11. Investigatore

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CORRETTO

L'attesa comincia a diventare sempre più snervante. Cammino avanti e indietro per la mia stanza, prima illuminata dai raggi pomeridiani che filtravano dalla finestra, poi dalla luce fredda del lampadario.

Le mani continuano a torturarsi da quando sono tornata a casa e i battiti del cuore si alternano tra veloci e normali. Butto fuori l'aria che ho accumulato dentro ai polmoni con un sonoro sospiro, mentre poso una mano al centro del petto e chiudo gli occhi.

Sembra un buon piano, hai calcolato tutto alla perfezione. Dovrebbe funzionare, anzi no, deve funzionare.

Sobbalzo quando sento bussare alla porta di legno bianco della mia camera: «Sì, chi è?»

«La cena è pronta» la voce di Alex arriva alle mie orecchie ovattata.

E' il momento.

«Arrivo subito» dico con voce tremolante. Prendo un ultimo grande respiro e mi avvio verso la cucina, scendendo velocemente le scale per poi rimanere sorpresa dalla sola presenza di mio fratello.

No, no, non doveva andare così.

Arriccio il naso mentre avanzo cautamente verso il mio posto. Tiro indietro la sedia e mi siedo, di fronte a mio fratello: «La mamma dov'è?»

Alex mette in bocca il primo boccone: «E' ancora a lavoro, mi ha detto che resterà lì almeno fino al dopo cena» mi risponde continuando a mantenere lo sguardo sul piatto e con ancora la bocca piena.

Punzecchio un po' il cibo che ho nel piatto e lascio che le labbra modellino delle parole: «Era da tanto che non lo faceva» sussurro. Al che Alex si blocca, come a prestarmi la sua più totale attenzione.

Continuo, alzando lo sguardo su di lui: «Pensi sia colpa mia, per quello che ho fatto?»

Alza il capo di scatto e i nostri sguardi si scontrano violentemente. Continua a masticare e una volta ingoiato il boccone, risponde con fermezza: «E' probabile, ma non sentirti in colpa. Non hai nulla di cui preoccuparti» riprende a mangiare.

Invece a me lo stomaco mi si chiude completamente dopo questa conversazione, ma per non darlo a vedere mi costringo a mangiare il cibo di cui non sento nemmeno il sapore per via dei pensieri.

«A che pensi, Alex?» dico all'improvviso e il suo capo si alza di scatto per guardarmi negli occhi.

Fa spallucce: «A nulla, perché?»

«Perché ti conosco e so che quando mangi di fretta e non mi degni di uno sguardo stai pensando sicuramente a qualcosa» gli confesso, lasciando le posate dentro al piatto.

Alex sospira pesantemente prima di alzarsi dal tavolo e prendere il cesto di frutta da mettere sulla superficie di legno mentre io seguo ogni suo movimento con lo sguardo. Non mi risponde.

Punto i gomiti sul tavolo e mi spingo in avanti: «Se c'è qualcosa che ti turba, puoi dirmelo perfettamente. Io sono qui, pronta per ascoltarti»

Mio fratello punta lo sguardo nel mio e dopo attimi di esitazione, in cui si mordeva l'angolo del labbro inferiore, mi ha risposto: «Non c'è nulla che non va, Bianca. Sta tranquilla sorellina» indossa un sorriso sulle labbra, sperando che basti solo quello per illuminargli il volto, ma non ci riesce e il risultato che riesce ad ottenere è quello di un sorriso triste che cerca di nascondere il casino che ha dentro la testa.

Perché io sono sicura che tu stia provando a farlo. Il tuo essere protettivo ti porta a tenere dentro di te il dolore e lasciare che questo ti logori dentro, a costo di non condividerlo con me perché sai che potrebbe far sanguinare ancor di più le ferite ancora aperte.

E per quanto vorrei continuare ad insistere fino a farlo cedere, so che non lo farà mai perché lui ha una forza di volontà infrangibile. Tutti i miei sforzi sarebbero vani. Sarebbe meglio risparmiare le forze per mettere in atto il piano che dovrò mettere in atto dopo questa cena fatta dal rumore di posate contro al piatto, di silenzio e sospiri pesanti.

Dopo cena, Alex scompare dentro la sua stanza, dalla quale non fuoriesce nessun rumore, nemmeno il più piccolo e impercettibile suono. Così arrivo a pensare che si sia addormentato con mille pensieri per la testa.

Vorrei poter essere io il tuo appiglio per restare a galla, ma tu sei più forte di me e riesci a farlo da solo.

Indosso il mio giubbotto di pelle e dopo essermi assicurata che la porta della mia camera sia chiusa a chiave, mi avvio verso la finestra e con estrema delicatezza la apro. Esco la prima gamba e dopo aver lanciato un'ultima occhiata alla porta, con cuore in gola mi abbasso quanto basta per poter uscire fuori il busto e poi l'altra gamba.

Cammino con cautamente sopra alle tegole del tetto, fino ad arrivare vicino alla grondaia. Mi inginocchio e scendo una gamba finché la suola delle mie scarpe non si posa sulla ringhiera della veranda.

Ce l'ho fatta.

Faccio lo stesso con l'altra gamba e una volta scesa definitivamente con un salto, lancio un'occhiata alla casa e mi allontano da lì a grandi falcate, guardandomi in giro per essere sicura che nessuno mi abbia vista. Adesso, il mio obiettivo è tornare nel quartiere vicino al mio e scoprire qualcosa di più sulle lotte clandestine. So che non è una buona idea, ma la curiosità di scoprire se Dylan vi partecipa o meno è tale da farmi rischiare. E poi, questo potrebbe essere un buono spunto da cui partire per scoprire i segreti che tiene celati dentro di sé.

E se dovessero centrare con le parole di Logan?

E' per le troppe domande che ho bisogno di scoprire qualcosa in più. Sistemo meglio il capello che ho indossato prima di uscire e aumento il passo sull'asfalto illuminato dalla luce fredda dei lampioni che costeggiano il marciapiede.

Qualche minuto dopo sono già arrivata nello stesso punto in cui mi trovavo quella sera, qualche metro più lontano da quel vicolo buio, desolato in cui quei due ragazzi se le davano di santa ragione. Aspetto in piedi, sotto al fascio di luce proveniente dal lampione sotto al quale mi sono accostata e nonostante la temperatura non troppo fredda, data la stagione invernale, mille brividi mi attraversano l'intera schiena fino ad arrivare alle punte dei capelli.

Niente, nessun rumore ad eccezione del frinire dei grilli, il miagolio di qualche gatto randagio e di tanto in tanto un abbaio di qualche cane. Tengo gli occhi e le orecchie ben aperte per molti istanti che si susseguono senza tregua e all'ennesimo minuto passato senza che nulla di strano sia accaduto, inizio a pensare che forse, per questa sera, non succederà nulla di ciò che mi aspettavo.

Sospiro pesantemente e con un leggero dispiacere mi avvio verso la via di casa, ma è al quel punto che noto da lontano una figura nera camminare accanto al muro di un edificio e svoltare poi verso il vicolo buio. Non riesco a riconoscere chi sia per via dell'oscurità, ma decido comunque di seguirlo.

Mi guardo in giro per accertarmi che non ci sia nessun altro da queste parti, poi a grandi falcate lo raggiungo ma mantenendo qualche metro di differenza.

Ti prego di fermarti lì dentro, finiremo per farci scoprire se continui a battere così forte dentro alla gabbia toracica.

Stringo forte i pugni lungo i fianchi e mentalmente mi faccio forza da sola. Ed è nel momento in cui si ferma di colpo che decido di nascondermi dietro un muro vicino a me. Infatti, la figura si volta per assicurarsi che nessuno lo stia seguendo o forse perché sono stata troppo rumorosa e i miei passi sono giunti alle sue orecchie. I battiti del cuore continuano ad aumentare e la gola diventa sempre più secca, tanto che sono costretta a deglutire più di una volta e a bagnare le labbra con la punta della lingua.

Cerco di cogliere qualche particolare del suo volto, invano per via del buio e del passamontagna che arriva a coprire fino al naso. Si volta nuovamente e la sua corsa continua verso lo stesso luogo dell'altra sera. Riprendo a seguirlo ma con più attenzione stavolta.

Svolta un altro angolo che altro non è che un vicolo cieco in cui il tanfo proveniente dagli enormi cassonetti si fa più insopportabile e l'unica fonte di illuminazione è la luce fredda e debole di un lampione.

La figura ferma la sua corsa a pochi metri da un uomo vestito interamente di nero, in carne e di di media altezza. Dall'angolazione in cui mi trovo io, riesco a distinguere anche i tratti del volto, come gli occhi piccoli, il naso a patata e delle labbra sottili e incurvate all'insù per via di un sorrisetto e circondate da un leggero strato di barba.

L'uomo si avvicina di qualche passo: «L'hai portata?» domanda con voce profonda.

«Per adesso ho solo questa» risponde l'altro ragazzo di cui, però, non riesco a riconoscere la voce.

L'uomo si avvicina a lui e gli prende qualcosa di mano, che il ragazzo gli stava porgendo: «Per questa volta va bene, ma ti conviene sbrigarti. Sai cosa potrebbe succedere, altrimenti»

L'altro ragazzo annuisce e prima che possa tornare nella mia direzione e vedermi, decido di allontanarmi silenziosamente ma il più velocemente da lì e tornare a casa, vista l'ora tarda e la possibilità che mia madre possa essere tornata a casa.

Una volta tornata dentro la mia camera, tiro un grande sospiro di sollievo mentre mi getto sul materasso morbido.

Ce l'ho fatta, sono ancora tutta intera. Non lo farò mai più in vita mia.

Mi tolgo di dosso tutto ciò che avevo indossato per uscire, per poi decidere di cambiarmi per la notte. Esco dalla mia camera cercando di fare piano nel far scattare la serratura e con passo felpato mi dirigo verso il bagno, ma sono costretta a fermarmi davanti alla porta della camera da letto ora solo di mia madre.

La luce della lampada sul comodino è accesa e Alex le sta rimboccando le coperte. Mia madre, invece, sembra già dormire tra le calde coperte. Mi avvicino e resto a guardare la scena appoggiata allo stipite della porta.

Era da tanto che non ti capitava di crollare in questo modo, non è vero? Oppure siamo stati troppo egoisti io e Alex per non accorgerci che eri crollata già da tempo?

Alex, nonostante si sia già accorto della mia presenza, continua ad osservare nostra madre con occhi tristi e totalmente spenti delle loro luce. Le passa una mano sui capelli per varie volte, poi le stampa un lento bacio sulla fronte e spegne la luce.

La sua sua figura scura si muove cautamente verso di me finché non ci ritroviamo faccia a faccia. Ci parliamo solo attraverso lo sguardo. Acconsentiamo entrambi con un cenno del capo.

Lui si dirige verso la sua stanza ed io lo seguo, fino a chiuderci dentro. Alex si stende sotto alle coperte del suo letto: «E' tornata all'incirca un quarto d'ora fa. Era ubriaca» dice in un sussurro.

Io mi irrigidisco mentre lui, dopo essersi preso una breve pausa, continua: «Tra i deliri mi ha detto che si era fermata con un'amica a bere qualcosa, ma non è riuscita a fermarsi. Poi mi ha chiesto scusa per essere un disastro con noi»

Hai affogato il dolore nell'alcol, ma presto ti renderai conto che il dolore tornerà a galla e più prepotente di prima. Più cerchi di nasconderlo, più lui cercherà dei modi per uscire fuori.

Non sei un disastro con noi, semplicemente hai smesso di pensare che oltre a lui ci siamo anche noi, i tuoi figli, che necessitano ancora dell'amore di una madre.

«E tu che le hai detto?»

«Le ho risposto che non lo è, affatto, e che noi continuiamo a volerle bene, nonostante tutto» dice mentre si rannicchia sotto le coperte, dandomi le spalle e stringendosi forte i fianchi con le le sue braccia nel tentativo vano di procurarsi da solo quel calore di un abbraccio.

E così, non ci penso due volte a infilarmi sotto le sue coperte e circondare il suo busto con le mie braccia. Gli poso un bacio delicato sulle schiena e soffio: «E' così, Alex, sono sicura che anche lei ci vuole bene, nonostante tutto»

Annuisce, probabilmente con poca convinzione, ma per me basta sapere di essere qui con lui e curare le sue ferite che cerca sempre di tenere nascoste da me a tutti i costi.

Perché, anche se tu sei il mio appiglio, io non smetterò mai di cercare di essere il tuo. Io sarò sempre accanto a te e sarò lì quando avrai bisogno di me.

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Continuo a scarabocchiare sul quaderno con la matita ormai troppo consumata per poter continuare ad essere temperata, ma io non la butterò via finché non sarà stato salvato il salvabile, finché sarò sicura che non ci sia più nulla con cui scrivere.

I pensieri corrono troppo velocemente per poter prestare tutta la mia attenzione alla spiegazione della prof, la quale risuona alle mie orecchie come un sottofondo alternativo a quello della musica riprodotta dalle cuffiette.

Dylan non si fa vedere da un'intera settimana e ormai sono tante le lezioni che abbiamo saltato, tanto che non possono passare inosservate. La mia vera domanda è dove sia potuto sparire. Sta bene? Si è fatto male e il periodo di riabilitazione è più lungo del previsto?

Non so a che pensare ma, seppur non lo voglia ammettere a me stessa, sono davvero preoccupata per lui.

La lezione viene interrotta da uno dei bidelli che bussa alla porta e si affaccia: «Scusi tanto per il disturbo, signora Harris ma il preside ha richiesto della presenza della signorina Anderson nel suo ufficio»

Alzo di scatto il capo, pensando che stia sbagliando. La prof mi da il permesso di uscire e vengo accompagnata dalla bidella fino alla porta della presidenza.

Ti prego, fa che non sia per il motivo di cui penso.

Prendo un gran respiro prima di bussare ed entrare una volta ottenuto il permesso dal preside.

«Oh Anderson! Prego, accomodati» un sorriso, contornato da uno strato di barba, gli illumina il viso mentre sposta lo sguardo dal computer a me.

Faccio come dice e mi accomodo su una delle poltrone nere. Accavallo le gambe e intreccio le dita delle mani per l'agitazione.

«Mi hanno detto che voleva vedermi. Allora, qual è la ragione per cui mi trovo qui?»

«In realtà nulla di cui preoccuparsi» si lascia andare contro lo schienale della sedia girevole in pelle mentre congiunge le punte delle dita. Riprende: «Volevo solamente sapere come procedono le lezioni con Collins»

Dannazione! E adesso cosa dovrei dirgli? Che scusa inventare?

Il cuore aumenta di palpitazioni mentre mi trovo divisa tra il dirgli la verità e una bugia. Mi rendo conto però che lui è il preside, sarebbe un guaio se venisse a sapere che gli ho detto una bugia.

«In verità bene, è puntuale, si impegna, segue con interesse. Ma questa settimana non l'ho visto completamente»

Dai suoi occhi non trapela nessuna rabbia, anzi, comincia ad annuire impercettibilmente: «Ah già, ho saputo dai professori. A detta di sua madre, è a casa malato»

«E non così?» domando, incuriosita.

Il preside si schiarisce la gola mentre inizia a sistemare qualche foglio abbandonato sulla scrivania di vetro già ordinato per prendere tempo. I suoi occhi color miele puntano nei miei: «Forse oppure è l'ennesima scusa che inventa sua madre perché nemmeno lei sa dove sia finito» alza le spalle.

«Perché mai sua madre dovrebbe inventare una scusa?»

Sto cercando di mettere tutti i pezzi insieme ma nessuno di questi sembra coincidere. Vorrei che mi dicesse di più.

«Perché la sua famiglia è un po' particolare, Dylan è un ragazzo particolare. Non ascolta mai ciò che gli si viene detto e fa sempre di testa sua, finendo sempre nei guai» ammette come se fosse sovrappensiero.

E se nelle settimane prima il preside sembrava presentare del rancore nei confronti di Dylan, adesso, dal tono di voce che usa nel parlare di lui e della sua situazione, sembra provare compassione per lui. Sembra comprendere ciò che fa.

Una domanda mi sorge spontanea, a questo punto.

«Mi scusi se mi permetto, ma lei come fa a sapere tutto questo di lui?»

«Diciamo che sono stato una fonte d'aiuto per lui» confessa alla fine con sguardo triste.

Qualcuno interrompe la nostra conversazione bussando alla porta. Il preside torna ad assumere la solita compostezza che gli viene richiesta all'interno del luogo professione qual è la scuola.

Si sistema il colletto della camicia, poi passa le mani sulla giacca ed infine tra i capelli lisci castani.

«Credo che la nostra discussione termini qui» si alza in piedi ed io faccio lo stesso.

«Mi terrò aggiornato sulle lezioni. Buona giornata signorina Anderson» mi saluta cordialmente e con un sorriso sulle labbra.

Faccio lo stesso ed esco da quella stanza con molta più curiosità di quanto sono entrata.

Cos'è che cerchi di nascondere a tutti, Collins? Ma soprattutto, cosa cerchi di nascondere di te stesso?

Come ogni pomeriggio da una settimana a questa parte, aspetto Dylan seduta sempre allo stesso tavolo sul quale si trovano solo un quaderno e una matita. E mentre lo aspetto, mi distraggo con il telefono.

Dopo qualche minuto, il rumore di passi scanditi dalla suola delle scarpe contro il pavimento della biblioteca mi avvisa dell'arrivo di qualcuno.

Finalmente sei qui.

Ma quando alzo lo sguardo mi sorprende il fatto di non ritrovarmi di fronte agli occhi azzurri di Dylan, ma a quelli eterocromatici di Matt. Sposta una sedia di lato e si siede di fronte a me: «Oh ma guarda un po' chi c'è. Vuoi che ti chiami Bianca o migliore amica?»

Una risatina esce dalle mie labbra: «Perché questa domanda?»

«Perché mi eviti da una settimana intera, forse?» alza entrambe le sopracciglia mentre spalanca le braccia, come a sottolineare l'ovvio. Torna a poggiare i gomiti sul legno e continuare: «Sei completamente sparita. Mi stavo iniziando a preoccupare che ti avesse rapita qualcuno»

Mi sporgo verso di lui e poso una mano sulla sua: «Non ti stavo evitando, sono solo stata molto impegnata»

«Non sei molto brava a dire le bugie, sai? Vuoi davvero dirmi che non sei riuscita a trovare neanche dieci minuti per mandarmi un messaggio, una chiamata» continua in tono scherzoso.

Io, invece, butto gli occhi al cielo, prima di dare forma ai miei pensieri: «A proposito, io invece come dovrei chiamarti: Matt o traditore?» incrocio le braccia al petto.

Matt spalanca la bocca, assumendo la forma di uno O e porta una mano al centro del petto, in segno di indignazione: «Come prego? Cosa avrei fatto per meritarmi tale nomina?» continua a scherzare, ma stavolta sono più seria di prima.

«Alex è venuto a sapere che io stavo- mi guardo intorno per assicurarmi che nessuno stia ascoltando, poi mi faccio più vicina a lui- per fare quella cosa che sai benissimo tu»

Il suo sguardo si fa serio: «Pensi davvero che sia stato io?»

«Chi sennò, Matt? Eravamo in tre a sapere di questa cosa»

Matt inizia a scuotere la testa: «Assolutamente no, Bianca. Non mi permetterei mai di dire una cosa del genere a tuo fratello, anche se è sbagliato, ma ho rispettato la tua volontà»

Arriccio il naso e la confusione inizia a infestare di nuovo i miei pensieri: «Ma se non sei stato tu, io non l'ho fatto e Dylan non conosce nemmeno mio fratello, come ha fatto a saperlo?»

Matt alza le spalle per poi grattarsi la nuca, segno che si trova in totale confusione pure lui.

«Sei sicura foste soli, sul tetto?»

Provo a ripercorrere tutti gli istanti di quella mattina, ma nessun particolare che mi possa confermare o meno la teoria di Matt: «No, credo fossimo da soli»

«Le teorie sono due allora: o non sai in che rapporti sono tuo fratello e Dylan oppure c'era qualcun altro a spiarvi. Dovresti chiedere a tuo fratello»

Ha ragione lui, l'unico modo per fare un po' di chiarezza in tutta questa situazione è chiedere direttamente a mio fratello. Lui potrà darmi le risposte che cerco.

«Hai un futuro da investigatore, Matt»

Il suo petto si riempie d'orgoglio: «Dici davvero?»

«Ovviamente no, ma continua a leggere libri gialli e forse quel seme che custodisci dentro di te potrà mettere radici e svilupparsi»

Entrambi scoppiamo a ridere e Matt mi dà uno spintone. 

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