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Mio fratello mette in pausa la nostra partita a Fifa. Fa un salto sulla sedia e deduce: «Te la sei scopata!»

«No, leva la pausa.»

«Te la sei scopata, confessa!»

«No, perché non l'ho fatto.»

«Lei allora ha scopato te.»

«Qualcosa del genere» dico ancora dubbioso.

«Mai che capiti a me» fa la vittima lui.

«Fidati, non è sempre bello. Poi dipende dal carattere che hai, dal tuo stato d'animo...»

«Che pesante che sei, non ti sai godere le cose.»

Verissimo, un fatto oggettivo, se non fosse che: «Arriverà il giorno che capirai queste mie parole».

«Va bene, va bene. Avanti, raccontami» si fa indisponente, e la partita non ricomincia. «Voglio sapere chi è la tipa così vado a cercarla.»

Non è Giada di per sé il punto chiave per comprendere le svolte successive nella mia storia. Il perché sta nell'effetto di una conversazione tra me e lei, intrattenuta dopo il terrificante atto pratico tanto interessante a quel talebano di mio fratello. Parole da lei dette su cui riflettei tanto, troppo nei giorni a venire, da un lato isolandomi e dall'altro cercando di andare avanti come sempre, con le mie abitudini e le novità proposte, o rappresentate, da altre persone.

Gianlu, incuriosito dalle possibili ripercussioni avute dal mio incontro con Giada, volle venire a vedere cosa avrei combinato con Virginia la nostra prima sera di karaoke, sebbene fossi particolarmente reticente ad averlo tra i piedi un po' per pressione psicologica e un po' perché temevo il suo temperamento di maschio alfa. Potevo soltanto fidarmi, fu lui stesso ad anticipare che il suo fosse un "mero interesse accademico" per valutare i progressi del suo discepolo.

Anyway, ne approfittai per farmi dare uno strappo in scooter. Il punto di ritrovo era il locale dove Virginia mi aveva sentito cantare per la prima volta. Quando arrivammo, e per fortuna nostra i presenti erano quattro gatti piuttosto scialli*, la vidi da sola, fuori dalla porta vetrata, con un foulard, la sempre leggera giacchetta e gli orecchini luccicanti, come lo erano i denti non mostrati nell'espressione sì contenta ma anche timida, a indicare un tratto distintivo che ci rendeva più o meno simili. Di nuova aveva l'acconciatura, si era fatta una frangetta che ben si sposava alle ciocche mosse.

Fui distratto, non notai cosa Gianlu intuì immediatamente: ragazza sola, che di solito si portava appresso amiche accozzate come fossero guardie del corpo, non lontana da una stazione ferroviaria in mano agli sbandati e davanti a un locale per niente chic in attesa di un non propriamente definibile cavaliere; Virginia l'aveva preso per un appuntamento galante, o comunque per un'occasione volutamente fraintendibile per sottrarsi alle grinfie di un fidanzato seccante. Gianlu ne era certo, negò la mia idea che le amiche fossero in realtà sedute già dentro a tenere i posti – perché le donne non si separano mai quando vanno fuori – e mi mandò avanti, dicendo che se ne sarebbe andato altrove per non fare il terzo in comodo. Non lo fece, si nascose bene fuori dal locale e ci osservò attraverso le vetrate per tutta la sera, ma chissenefrega del suo voyeurismo, perché finalmente era arrivato il venerdì tanto agognato dove finalmente avrei potuto parlare a quattr'occhi come si deve con la finalmente disponibile cantante, che fino ad allora aveva solo ricevuto messaggi innocenti, casti – non volevo che magari il fidanzato leggesse robe sospette e ne scaturissero problemi per lei.

Ma la verità indossava abiti pudici per mascherarsi; era il bianco che faceva la parte del nero perché ero stato educato in un dato modo, perché avevo i miei bei complessi, perché avevo paura di un altro "no" e perché le parole di Giada mi risuonavano in testa, quando la pancia in agitazione si era presa della cantante all'alba dell'era del texting.

Virginia mi fece strada, ci sedemmo distanti dal palchetto per evitare che le casse difficoltassero il nostro chiacchierare. Come mi aspettavo, lei, dal vivo, era la stessa persona che scoprivo dietro lo schermo: il tenore delle domande era il medesimo, le maniere dell'esprimersi erano uguali; l'interessarsi a me e alle mie vicende, pur mantenendo un certo grado di discrezione, era autentico, vivo, mi faceva percepire il suo avvicinamento, che speravo essere il principio della mia "favola" per le fantasie adolescenziali di cui ho già fatto menzione.

La differenza, come ovvio che sia, stava nel non detto che molto che difficilmente si può carpire dai messaggi: c'erano gli occhi di entrambi a tradirsi, il tremolio della voce, il nervoso darsi una grattatina alla tempia o il repentino spostarsi i capelli dietro l'orecchio. In altre parole, un mondo intero di segreti da scoprire sui due fronti.

Anche Virginia se n'era accorta, aveva cominciato a volgere lo sguardo in altre direzioni nonostante stessimo semplicemente parlando di esperienze nell'ambiente canoro – fatti, misfatti e personaggi. Era la mia presenza a renderla inquieta, mentre la sua, a lungo andare, inquietava me nel senso buono del verbo.

«Stai... stai bene?» le chiesi prima di comprendere il perché delle sue reazioni.

«Aw» fece un verso strano, ma carinissimo col suo timbro. «Sì, sì, sto bene...»

«Sicura?» insistetti. «Ti vedo un po' agitata.»

Lei si aggiustò ancora i capelli, un tale cantava L'elefante e la farfalla. Virginia guardò fuori dalle vetrate e sospirò. «Scusa» mi disse, «hai ragione. Credo di avere fatto una stupidata.»

Mi misi a braccia conserte sul tavolo, avanzando col busto. «Che stupidata?»

Lei prese di nuovo fiato e guardò verso le proprie mani sulle gambe. «Come faccio a spiegartelo senza essere fraintesa? Hai notato che stasera non ci sono le mie amiche?»

Nemmeno un cieco non se ne sarebbe accorto. Annuii e Virginia proseguì: «Non esco mai senza di loro, veramente di rado. Stasera non mi andava però che ci fossero altre persone, capisci?»

Mica tanto, infatti il cenno di testa che mi uscì non fu né simile al precedente annuire né un segno di vera negazione. «Puoi... puoi spiegarti meglio?»

Esitò, sentii le sue dita contrarsi sui jeans. «No, è stupido. Fai finta che non abbia detto nulla» come se fosse possibile, perciò la invitai con calma a esporsi senza temere l'incomprensione – anche se calmo non ero, eccitato sì. «Ti è mai capitato di sentirti solo?»

Subito appresi dove volesse andare a parare. «Ti stai riferendo alla solitudine che proviamo noi cantanti, perché siamo pochi e lontani tra noi? Sì, se è quello che intendi.»

«Proprio questo intendo» assentì, e si fece più sciolta. «I più cantano sotto la doccia, mentre guidano, o quando fanno baldoria allo stadio, vedi poi quelli che vengono in questi posti. Ma per me non è cantare, cantare è qualcos'altro. Io... io ho sempre trovato quello che avevo da dire, o... o creduto di poter dire qualcosa attraverso le canzoni. Cantare, quindi, non è un passatempo o una passione che mi accomuna a te e a tutti i cantanti: è la mia voce, la mia cosa da dire in un certo momento. Non so perché o da dove sia cominciata, perché canto da sempre, come te. Ma alle volte... quello che devo dire non riesco a trasmetterlo a parole, perché le parole alla fine cosa sono?»

«Suoni e lettere, una combinazione a cui diamo un significato» risposi attento, in sintonia col suo pensiero. «Appunto il dare significato può essere un problema, perché quello che imprime e coglie uno, in un discorso complesso, non è detto che arrivi allo stesso modo a un altro.»

«Siamo d'accordo. Voglio confessartelo perché sei un bravo ragazzo, mi hai dato quest'impressione: mi capita di avere paura di dire quello che dovrei perché non so come farlo, non so neanche se sia giusto o sbagliato come lo penso. E questo mi porta a inibirmi. Sto facendo confusione?»

Alle orecchie di uno che non c'era mai passato, senz'altro. Per me, la questione era più che ovvia. Al mio «No. Siamo in due, temo», Virginia non aggiunse altro per qualche secondo. Riprese dicendo: «Non poter comunicare separa le persone. Se essere tanto innamorata del canto mi ha fatto capire la mia rarità, non sapere come esprimermi diversamente mi allontana di più dagli altri, in un mondo che sento dirigersi verso un futuro dove non saremo più capaci di essere in relazione... Credo sia per questo che stasera non ho voluto che ci fosse nessun altro all'infuori di noi due. Avevo bisogno di qualcuno che sapesse cosa significa essere noi. Avevo bisogno di parlare realmente».

Forse stava andando così, forse no. Io capivo lei. Chi capiva me?

Virginia non rivelò ulteriori dilemmi, benché ritenessi pleonastico venirne a conoscenza visti i fattori in gioco. D'altronde, a me non pareva il caso di esplicitare vicende recenti, perciò tacqui e lei fece altrettanto. Restammo ad ascoltare l'interprete di Zarrillo in un silenzio pieno di senso, che non era ancora il tempo di disvelare. Le chiesi: «C'è qualcosa che vorresti dire adesso? Cantando, chiaro...»

Ci penso su. «Una canzone ci sarebbe...»

E c'era anche un disturbo, il peggiore possibile. Virginia sembrò captarlo come un animale smarrito nella foresta, che cerca in tutti i modi di sottrarsi dal suo predatore. Mentre Gianlu, dietro a un vetro nell'ombra, scuoteva la testa con sdegno, all'entrata del locale si palesava il fidanzato di Virginia, occhi vitrei e schifati nell'irrigidimento del corpo. Non invitato esattamente come le amiche della cantante, in un tempo in cui era anche più complicato poter socializzare in libertà senza pagarne le conseguenze. Lei similmente s'irrigidì, pur non mostrandosi troppo sorpresa. Si limitò a lasciarmi fuori dalla faccenda alzandosi, prendendo le sue cose e scusandosi. «Devo andare, ti scrivo.»

E io rimasi lì, sulla sedia, assieme ai miei limiti e alla strofa che tornava – Una farfalla sei, leggera e libera su me. Mai, non ti raggiungerò mai. Mi spezzi il cuore e te ne vai. Inetto e certo che le cose sarebbero soltanto andate in merda, mentre lei andava via, a litigare chissà dove.

Gianlu, nauseato e sgomento, cacciò la sigaretta, entrò nel locale e con rudezza si prese la sedia. «Che cazzo fai? La lasci da sola a spiegare cosa sta succedendo?»

Non c'era niente da spiegare. Eravamo gli incompresi, gli universi separati. Gli risposi: «Forse è meglio così. Non sono all'altezza» e lui ne fu spiazzato, perché avrebbe dovuto vedere quel nostro relazionarci attraverso i miei occhi per farsi almeno un'idea.

Poi io non stavo solo parlando, ne avevo di castelli in aria quella sera. Non stavo solo parlando con Virginia, perché fantasticavo e mi sentivo bene, una volta tanto. Ma con la "lucidità" del momento, quel che potevo assumere era la giustezza del tenere le distanze: non ero la persona adatta per lei e non volevo trascinarla nei tumulti della mia metamorfosi, benché ancora non avessimo rischiato alcunché. Lei benestante e linda, io straccione e sporco nella coscienza per non aver chiarito gli affari miei; lei, almeno all'apparenza, decisa sulle strade da percorrere, io senza una direzione, andata o ritorno.

Era Gianlu ad avere ragione, non ci piove. Tuttavia, appena quell'individuo apparve, assieme alla sua sagoma emerse turbolento il pensare dei giorni precedenti. Giada mi aveva trascinato in casa sua, aveva chiuso la porta e mi aveva appiccicato al muro. Finì come finì perché, ahimè, non aveva il reggiseno sotto la maglia subito tolta – mi convinse in un attimo. Però, cosa può un ragazzino quasi vergine dinnanzi a un simile appetito sessuale? Chiaramente, secondo un altro non detto, non le piacque, ma mi parve di osservare che, comunque, fosse stato meglio quello che non trascorrere la serata a bere in piazzetta.

Mi lasciò stremato nel suo letto. Si alzò giusto per prendere le sigarette e si risdraiò. Quale bella visione il suo corpo nudo, per poco mi fece sorvolare sulla sua indole grezza e sui numerosi piercing che aveva disseminati sulla pelle. «Non ti ci affezionare» disse vagamente delusa, accendendosi una sigaretta. Lo stesso suggerimento di Alice. «Stai bene?»

«Ah-ah» feci stordito.

«Beh, poteva andare peggio. Alla fine sei durato più del mio ex fidanzato.»

Nulla di cui potersi vantare. Mi feci coraggio per domandarle che cosa l'avesse spinta a fare sesso con me. «Anche le donne hanno le voglie, cucciolino. Mi andava divertirmi, tutto qua.»

«È solo questo?»

Giada mi lanciò un'occhiataccia carica di fastidio e di giudizio. Penso però che la mia totalità – il fiatone, la faccia stregata, tutto ciò che indicava che non fossi affatto un pericolo – le diede la tranquillità per spiegarsi. «Ti hanno mai trattato di merda?»

«Una persona l'ha fatto...»

«Bene, allora prova a immaginare questo: sono stata fidanzata per cinque anni con un cazzone violento, che si drogava pesantemente e che adesso sta al fresco. Non mi ha alzato le mani troppe volte, ma il suo l'ha fatto. Come se non bastasse, non mi lasciava la libertà di fare un po' quello che mi andava, e mica lo facevo cornuto, eh. Una testa di cazzo vergognosa, ma io dicevo di amarlo perché mi piaceva illudermi di poterlo cambiare. O che lui un giorno o l'altro cambiasse per me. Tutte stronzate. Dato che ci ho messo parecchio tempo a darmi una svegliata, voglio riprendermi i miei spazi. Questo include farsi una scopatina con un ragazzino che non conosco, perché è preferibile non fare certe minchiate con gli amici del gruppo.»

A suo modo aveva una logica. Non scese nei dettagli, non glieli chiesi. Non andai a casa perché guardarla mi piaceva più che farmi possedere, a prescindere dall'insensata colpevolezza che mi sentii addosso.

Lei immaginò che aspettassi la recensione. Soffiò il fumo e voltò lo sguardo per non compatirmi. «Capisco cosa intendesse Gianlu con "ingenuo", sei proprio alle prime armi. Ora, non ti addolcirò la pillola: se stai chiedendo una mano perché vuoi imparare a rapportarti con le ragazze, sì, devi darti tanto tanto da fare, perché il sesso nelle relazioni è fondamentale. Al contempo ti dico di non prendere per oro colato quello che Gianlu ti racconta, perché rimane un ragazzo di diciannove anni, non è che ne sappia granché della vita. Ma soprattutto, proprio perché ha diciannove anni, non è molto diverso da te. Avete degli istinti, siete giovani, vi fate trascinare dall'impeto e non riflettete. E ti dirò di più: la questione del sesso è un pretesto per fare la gara a chi ce l'ha più lungo. Magari te la sei data, sotto sotto. Beh, non funziona così. Se volete competere, fatelo lasciando fuori noi.»

Le dissi che la competizione non m'interessasse per nulla. Giada la pensava diversamente, perdonabile dopo il suo immaginato vissuto. Non fu cinica nell'aggiungere: «Per te si sta aprendo un mondo di prime volte. Ogni cosa che farai sarà un'esperienza nuova sulla quale riflettere». Dopodiché, osservando il soffitto e restando scoperta, si sdraiò accanto a me. «Sei carino, sai? Fossi un po' più grande, ti chiederei di vederci ancora. Adesso sei piccolo per me, non mi va di insegnarti quello che è giusto tu impari per i conti tuoi. Perciò, se vuoi un consiglio, gettati con intelligenza, non buttarti nelle cose troppo a fondo altrimenti venirne fuori è un casino. Non sarà Gianlu a darti le dritte per approcciare con la ragazza che ti piace, questo sarai in grado di farlo tu con la tua naturalezza. Perché questo è un altro problema, spacciarci per chi non siamo impedisce agli altri di apprezzare la nostra natura o anche di detestarci. E che ci guadagni dal mentire, se non rapporti basati sulla falsità?»

Sii te stesso, con i tuoi pregi e i tuoi difetti. Non lasciare che gli altri ti travino, non permettere che la paura di non piacere prevalga sulla necessità di esistere nella tua autenticità.

Distinta mi giunse la lezione intrisa nelle sue parole, fu positivo averla incontrata. Ma: «Ho fatto tanto schifo?»

Perché a diciassette anni da compiere, spesso, le lezioni non valgono quanto i complimenti, anche per chi, come me, pensava di non essere in competizione con nessuno.

Giada dentro fu urtata, però mi guardò compassionevole e tentò di fare del bene. Mollò la sigaretta nel posacenere, si stese su un fianco e guardandomi mi fece una carezza, prima di darmi un dolce bacio. «Sei di miele tu. Non t'imparanoiare, non pensare di avere dei limiti solo perché stai imparando a camminare. Vai a casa, vediti con quella ragazza e bada a crescere insieme a lei, che è la cosa giusta per te. Fammi sapere poi come va, d'accordo?»

La morale fu trascurata. Pensai soltanto ai limiti, da bravo ragazzino che aveva bisogno di diventare uomo in fretta. Limiti a letto, limiti nella parola, limiti metacognitivi. Un'altra verità è che all'appuntamento con Virginia mi presentai pensando al calore di Giada, a quanto mi piacque venire "abusato" da una ragazza più grande. "Non sono all'altezza" fu la ricorrenza in entrambe le occasioni e la spinta alle disdicevoli malefatte che vennero subito dopo.

*Neologismo pare di origine romanesca, che significa "sereno", "tranquillo".

Spazio autore

L'importanza della voce. Tra le varie cose, tutto ruota anche intorno a questo.

È la morale originale de La sirenetta di Andersen, che temo non vedremo mai su grande schermo perché è più importante riproporre un clamoroso travisamento animato in un live action praticamente identico nella sostanza, salvo particolari accorgimenti pensati per accendere le polemiche e vendere biglietti (con altre conseguenze sociologiche di cui mi piacerebbe tanto parlare).

Se non fai sentire la tua voce, se non esprimi cosa sei, allora nessuno ti amerà mai veramente. Virginia ci prova, ma il nostro Mister X invece? Il baratro è a un passo...

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