora presentata al bar armata fino ai denti fosse un buon segno.

Un forte odore agrodolce mi riportò alla realtà. Dante era in piedi davanti a me e mi stava porgendo una scatola di legno scuro un po' rovinata. La presi, benché titubante, e senza aggiungere niente lui sparì dentro il bar. Per un attimo fui tentata di aprirla un poco, giusto una sbirciatina. La soppesai e la scossi piano, ma non udii altro che un suono sordo; non era leggera e non avevo la minima idea di cosa potesse contenere, sapevo solo che emanava quell'odore acre. Dopo svariati minuti che ero sola, mi decisi ad alzarmi per andare a indugiare sulla maniglia. Mi passai la mano libera sul volto e aprii quella dannata porta, convinta di ciò che stessi facendo, più o meno. Lo sguardo di Dante e dei ragazzi subito si posò su di me, trapassandomi.

Il ragazzo mi guardò con aria dubbiosa, ma non fece domande. «Vedo che sei pronta per tornare fuori città.» Poi sorrise. «Alla prossima allora, Elizabeth.» Lo oltrepassai, quando mi bloccò prendendomi per un braccio. «E non scordarti di dare la scatola a Myrna», disse indicandomi lo scrigno che tenevo stretto.

«Grazie mille. Ci vediamo, Dante.»

Mi incamminai, sorridendogli un'ultima volta.

Il sole era ormai calato e l'aria si era fatta frizzante. Pochi minuti dopo intravidi il palazzo dove abitava Myrna e, mentre mi trovavo in ascensore, mi resi conto d'un tratto di un particolare strano: io non avevo mai detto il mio nome a quel ragazzo, perciò come poteva conoscerlo? Il trillo che segnava che ero arrivata al piano giusto mi riportò coi piedi per terra, lontano dalle mie congetture: conosceva Myrna, perciò di sicuro lei gli aveva parlato di me e lui mi aveva riconosciuta. Mi diedi della stupida a voce alta, rassicurandomi.

Entrai in casa e poggiai sul tavolino d'ingresso la pesante scatola di legno che tintinnava ad ogni passo; chissà cosa conteneva, bottiglie forse?

Subito l'iconica treccia color carota apparve di fronte a me. «Ti sei divertita, cara?»

Risposi con un cenno della testa; non avevo gran voglia di raccontare la mia esperienza, siccome ancora sentivo la lingua appena impastata. Myrna mi studiò, curiosa. Poi fece scorrere lo sguardo verso le mie mani, ancora vicine al contenitore color ebano. I suoi occhi si illuminarono. «Grazie mille.»

Le feci l'occhiolino e andai in soggiorno, per tastare il territorio con la mamma. Era ancora sprofondata nel divano che guardava interessata un documentario sullo spazio; appena mi notò, mi fece un gran sorriso. «Ben tornata! Ti stavo giusto aspettando per andare a casa», esclamò allegra.

Sospirai, felice di vederla così tranquilla. Si alzò, corse a ringraziare la sua migliore amica per l'ospitalità e presto fummo in macchina alla volta di Templar.

Erano solo le otto di sera, perciò avevamo ancora tempo di far qualcosa appena arrivate.

«Grandioso, un weekend sole donne!» esclamai contenta. Finalmente avevamo un po' di tempo per restare sole io e lei. Quando ero piccola, almeno un giorno alla settimana lo passavamo tranquille sul divano a mangiare pizza e gelato, guardando film d'amore strappalacrime o commedie improponibili.

Non fecero eccezione nemmeno quei tre giorni, dove potemmo concentrarci solamente l'una sull'altra. Mi sentivo in pace dopo molto tempo, rilassata e al sicuro tra le braccia amorevoli di mia madre, senza pensare a nulla.

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