10. Volevo smettere di sentire dolore

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CORRETTO

Sapevo che questo momento sarebbe arrivato, non dovrei stupirmi più di tanto. Ma la preparazione psicologica non può evitare di farmi sentire quei brividi di paura che si aggrappano alle caviglie e risalgono fino allo stomaco.

Mi muovo con estrema lentezza verso la figura di mia madre di spalle, immobile, seduta su una sedia a fissare un punto indefinito della cucina. Sapere che possa essere ferita o addirittura delusa, mi stringe il cuore fino a fare male.

«Ciao, mamma» soffio, mentre sposto la sedia di lato e mi ci siedo con estrema cautela.

«Davvero ti sei fatta mettere in punizione?» mi domanda senza degnarmi di uno sguardo. Il suo sguardo, nonostante lo veda di profilo, non posso evitare di notare che sia colmo di delusione mischiata ad una tristezza permanente e che non le lascia lo sguardo ormai da anni.

Che fine ha fatto mia madre? Non riesco mai a darmi una risposta ed è doloroso doverlo ammettere a sè stessa, ogni volta, come se dentro di me coltivassi una piccola speranza di poterla veder ritornare da me, la mia mamma, e cancellare tutto quello che ci è successo.

E ancor più doloroso è aspettare e non vederla mai arrivare. Ho paura che un giorno vorrò smettere di aspettare e se mai dovesse tornare da me, allora quel momento sarà troppo tardi.

Soffio, col capo chino: «Sì, mamma. Mi dispiace»

«Perché tesoro? Questo sta a significare qualcosa?» la sua voce si spezza e un'altra fitta al cuore mi coglie di sorpresa.

Senza rifletterci, poso le mie mani sulle sue incrociate e adagiate sulla superficie del tavolo: «No, mamma. Questo non sta a significare assolutamente nulla. Era solo una giornata particolare, sentivo il bisogno di stare da sola e questo mi ha portato a trasgredire inconsciamente ad una regola»

Finalmente, si volta verso di me, lentamente: «Sicura?» i suoi occhi castani lucidi mi infliggono l'ennesima coltellata al centro del petto.

«Sicurissima, mamma»

Cerco di trattenere le lacrime per via dei ricordi che mi assalgono all'improvviso, più dolorosi di uno schiaffo sulla guancia, più di un pugno allo stomaco.

Il silenzio che segue mi suggerisce che il discorso sia finito qui, così cerco di alzarmi e trovare conforto tra le pareti della mia camera, ma una stretta gelida e ferrea blocca la mia corsa verso le scale. Mia madre mi tiene stretta per un polso mentre mi guarda con sguardo glaciale.

Eccoti, ecco l'ombra di te, l'ombra che ci tiene divise lontano chilometri con cuore seppur vicine fisicamente.

«Nonostante tutto questo mi faccia male, sapere che mia figlia ha trasgredito le regole non mi fa stare per nulla tranquilla. Capisci che non posso lasciar correre e che necessiti di una punizione»

La sua presa si fa più stretta fino a farmi male. Cerco di liberarmi, invano.

«Niente passeggiate dopo l'orario scolastico e niente uscite dopo le sei del pomeriggio, per una settimana» esordisce, scandendo perfettamente ogni parola.

Sono con le spalle al muro, non posso far altro che annuire, chiedere ancora scusa e filare via verso le scale. Ma una volta saliti i primi gradini, ancora una presa mi stringe il polso. E' Alex.

Sussurra: «Possiamo parlare?»

Annuisco lentamente. Poi, ci rinchiudiamo dentro la mia camera. Io mi siedo sul materasso morbido e coperto da un copriletto fiorato con estrema calma, ancora scossa dalla discussione con mia madre.

Alex, dopo essersi guardato un po' intorno, si siede accanto a me e poggia entrambe le mani sulle ginocchia, lo sguardo smeraldo puntato verso la parete piena di mensole svuotate. Prende un bel respiro: «Era la verità? Quello che hai detto alla mamma, era tutta la verità?»

Oh, Alex, mi fai questa domanda perché sai il resto della mezza verità che ho detto alla mamma, non è così?

Mi spingo più indietro nel letto, così che le mie gambe possano raggiungere il mio petto ed essere racchiuse dalle mie braccia. Rimango in silenzio, Alex aspetta la mia risposta ma sono sicura che non la voglia sapere veramente.

«Se me lo chiedi, vuol dire che la sai già quella intera» soffio, solo dopo alcuni secondi di silenzio che a me sono sembrati attimi eterni fatti di respiri lenti e di paura racchiusa dentro a un corpo.

Alex, si volta verso di me e i suoi occhi verde smeraldo si schiantano sulla mia pella chiara: «Perché Bianca, perché fare una cosa del genere?» la voce gli trema in gola, ma cerca di nasconderla con fastidiosa accuratezza.

Non so nemmeno io il perché, Alex, so solo che in quel momento una vocina nella mia testa mi suggeriva di farlo. Forse perché sentivo il necessario bisogno di smettere definitivamente di sentire qualcosa, perché, seppur io mi senta vuota, io lo sento. Sento la voragine al centro del petto, sento la mancanza di nostro padre, sento la mancanza di nostra madre, sento la mancanza dei momenti felici. Io li sento, e se sentire qualcosa significa sentire ciò che più mi fa male, allora preferisco non sentire affatto.

«Io- io» le parole si fermano in gola: "Io volevo smettere di sentire il dolore", vorrei dire ma mi limito ad un: «Io non so del perché l'abbia fatto. Mi dispiace un sacco» soffio.

Il silenzio prende spazio e ci divide, così come l'ha fatto negli anni con mia madre. Alex è tornato a guardare un punto fisso della parete e mentre una lacrima gli solca il viso, dice: «Ti prego, Bianca, se a volte ti senti così da male da non voler più sentire nulla, vieni da me e ci penserò io a curare le tue ferite» sussurra con voce incrinata.

«Ma non ti far venire di nuovo in mente di fare una cosa del genere. Ti supplico, non riuscirei a sopportare anche la tua mancanza»

Oh Alex... Quando vorrei farlo con così tanta facilità, ma come faccio a restare a restare a guardare al tuo crollo e aggiungere sulle tue spalle il peso dei miei pensieri, dei miei mali? Non sarebbe da egoista condividere il mio dolore con te e lasciarti soffrire per i miei e per i tuoi dolori?

Si volta a guardarmi e per pochi istanti rimane in silenzio. Poi, le sue labbra tremano mentre pronunciano altre parole: «Sei l'unica ad essermi rimasta»

In quel momento non riesco a restare ferma oltre e guardarlo piangere senza fare nulla. Così mi avvicino a lui e lo stringo in un abbraccio, mentre con una mano gli accarezzo la nuca e le sue lacrime bagnano la mia maglietta.

Gli sussurro all'orecchio con la vista appannata: «Te lo prometto, Alex, ti prometto che non proverò mai più a fare una cosa del genere» e anch'io non riesco più a trattenermi ulteriormente.

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Mentre faccio colazione seduta accanto a mia madre, non riesco a non pensare alla discussione tra me e Alex il pomeriggio prima. E una domanda non smette di frullarmi per la testa: come faceva lui a sapere di quello che avevo provato a fare sul tetto? Ad aver assistito a quella scena siamo stati solo io e Dylan. E Matt sa solo dell'accaduto. Che gliel'abbia detto lui?

Mi ferisce pensare che possa essere stato Matt, gli avevo chiesto esplicitamente di non dirlo a nessuno e non ha mantenuto la promessa. Ed è per questo motivo che scelgo di non passare per la strada che mi conduce verso casa sua così da farci la strada insieme, ma per questa mattina preferisco camminare da sola e rimanere per un po' con i miei pensieri.

Una volta arrivata a scuola mi dirigo verso il mio armadietto e con estrema sorpresa trovo Sofy con le spalle contro agli armadietti e il telefono tra le mani mentre osserva il display.

La saluto, portando la sua attenzione su di me. Un grande sorriso compare sulle labbra di entrambe quando i nostri sguardi si scontrano.

«Bianca, ti stavo aspettando!» esordisce lei, posando il telefono dentro una tasca dello zaino che porta in spalla.

Arriccio il naso, mentre metto il codice per aprire il mio armadietto: «Davvero?»

«Assolutamente sì»

«Beh, dimmi tutto, ti ascolto» la incito a parlarmi mentre continuo a posare i libri delle prossime ore dentro allo zaino e lasciare quelli che non mi serviranno.

«Allora, hai presente il ragazzo a cui fai ripetizioni?»

Rimango sorpresa dalla sua domanda. Annuisco.

«Ecco, volevo chiederti se per caso sai se è impegnato o meno»

«Oh» mi lascio sfuggire dalle labbra mentre chiudo definitivamente l'anta dell'armadietto. Ci rifletto un po', ma la risposta alla sua domanda non tarda ad arrivare: «Non credo che sia occupato. Ma non ne sono certa»

«Fantastico!» esulta facendo nascere un enorme sorriso che le illumina l'intero volto. Sorrido alla sua felicità.

«Perché questa domanda?» le chiedo mentre mi incammino verso la classe della mia ora. Sofy mi segue in mezzo al fiume di ragazzi che cammina in direzioni opposte.

«Semplice, no? Mi incuriosisce come ragazzo. E' carino e ha uno sguardo tenebroso, ma allo stesso tempo affascinante»

«Sei sicura di quello che hai visto? Cioè, non dico che non sia un bel ragazzo, ma lui è lo stesso che mi ha reso la vita difficile da quando sono entrata qui dentro» le ricordo, mentre svoltiamo l'angolo.

«Lo so, però vorrei conoscerlo prima di giudicarlo. E' una mia abitudine, non riesco a giudicare una persona solo dalle parole altrui o dalla prima impressione. Io lo voglio conoscere» dice, rivolgendo la sua attenzione al pavimento. Nel frattempo sono arrivata alla classe giusto in tempo perché la campana di inizio lezioni suona.

«E va bene. Se dovessi sapere qualcosa in più, te lo farò sapere sicuramente»

«Grazie mille, Bianca»

Ci salutiamo e ognuna va per la sua strada.

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Rimango seduta al nostro solito tavolo della biblioteca. Sembrano essere passati pochi minuti, in verità è passato parecchio tempo e Dylan non si è ancora fatto vedere.

Mi guardo intorno pensando di trovarlo seduto ad un altro tavolo che aspetta il mio arrivo, ma ogni posto è occupato da ragazzi concentrati nello studio o semplicemente vuoti.

Dove sarà finito?

Torno a guardare lo schermo del telefono mentre sospiro pesantemente, ma ad attirare la mia attenzione è il cigolio delle porte della biblioteca che si aprono. Alzo lo sguardo, sperando di vedere finalmente la sua figura alta varcare la soglia della biblioteca, ma con molta sorpresa è Logan a venire verso di me con lo zaino in una sola spalla, dopo aver lanciato un'occhiata in giro.

Un sorriso timido si affaccia sul suo volto, così come gli occhi cristallini. Sposta una sedia di lato e ci si siede dopo avermi salutata.

«Sai per caso dov'è Dylan? Sono minuti interi che lo aspetto» sussurro per non spezzare la melodia della concentrazione che aleggia per l'intera stanza.

Logan inizia a scuotere il capo impercettibilmente: «Oggi Dylan non è venuto a scuola per problemi famigliari e mi ha mandato da te per fartelo sapere»

«Allora poteva mandarti anche prima» dico scherzosamente e Logan soffoca una risata. Mi alzo in piedi mentre inizio a sistemare il libro e il borsellino dentro al mio zaino, ma la mano di Logan si posa sulla mia per bloccarmi.

Faccio collidere i nostri sguardi, confusa dal suo gesto.

Logan guarda prima a destra e poi a sinistra, come ad assicurarsi che non ci sia nessuno ad ascoltare la conversazione. Poi, si sporge verso di me, diventando improvvisamente serio: «Dylan non mi ha mandato per dirti solo questo, ma mi ha detto di aggiungere un'altra cosa» lancia un'altra occhiata in giro e si inumidisce le labbra con la lingua.

Io mi siedo e mi sporgo a mia volta verso di lui. Fa una bella rincorsa e riprende a parlare: «Voleva che ti dicessi di stargli alla larga»

Arriccio il naso: «E perché voleva farmelo sapere?»

«Per via di una cosa che è successa ieri, mi ha riferito» toglie la sua mano da sopra la mia e se la passa tra i capelli biondi scuri.

«Beh, digli che lo farò con piacere» taglio corto, riprendendo a sistemare quello che avevo lasciato sul tavolo dentro la borsa, ma Logan mi blocca di nuovo.

«Se pensi che glielo dirò ti sbagli di grosso, non voglio rovinargli la vita ulteriormente» dice con fermezza e assoluta serietà.

Un tuffo al cuore mi coglie di sorpresa.

Cosa vuol dire tutto ciò?

Ingoio a fatica la saliva che si è accumulata tra le pareti molli della bocca e trattenendo quasi il respiro, aspetto che Logan continui a parlarmi.

«Mi stai confondendo, Logan» soffio.

Lui sospira: «Voglio che tu non lo condanni per i suoi errori, anche gravi, nei tuoi confronti. Ti chiedo di non considerarlo come un mostro»

Quelle parole sono in grado di risvegliare in me tutta la rabbia che ho accumulato nel corso degli anni. La sento svegliarsi, iniziare a bruciare al centro dello stomaco e risalire lungo la laringe e rotolare giù per la lingua: «E cosa dovrei fare, Logan? Perdonarlo per tutto quello che mi ha fatto? Giustificare le sue azioni per qualche problema familiare?» il tono di voce si è alzato, tanto che qualche occhiata si rivolge nella nostra direzione.

Mi alzo in piedi: «Perché se è così, ti dico che anch'io ho i miei problemi familiari, ma non per questo vado ad importunare altra gente. Lui non è l'unico a soffrire» ringhio a denti stretti, stringendo i pugni lungo i fianchi e mantenendo vivo il contatto visivo.

Come potrei dimenticare tutto quello che mi ha fatto, come mi ha fatta sentire per anni, cosa sono arrivata a pensare a causa sua? No, io non posso richiudere tutto questo, lasciarlo marcire dentro ad un cassetto e fare finta che non sia mai esistito. Non ci riesco.

Anche Logan si alza in piedi e con gentilezza posa una mano sul mio braccio: «Io non sto giustificando le sue azioni, perché sono d'accordo con te su tutto quello che hai detto. Io non ti sto chiedendo di dimenticare, sarebbe irrispettoso chiedertelo, ma ti chiedo di comprendere»

Di fronte alla sua espressione così dispiaciuta, gentile non riesco a restare per altro tempo imbronciata e le sue parole ottengono lo stesso effetto di un secchio d'acqua gettato su una fiamma pronta a divorare tutto ciò che trova intorno a sé.

Rimaniamo a fissarci per altri lunghi istanti, poi in sussurro mi saluta e in punta di piedi esce dalla biblioteca, così come aveva fatto entrando.

Comprendere? Perché mai dovrei comprendere delle azioni che non hanno fatto altro che ferirmi e contribuire al modellamento del vuoto che ho dentro?

E se mai dovessi arrivare a comprendere le sue azioni, cosa resterà a me? Cosa me ne farò della comprensione se io continuerò a permanere nel mio stato di atrofizzazione?

L'unica cosa che mi resta da fare è entrare nelle sue grazie, scoprire quali sono i suoi segreti e fare qualcosa affinché li possa risolvere, così io potrò tornare a vivere la mia patetica vita con un problema in meno, ovvero Dylan.

Dopo di ciò, mi dirigo fuori dalla biblioteca a grandi falcate, mentre dalla tasca dei jeans sento provenire la suoneria che mi avvisa dell'arrivo di un messaggio. Una volta fuori da scuola, lo estraggo da lì e guardo il messaggio. La testa scatta leggermente all'indietro quando sul display vedo il nuomero di uno sconosciuto.

E adesso che succede?

Leggo il messaggio senza indugiare oltre, aiutandomi con una mano per schermare il display per via della luce dei raggi solari che non mi permette di vedere bene, e pensando che probabilmente sia stato qualcuno a sbagliare numero: "Io ci penserei bene la prossima volta prima di fare una stupidaggine, se non vuoi finire di nuovo in punizione e far del male a tua madre".

Il messaggio finisce con una firma particolare: Anonimo. Mi guardo intorno, come ad accertarmi che non ci sia nessuno nei dintorni a spiarmi da lontano. Ma nessuno si trova nei paraggi, oltre che ad alberi che costeggiano il marciapiede lontano qualche metro, i pali della luce e qualche macchina che sosta in uno dei posti del parcheggio.

Prendo un bel respiro nella speranza vana di poter calmare i battiti del cuore accelerati.

Grandioso, ci mancava solo questo adesso. 

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