12. Perdonami

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

CORRETTO

Cammino velocemente e con molta determinazione verso la camera di mio fratello, il quale è chiuso lì dentro da quando è tornato da scuola. Non ha aggiunto una parola e non ha nemmeno pranzato, lasciandomi da sola seduta al tavolo della cucina insieme a mia madre ancora in preda ad un'emicrania da post sbornia.

Per quanto tu non sia in vena di parlare, fratello, io ho la necessità di scoprire come sei venuto a sapere di ciò che è successo a scuola.

Busso delicatamente alla sua porta e mi accomodo solo dopo aver ricevuto il suo permesso. E' disteso sul suo letto, le spalle contro la testata del letto e sopra alle ginocchia il suo portatile, sulla cui superficie si trovano ancora attaccati quegli sticker che insieme abbiamo attaccato anni fa. Sorrido al ricordo di noi due, seduti sul pavimento di questa camera, che litigavamo per chi dovesse attaccarlo prima.

Alex si toglie le cuffie che gli coprivano le orecchie e mi rivolge la sua più totale attenzione: «Sorellina, che ci fai qua?»

Mi siedo ai piedi del suo letto, dopo aver messo da parte tutti i cuscini che giacciono sulla superficie in maniera disordinata: «Volevo parlarti»

Alex sospira mentre riporta la sua attenzione sullo schermo del computer: «Dobbiamo farlo per forza adesso? In verità non mi sento molto in vena di parlare» dice con aria stanca.

Anche se non vuoi darlo a vedere, so che vedere nostra madre ridotta in quello stato ti ha destabilizzato. Hai paura che il nostro equilibrio già precario finisca per crollare definitivamente, tanto da non poter più essere risollevato?

Ti stai rinchiudendo dentro al tuo silenzio di riflessione, come facevi un tempo, e so per certo che questa condizione perdurerà per tutto il tempo necessario che ti ci vorrà per digerire la notizia. E se tu dovessi avere paura che il nostro equilibrio sta venendo messo alla prova per l'ennesima volta, io ho paura di perderti tra le note assordanti del tuo silenzio. E se non ci sei tu accanto a me, chi c'è?

Mi ci vuole un grande impegno a non pensare a quelle maledette parole che ronzano per la mia testa e così prendo la rincorsa: «Sarà una discussione breve, tranquillo. Volevo solo chiederti come sei venuto a sapere di quello che mi è successo a scuola»

Il suo sguardo verde smeraldo, il cui colore è accentuato dagli ultimi raggi solari che filtrano dalla finestra sopra al letto, si schianta nel mio. Rimane in silenzio per qualche istante, poi le sue labbra non troppo carnose si muovono lentamente: «Un messaggio»

Arriccio il naso: «Un messaggio? Inviato da chi?»

«Non lo so» si mette meglio a sedere, alzando di qualche centimetro il cuscino incastrato tra le sue spalle larghe e la testata. Si sistema le ciocche di capelli castani ricaduti sulla fronte mentre aggiunge: «E' un numero sconosciuto» si sporge verso il comodino per prendere il suo telefono e dopo aver preso il messaggio, lo volta verso di me.

Lo prendo tra le mani e leggo svariate volte il messaggio, come ad essere sicura che sia vero.

«Mi ha avvisato di quello che ti era successo, di quello che stavi per fare»

«E tu hai creduto ad un numero sconosciuto?»

«Non ero sicuro di quello che avesse scritto, anzi, pensavo fosse uno stupido scherzo. Ma quando te ne ho parlato, tu mi hai dato la conferma» risponde fermamente, gli occhi segnati dal ricordo delle nostra discussione.

«E non hai curiosità di sapere chi sia questa persona?»

Alex alza le spalle e incurva le labbra verso il basso: «Cosa mi cambierebbe? Se questa persona mi ha inviato un messaggio del genere era perché voleva mettermi al corrente dei pensieri di mia sorella e di cui io non me n'ero reso conto»

Vederlo così stanco, provato dalle situazioni in cui le persone a cui vuole bene si trovano, acuisce il peso che si è posato sul mio petto e che continua a pesare sempre di più. La bocca dello stomaco si chiude, per l'ennesima volta in questi giorni e sapere che io non possa far altro che osservarlo nella sua condizione senza che niente lo possa aiutare, mi fa così male che stento quasi a nasconderlo.

«Mi scuso con te per non essermene accorto prima»

Scuoto la testa delicatamente mentre gli sfioro lo zigomo poco pronunciato con le nocche: «Non devi chiedermi scusa, sono io che ti chiedo scusa se ti causo tutti questi problemi»

«Assolutamente Bianca, assolutamente. Non sei affatto un problema» si affretta a correggermi, prima di spingersi verso di me e posare un bacio sulla fronte, lento, delicato, che sa di casa.

«Perché non esci un po' da casa e ti vedi con i tuoi amici?» gli propongo.

Lui sorride tristemente e scuote la testa: «Dovrò essere qui se la mamma ha bisogno di aiuto»

«Ma-» mi interrompe subito con un gesto della mano: «Niente ma, Bianca. Sto bene, davvero»

«Se lo dici tu» mi alzo dal suo letto e dopo un'ultima lunga occhiata, esco dalla sua stanza con un dubbio in meno ma un dolore in più.

Percorro il corridoio che conduce in camera mia mentre rivivo tutti gli astanti sopra a quel dannato tetto, cercando tra la serie di ricordi qualcuno che mi possa aiutare a capire chi altri si potesse trovare in quel posto insieme a noi.

Nessuna risposta sembra arrivare alla mia mente e così mi trovo costretta a chiedere direttamente a Dylan se lui ne sappia qualcosa a riguardo. La mattina seguente, infatti, mi dirigo verso il suo armadietto a passo spedito e con la speranza di poterlo trovare lì questa mattina.

Una volta voltato l'angolo, i muscoli delle mie gambe si arrestano una volta che i miei occhi si sono posati sulla sua figura stretta in jeans neri e stretti e il busto coperto da una semplice felpa, sopra alla quale si trova un giubbotto abbastanza imbottito da impedirgli di sentire freddo.

Il cuore fa un tuffo da un paio di metri.

Impossibile, per l'ennesima volta sono costretta a ricordarti che tu, un cuore, non ce l'hai più. Solo i frantumi dispersi in chissà quali posti e l'eco del suo battito.

Sta parlando con Logan, gli occhi stranamente illuminati da una strana luce e di tanto in tanto un sorriso gli fa comparire una pieghetta nell'angolo del labbro.

Ed è così strano pensare che, seppur lo odi così tanto, quel sorriso mi è mancato questa settimana. Prendo un bel respiro prima di tornare a muovermi nella sua direzione con determinazione.

Continuo a ripetermi a mente il discorso che mi sono preparata, ma una volta arrivata a pochi metri da loro ogni parola sembra essere svanita nelle parti più nascoste della memoria. Mi maledico mentalmente mentre i miei piedi continuano ad avanzare e in pochi secondi sono già di fronte a loro.

Il sorriso che Dylan aveva stampato sulle labbra carnose, adesso si è affievolito sempre di più fino a morire completamente. Solo allora Logan nota la mia presenza, voltandosi nella mia direzione.

«Ciao, come va?» inizio io, incastrando i nostri sguardi. Da qui posso notare che i lividi della scorsa settimana sono quasi completamente spariti.

Menomale.

Indugia un po' prima di rispondermi, ma solo dopo aver lanciato un'occhiata a Logan, che si trova oltre la mia figura.

«Benissimo, ragazzina» indossa un sorriso finto e richiude con un po' troppa forza il suo armadietto «Ma so già perché sei qui e ti dico in anticipo che sono stati giorni impegnativi questi e non ho bisogno della tua predica. So che abbiamo molte lezioni da recuperare, non c'è bisogno del tuo promemoria» dice annoiato per poi voltarsi, dandomi le spalle, e iniziando a camminare troppo velocemente per stargli al passo. Tento comunque di camminare spalla contro spalla.

«Non sono qui per farti la predica» alzo il tono di voce per far sì che mi possa sentire, mentre io sono occupata ad evitare anche gli studenti che camminano nella direzione opposta alla nostra.

«Ah no? E per cosa saresti qui?» mi guarda da oltre spalla con un sorriso sfottente.

Uno spintone involontario inizia a farmi perdere la pazienza: «Sono qui per-» un altro spintone non mi permette di continuare a parlare.

«Litigare?» avanza la sua idea.

Intenzionata a raggiungerlo, mi dò una spinta in avanti e finalmente riesco ad afferrargli il polso e bloccare la sua corsa: «Per parlare con te» dico con il fiatone che mi fa sollevare e abbassare il petto troppo velocemente.

Sono quasi sicura che per una frazione di secondo gli occhi di Dylan si siano adagiati sulle mie labbra appena schiuse per poi tornare a guardarmi dritta negli occhi.

Perché mi guardi con così tanta insistenza, Collins? E' un altro tuo modo stupido di prenderti gioco di me, facendomi credere che i tuoi occhi possono essere un posto in cui potermi rifugiare? Sei stupido se pensi che questo possa accadere prima o poi.

Un sorriso sfottente torna a fronteggiare sulle sue labbra e che non fa altro che alimentare i nervi che già erano affiorati dentro allo stomaco.

«Sono tutto orecchi, ragazzina» dice prima di far scivolare il suo sguardo sulla mia mano che ancora stringe il suo polso. Solo allora mi accorgo di stralo stringendo ancora con un po' troppa forza.

Una scossa parte dal lembo di pelle che è a contatto col suo per poi risalire verso il braccio e terminare alle punte dei capelli. Immediatamente ritraggo la mano, come ne fossi rimasta scottata. Infine prendo un bel respiro e inizio a parlare: «Mio fratello ha saputo di quello che mi è successo qui a scuola» sussurro, facendomi più vicina a lui.

Dylan arriccia il naso, mi guardo in giro e specifico meglio: «Sul tetto, intendo»

«E perché me lo stai dicendo?»

«Perché sei rimasta l'ultima persona a sapere di quello che è successo»

Dylan mi guarda serio, poi il suo sorriso si allarga sempre di più fino a scoppiare in una risata, gettando la testa all'indietro.

Cosa ci trova di divertente?

Si tiene lo stomaco con la mano libera dal tutore e con l'altra si asciuga una lacrima che si è raccolta all'angolo dell'occhio. E quando la sua risata, la quale ha attirato su di noi gli occhi degli altri studenti, riporta la sua attenzione su di me dicendo tra le risate: «Quindi, se ho capito bene, tu mi stai chiedendo se sono stato io a dirlo a tuo fratello?»

La sua risata inizia a darmi sui nervi, ma mi trattengo dal rispondergli male stringendo la presa sul spalla del mio zaino: «Sì, Collins, ti sto chiedendo se sei stato tu a dirglielo» sibilo a denti stretti.

«Ho capito» si ricompone, smettendo di ridere ma non di indossare quel sorriso fastidioso. Sprofonda una mano nella tasca dei jeans e poi riprende a parlare: «E come hai detto che si chiama tuo fratello?» mi prende in giro prima di scoppiare di nuovo a ridere una volta visto il mio volto ormai spazientito e corrucciato.

Per non rischiare di perdere l'equilibrio per le risate che lo stanno spezzando in due, si appoggia al mio braccio. Vorrei spostarmi solo per farlo cadere a terra, ma lui è più veloce di me e raddrizza la schiena prima che io mi possa sostare.

Gli occhi azzurri sono ormai sprofondati in un mare di lacrime, le cui tracce vengono immediatamente eliminate dall'indice di Dylan, il quale, una volta ripreso fiato, torna a parlare: «Questa era davvero divertente, ragazzina. Pensavo che oggi sarebbe stata una giornata orrenda e invece mi hai risollevato il morale»

«Davvero divertente, Collins» sibilo ancora, gli occhi ormai ridotti a due fessure. Ritento, magari adesso si sarà calmato dopo tutte quelle risate superflue: «Sul serio, Collins, sei stato tu a dirlo a mio fratello o no?»

Getta gli occhi al cielo e sospira: «No, ragazzina e dico sul serio stavolta. Non lo conosco nemmeno tuo fratello, come avrei potuto fare?»

Lo guardo con diffidenza, non sapendo se credergli o meno. Poi: «E chi sarebbe stato allora? Matt mi ha giurato di non essere stato, mio fratello non ne ha idea e tu non hai fatto nulla»

«Magari uno stalker? Sai per caso se ti perseguita qualcuno?» continua a scherzare, ma non ho il tempo di arrabbiarmi con lui perché le sue parole fanno scattare in me un'idea. Il messaggio ricevuto da quel numero sconosciuto. Sarà lui? E se sì, chi potrà essere?

La campanella di inizio lezioni risuona prepotente per tutti i corridoi della scuola, risucchiandomi dal vortice di pensieri in cui mi ero persa. Dylan mi saluta velocemente, prima di sistemare meglio lo zaino in spalla e dirigersi verso la sua classe.

E continuo a pensarci per tutta la giornata e nemmeno i discorsi divertenti di Matt e le risate di Sofy sono riuscite a distrarmi. Più volte hanno richiamato la mia attenzione, ma dopo qualche secondo il mio sguardo si perdeva in un punto della stanza.

A causa di questo, non mi rendo conto di essere in ritardo per le lezioni pomeridiane con Dylan e così attraverso il corridoio a grandi falcate e il più velocemente possibile, tanto che una volta spalancate le porte della biblioteca ho l'affanno.

«Sei in ritardo ragazzina» dice Dylan spazientito mentre è per metà sdraiato sul tavolo della biblioteca e con una mano chiusa a pugno si regge la testa. Poi si raddrizza quando io sto tirando fuori dal mio zaino il materiale necessario per poter lavorare oggi.

Si stiracchia allungando le braccia verso il cielo ed emette poi un gemito. Notando il mio silenzio, inizia a sorridere nuovamente e dopo aver puntato i gomiti sulla superficie di legno e poggiato il mento sul dorso di una mano, dice: «Che silenzio, ragazzina. Per caso ti ho offeso questa mattina?»

Mi lascio andare sulla seduta della sedia e non lo degno neanche di uno sguardo. Inizio a sfogliare il libro, ma lui continua: «Forse se continui a domandare a chiunque se siano stati loro a dirlo a tuo fratello potresti trovarlo facilmente il tuo stalker» continua a scherzare, avvicinandosi a me solo ed esclusivamente per sussurrarmelo a pochi centimetri dal volto.

Questa volta trovo difficile contenermi, tanto che mi volto scattante verso di lui rivolgendogli un'occhiata torva e battendo una mano sul tavolo: «Vuoi smetterla? Stamattina ho cercato di contenermi, ma adesso stai mettendo a dura prova la mia pazienza, Collins»

Il suo sguardo si assottiglia e un sorriso furbo gli dipinge quelle maledette labbra rosse e carnose: «Ti sto dando così tanto fastidio, ragazzina?»

«Ma si può sapere che problemi hai? Non sai proprio quando è il momento di mettere un punto, non è così?» quasi finisco per urlare, attirando su di me le occhiate degli altri ragazzi che sono rimasti qua dentro. Sussurro, con tono furioso: «Perché ti ostini a comportarti così?»

Dylan si avvicina ulteriormente al mio viso, finché il suo odore raggiunge le mie narici e i nostri respiri si mischiano: «Vuoi proprio saperlo, ragazzina?» domanda, facendo scivolare il suo sguardo gelido sulle mie labbra.

Tum.Tum.Tum.

Il cuore torna a battere prepotente contro la gabbia toracica, tanto che per qualche strano motivo sono convinta che Dylan riesca a sentirlo per via della vicinanza. Il respiro mi si blocca in gola mentre annuisco debolmente.

Lui continua: «Così ti deciderai ad allontanarti una volta per tutte da me» le sue parole si schiantano contro la pelle sensibile delle mie labbra mentre l'intensità dei suoi occhi si amplia. Sono diventati più scuri, profondi, abbracciati dalle ombre che tiene nascoste dentro al suo essere.

Mi ritornano alla mente le parole di Logan, le parole che Dylan voleva che sapessi per chissà quale ragione.

La tensione abbandona i muscoli tesi della schiena e delle fronte. Continuo io: «E perché dovrei farlo?»

«Perché io non porto a nulla di buono. Il mio è un consiglio»

Ma così io non potrò mai scoprire cosa nascondi e non potrò nemmeno aiutarti a risolverlo, così da risolvere di conseguenza anche i miei problemi, il mio problema più grande: tu.

Dico la cosa che più mi sembra giusta da dire per convincerlo a non allontanarmi: «Non porta a nulla di buono il tuo isolarti dagli altri. Dovresti solo fidarti di più della gente e lasciare che ti aiutino»

Dylan si allontana da me, drizzando la schiena e lasciandosi andare allo schienale della sedia. Adesso i suoi occhi hanno chiuso l'accesso alla sua anima e mi è difficile riuscire a leggerlo dentro.

«A te non deve importare nulla di quello che faccio. Ci eravamo promessi che qui dentro saremmo solo stati tutor e allievo, quindi non ti dirò nulla di tutto quello di cui sei così curiosa» il suo tono così freddo, distaccato e meno sicuro rispetto a qualche minuto fa mi fa gelare il sangue nelle vene e un brivido freddo mi attraversa la spina dorsale.

Allontani le persone perché hai paura che gli altri possano ferirsi per via dei segreti che tieni nascosti. Ma sono davvero così terribili da costringerti ad allontanare tutti dalla tua vita?

Non posso negare di diventare sempre più curiosa di entrare nelle sue grazie per svelare tutti i suoi segreti e liberarmi una volta per tutte della sua presenza gironzolare attorno alla mia persona.

«Mi sembra che sia arrivato il momento di iniziare la lezione»

E facciamo così, tra distrazioni varie, sguardi torvi e discussioni infuocate anche per le cose più sciocche. Sto per cedere di nuovo alla tensione quando l'ora di dividere le nostre strade arriva puntuale come un orologio svizzero.

Rimettiamo tutto dentro ai nostri zaini in assoluto silenzio. Non ci guardiamo neanche con la coda dell'occhio e usciamo dalla biblioteca uno dopo l'altra, ma entrambi camminiamo a grandi falcate verso l'uscita della scuola. Una volta scesi gli ultimi gradini, le nostre strade si separano, io dalla parte opposta alla sua.

Avanziamo ognuno nella propria direzione, lui diretto verso il parcheggio e io verso casa mia, ma qualcosa mi fa bloccare in mezzo alla strada accantonata dalle aiuole della scuola. Una folata di vento mi sferza i capelli castani e mi accarezza la pelle scoperta, mentre lo guardo da sopra la spalla.

E' in quel momento che decido di riversare giù dalla lingua i pensieri che mi frullano per la testa: «Dylan!» richiamo la sua attenzione lanciando un urlo, il quale raggiunge le sue orecchie grazie alla brezza.

Si blocca di conseguenza, ma continua a darmi le spalle mentre gli parlo: «Non è allontanando le persone dalla tua vita che risolverai i tuoi problemi. Lascia che gli altri ti aiutino»

Capisco che prende un profondo respiro dal gonfiarsi della sua gabbia toracica e il modellarsi delle pieghe del suo giubbotto per accogliere in sé maggiore massa: «So badare a me stesso, ragazzina, non ho bisogno degli altri, tanto meno di te. A domani ragazzina» mi saluta alzando una mano in aria, prima di continuare la sua corsa verso la sua auto, lontana da noi di una ventina di metri.

Ah sì, Collins? Non hai bisogno di me? Questo sarà tutto da vedere, per adesso ti dico solo che accetto la sfida e spero che ti si spezzerà il cuore in due quando scoprirai che la mia curiosità è dettata dalla mia volontà di liberarmi di te. Così io avrò il sapore della vendetta sulle labbra, mentre a te resterà solo un sapore amaro in bocca.

Una volta tornata a casa, mi rinchiudo in camera mia e mi getto sul letto senza indugiare oltre. Non riesco a trovare nessun modo per calmare i nervi a fior di pelle che solo Collins è in grado di suscitare in me.

Ma non solo...

Mi maledico immediatamente per aver pensato una cosa del genere. Rotolo sulla superficie morbida del materasso, la quale si modella sotto al mio peso, fino a raggiungere il comodino e uscire fuori di lì le mie cuffiette.

Le incastro nelle orecchie e faccio partire la prima canzone in cima alla lista della mia playlist. Mi metto in posizione supina e dopo aver osservato per qualche secondo il tetto candido, mi concedo di chiudere gli occhi e lasciare che l'unico colore che possa vedere sia solo nero.

Nero, buio, uguale al nulla. Nulla davanti ai miei occhi, solo le note di una canzone a danzare nel condotto uditivo e avanzare dentro al mio corpo per distendere la tensione accumulata tra le fibre muscolari.

Riesco persino a rilassare i muscoli della mandibola e iniziare a sorridere, quando sento bussare alla mia porta. Apro un occhio per sbirciare subito dopo la porta venir aperta e il volto di mia madre affacciare dall'apertura.

Sfilo le cuffiette tirandole per filo e mi alzo puntando i gomiti sul materasso: «Mamma, pensavo fossi ancora a lavoro. Che c'è?»

Indugia un po', poi con voce incerta parla: «Volevo solo sapere se tu vuoi venire dalla mia amica Lea»

Mi metto seduta: «No, non posso, devo studiare molto»

I suoi occhi castani si spostano sulle punte delle sue scarpe mentre continua farfugliando tra sé e sé: «Alex ha detto la stessa cosa, quindi...» il suo volto si rabbuia all'istante nel momento in cui realizza che ci dovrà andare da sola. Questo significa che dovrà spostarsi per la città da sola e prendere poi i mezzi da sola.

La sua depressione l'ha portata a sviluppare un'ansia sociale tale da non permetterle di restare tra la gente per troppo tempo. Una volta l'ho sentita confessare che sente di venir assalita dal panico mentre si trova in mezzo ad un mare di gente, anche se distanze da lei decine di metri, e che questo le si aggrappa alle caviglie per poi risalire lungo le gambe e infliggere il colpo finale allo stomaco.

Ed io la capisco perfettamente, ma so anche che per tornare a vivere la sua vita di sempre, la vita che prima riusciva a condurre come tutte le altre persone deve imporsi di cambiare, deve essere la sua voglia di riscatto a spingerla a fare un passo del genere.

Continua con le mani tremanti: «Ho capito, le dirò che non posso»

«Mamma, se io e Alex non possiamo venire con te non significa che tu debba restare a casa» alzo il tono di voce per far sì che le mie parole le possano arrivare per bene alle orecchie. Lei sobbalza per la sorpresa «E' una semplice metro quella che ti serve per raggiungere la sua casa. Vai là, compri il biglietto, aspetti e quando arriva sali. Cosa c'è di così difficile?» quasi urlo una volta che mi sono alzata di scatto dal mio letto.

E ti prego di ascoltarmi quando ti urlo in faccia quel che penso, ascoltami quando ti urlo in faccia che così non puoi continuare ad andare avanti. Io ho bisogno che tu ritorni ad essere quella di un tempo, ho bisogno di rivedere mia madre e sussurrarle all'orecchio che mi è mancata.

Improvvisamente sento una rabbia bruciante consumarmi al centro dello stomaco e scatenata dalla realizzazione che io ho perso mia madre per colpa di quell'uomo che diceva di amarla, ma che non ci ha pensato due volte a tradire. Lo odio per aver rovinato la nostra famiglia, la mia famiglia e averci lasciato solo un mucchio di ferite da curare mentre lui non la smette di sorridere per via della felicità che riescono a donargli la sua nuova compagna e il nascituro.

Non noi, non la famiglia che lui ha in parte messo sù e a cui ha donato il cuore, ma l'altra, la sua nuova famiglia.

E mi fa arrabbiare il fatto che lui riesca a essere felice anche senza di noi e noi no. Lo odio per non sentire la nostra mancanza, quando noi soffriamo ogni giorno e paghiamo ancora le conseguenze del suo abbandono.

Lacrime di rabbia mi rendono acquosi gli occhi e quella che provo è la stessa rabbia che riverso su mia madre solo perché lei è la sfortunata vittima che si trova davanti a me in questo momento e perché è anche colpa sua se non siamo più riusciti ad accontentarci di noi, ma a concentrarci sulla sua mancanza.

Mi fissa dritta negli occhi, lo sguardo provato dalla sua salute mentale e gli occhi ormai vuoti del tutto.

Io mi ci specchiavo dentro a quegli occhi, tempo fa. Adesso riesco a vedere solo un buco nero e i fantasma di quella che una volta era mia madre.

Non aggiunge altro mentre il rumore del senso di colpa comincia a gridare a squarcia gola dentro la gabbia toracica, fino a farmi male, fino a farmi sentire un forte dolore al centro del petto e il peso di una colpa in più da aggiungere al resto che si trovano sulla mia schiena.

Mi dispiace, perdonami. Le dico con lo sguardo, ma non so se riesce ad ascoltarmi.

Mi dispiace, mamma, perdonami per quello che ti ho detto. Perdonami. Continuo a dirle, ma non aggiunge nulla e lentamente richiude la porta dietro di sé, lo sguardo basso e il cuore ferito, da me. Il suo cuore è stato ferito dalle mie parole.

Che cosa ho fatto? Che cosa ti ho fatto?

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro