XI

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Falsamico era un buon cavallo: alto, maestoso, i muscoli scattanti sotto la gualdrappa di broccato rosso a trame d'oro che lo ricopriva; tra le orecchie gli passava una testiera scarlatta con borchie dorate che scendeva fino al muso, allacciandosi al freno. Da esso partivano le redini da parata, che risalivano il dorso e le spalle per giungere tra le mani pallide e delicate di Clarice.

Clarice vestiva di bianco quel giorno, a significare la sua purezza sia come fanciulla sia come discendente di una delle famiglie più antiche d'Italia. I suoi capelli rossi, in notevole contrasto con l'abito, erano domati in una treccia che pareva dividerle a metà la schiena; sulla testa aveva una finissima rete d'oro e perle che compariva e scompariva tra le ciocche intrecciate. Il viso non era intaccato da trucchi di sorta e ciò esaltava il suo incarnato naturalmente chiaro e le gentili lentiggini sul nasino che le davano un'aria sognante e, si sarebbe detto, infantile.

Cavalcava al passo, fendeva la folla che, più numerosa della sera prima, si era assiepata lungo il tragitto prestabilito verso palazzo Medici. La precedevano a piedi cinquanta giovani donne, per lo più nubili, selezionate accuratamente per introdurla nella sua nuova vita in città; la seguivano, a una certa distanza, i carri che contenevano la sua dote: stoffe pregiate, gioielli, argenteria, ogni ben di Dio. La gente la guardava passare come fosse un'apparizione celeste e lei, disavvezza a tutti quegli occhi fissi su di sé, stentava a sorridere finendo col sembrare più altezzosa del dovuto.

A un tratto, però, la sua compostezza fu smussata dallo stupore di trovarsi accanto il Duomo di Firenze e il suo Battistero. Nell'atto di volgersi ad essi per contemplarne la maestosità, Clarice non s'avvide di aver socchiuso le labbra, perché al contrario si sarebbe prontamente portata una mano alla bocca. Mentre Falsamico, placido e premuroso, continuava la propria sfilata non senza un pizzico di vanità, Clarice cominciava a percepire su di sé quello che fino ad allora le era parso un miraggio: Firenze, i suoi colori, il suo clima primaverile, e i visi affabili delle persone che le indirizzavano i loro auguri come fosse stata figlia o sorella loro, la commossero fino al sorriso.

Dunque anche le nobildonne sapevano sorridere e illuminare il viso con la gioia dello sguardo il giorno della festa. Ed era bella, non c'era da dire su questo: Lucrezia de' Medici aveva scelto bene per il figliolo, bilanciando gusti e aspirazioni in modo che gli uni non pregiudicassero le altre.

Il corteo proseguì portandosi appresso le folle che, man mano si avanzava verso la meta, diventavano più fitte di teste, più rumorose. Al crescere delle ovazioni, al crescere soprattutto di quelle che gridavano: «Palle! Palle! Palle!», Clarice comprese che doveva mancare ormai veramente poco. Infine lo vide, il palazzo: non dissimile, a una prima occhiata, dalla struttura di palazzo degli Alessandri, quello mediceo appariva più imponente per il fatto che affacciava su un incrocio e perciò mostrava non uno, ma due lati. I tre piani rispecchiavano un perfetto ordine geometrico, con due file di bifore nei piani alti e grandi finestroni rettangolari a pianterreno. A ciascuna di esse era stato apposto un ramo d'ulivo in ossequio alla tradizione fiorentina per cui con tale gesto si augurava alla novella coppia una vita feconda e felice. La via principale, non a caso denominata Larga, era occupata da un palco adibito alle danze e agli intrattenimenti offerti al popolo, perché nessuno si sentisse escluso dai festeggiamenti. Più in là, grandi tavolate erano pronte ad accogliere le elargizioni di cibo e bevande.

Avrebbe avuto tanti altri particolari da scoprire in quella baraonda, non fosse stato che i suoi occhi incontrarono il volto di lui che l'aspettava. C'era, in verità, tutta la famiglia schierata, con tanto di sorelle, cognati, cugini e zii. Un passo avanti a tutti, però, c'era Lorenzo, che sembrava non poterle togliere gli occhi di dosso. Clarice, pervasa da un repentino sentimento di orgoglio, addrizzò la schiena, assottigliò il vitino da giovinetta e distese un luminoso sorriso tra le guance imporporate. La sua buona disposizione d'animo non poté che crescere, date le premesse, quando vide lo sposo venirle incontro, le mani protese verso le briglie del cavallo per sottrarlo al palafreniere e accompagnarla personalmente nell'ultimo tratto. Come la gente capì il significato del gesto – che preludeva al possesso del marito sulla nobilissima moglie – le ovazioni si fecero più acute, gli applausi scroscianti.

E di nuovo, Clarice si ritrovava in tale stato d'ebbrezza da non percepire quasi nulla di ciò che le accadeva attorno: badava solo alla premura di lui, che aveva voluto esserle accanto, scortarla mentre si accingeva ad accoglierla nella propria casa. Dovette arrivare di fronte al portone spalancato per distogliere lo sguardo da Lorenzo e degnare il suocero, quel Piero di cui le avevano tanto parlato, e la suocera, la ben nota Lucrezia, e Giuliano e la Nannina, la Bianca, la Maria sue cognate, con i mariti che aveva già conosciuto a Roma, Bernardo e Guglielmo. Sentiva un nodo chiuderle la gola e temette di non essere in grado di dare loro i saluti convenienti.

«Benvenuta, madonna Clarice», la riscosse la voce vivace di Lorenzo, non meno emozionato di lei, ma più abile a camuffarlo. Per aiutarla a smontare di sella, lui le tese entrambe le mani, lei le accettò e si lasciò scivolare giù, affidandosi alla sua presa. Una volta che fu ben a terra, Lorenzo rattenne la sua sinistra e se la portò alle labbra, baciò il suo anello nuziale, quindi si volse verso il padre e gliela presentò, per ricevere la sua benedizione.

Piero era emaciato e si teneva in piedi con l'aiuto di un bastone, palesando così la deformità che aveva colpito le sue dita. I capelli tendevano più al grigio che al nero, i suoi occhi erano ugualmente spenti tra le profonde rughe che gli solcavano la fronte e le guance. Il suo viso scavato e pallido tradiva chiaramente le sofferenze patite per la gotta, per quanto egli si proponesse di non demordere, di stare allegro e rassegnato come si addice a chi sa che la fine è ormai vicina. Clarice fu perciò molto toccata quando lui le parlò. «Benvenuta, madonna», le disse con paterna bontà. «Vi accogliamo con affetto nella brigata. Lorenzo è impaziente di conoscervi. Auguro a entrambi una vita felice e prolifica.»

Fu l'inizio del primo giorno di festeggiamenti: dopo una visita del palazzo, che la abbagliò con i tesori di bellezze che conteneva, Clarice fu condotta alla loggia, dove la tavolata delle cinquanta fanciulle fiorentine che l'avevano scortata la attendeva per il banchetto; suo marito raggiunse invece i cinquanta giovani delle migliori famiglie nel cortile, nel cui porticato sedevano, quasi a loro monito, gli uomini di rappresentanza della città; le donne d'età più matura sedevano nella balconata sovrastante la loggia, capitanate dalla Tornabuoni. Era infatti richiesto dal buon costume che gli invitati banchettassero separatamente. All'esterno del palazzo, lungo le vie adiacenti, il popolo brindava alla salute degli sposi.

Il vino certamente non difettò, essendone arrivate botti a non finire dal contado nel corso degli ultimi giorni di preparativi; così non mancò la carne, ché dalle medesime campagne erano giunti vitelli in numero di centocinquanta, quattromila volatili domestici, pesce e cacciagione in quantità. I dolci, che comprendevano le mandorle confette augurio di prosperità, segnarono la lieta conclusione del pranzo. Dopodiché, lo sposo salì gagliardo al primo piano a reclamare la propria donna e ricondurla in cortile, dove era attesa per la consegna dei doni nuziali: anche in questo caso, sarebbe parso fuori luogo calcolarne il numero e il valore, benché gli occhi allenati della maggior parte degli invitati non faticassero a pesare, senza bisogno di toccare, il quantitativo d'oro speso per acquistare anelli, stoffe, pietre preziose. È però inevitabile che qualcuno figuri preminente sul resto: così, sedendo Clarice al posto d'onore, Lorenzo in piedi al suo fianco, venne loro incontro l'ennesimo paggio a porgere l'ennesimo dono.

«Da monsignor Gentile Becchi, madonna», spiegò il servo. Ella raccolse dalle sue mani un piccolo sacco di velluto porpora intuendo dalla forma che fosse un libro; probabilmente, trattandosi di un ecclesiastico, era un libro d'ore. Desiderosa di vederlo, Clarice aprì il sacchetto e fece sì che, con ogni cautela, il contenuto scivolasse sul suo grembo. Come lo vide, con la sua rilegatura scarlatta e lapislazzuli incastonati ai quattro angoli del piatto frontale, le vennero le lacrime agli occhi; Lorenzo, notandolo, la esortò a staccare i gancetti dorati che ne assicuravano la chiusura a protezione delle pagine. Lei, sopraffatta dallo stupore, esitò a farlo, cosicché lui la prevenne, sollevò il libriccino e glielo spalancò innanzi. «Vedete,» disse, scorrendo le pagine, «qui è riportato il salterio, qui gli uffici liturgici, il tutto abbellito da miniature pregevolissime. E qui in testa c'è il calendario: monsignor Gentile s'è premurato di far abbellire i giorni di San Silvestro e di San Clemente papa e martire (1), in onore mio e vostro.»

Clarice, ascoltandolo, sfiorò con la punta del dito indice la pagina di pergamena che le veniva mostrata. «È tutto pinto d'azzurro!» esclamò estasiata. «Monsignor Gentile, è un gioiello questo vostro dono, e lo tengo caro come nessun'altra cosa.»

Il Becchi, che era di quelli che erano scesi a Roma a prelevarla per condurla a Firenze, aveva già avuto modo di conoscerla; in quel frangente, limitò la propria riconoscenza a un inchino ossequioso e a un cenno rivolto a Lorenzo, che di rimando gli sorrise complice. Quindi, quasi per avventura e non per strategia, la sua mano scivolò sulla spalla di Clarice non senza averle accarezzato i capelli, sicché lei si volse a lui e sussurrò: «Vi vedo pensieroso... Forse che il banchetto non vi piace?»

Lorenzo, per risponderle, si chinò a bisbigliare all'orecchio. «No,» confessò. «Solo che questo era l'ultimo dei vostri doni, il che significa che si avvicina la vostra tornata a palazzo degli Alessandri.»

«Le vostre usanze sono bizzarre, messere», replicò, accettando il suo invito ad alzarsi. Lui trattenne una risatina sorpresa e, approfittando del tragitto verso il giardino, dove aveva deciso di condurla per una chiacchierata a tu per tu, la tenne in sospeso con l'arma del silenzio. Notò con una certa soddisfazione che la strategia, iniziata con un contatto quasi fortuito, coltivava in Clarice la curiosità e faceva sì che, sempre più di frequente, si voltasse a guardarlo in volto.

Non appena furono a debita distanza dalle orecchie degli invitati, Lorenzo riprese: «Dici che sono bizzarre?»

Quel tu dato senza preavviso la scosse in modo che avrebbe faticato a definire piacevole o sgradito. Certo non le fu indifferente. «Sì, dico che son bizzarre», confermò, «perché quando mia sorella Aurante ha preso marito è andata subito ad abitare con lui.»

«Vero, ne sono stato informato. Ma non tarderà il momento che tu venga a star qui e allora, t'assicuro, ti sarà data accoglienza ben più calda che questa.»

Non le diede il tempo di arrossire alla velata allusione, che proseguì: «Perché, vedi, oggi non era solo l'occasione del nostro matrimonio, bensì era l'unione di Firenze con Roma, e soprattutto per questo s'è festeggiato».

Il rossore impallidì d'un colpo sulle gote di lei. «Dunque non mi devo considerare vostra sposa oggi?»

«Oggi non ancora; oggi sei stata presentata a Firenze ed essa t'ha accolta. Domani e doman l'altro sarà l'istesso, ma lo facciamo per chi ama guardare e inebriarsi del nostro fasto, come godessero nel vedere quanto potere la mia famiglia s'è conquistata. Sarà da quando dormirai in casa nostra, da quando diverrà consueto svegliarci vicini e riposare uno accanto all'altra, fuor dello sguardo di estranei, che saremo sposi. M'intendi, Clarice?»

Si era fatta ombrosa, le labbra leggermente imbronciate, le spalle un po' chiuse, come a difendersi. Ciononostante, un nuovo tremito la scosse: udire il proprio nome pronunciato con tale confidenza le suscitava una torsione delle viscere che le dava una dolce impressione di mancamento. «V'intendo, messere,» si ostinò a chiamarlo così, forse nell'intento di tenerlo un po' più lontano di quanto lui non volesse.

«Ti conforto a portar pazienza», insistette lui, preparandosi a pungolarla sotto l'aspetto che gli premeva tanto quanto, o forse più che la mera politica cittadina. «E confida che, quando sarai mia, intenderai ancor meglio.»

Attorno a loro era un fitto ronzio di api in un brulichio di fiori d'ogni colore e foggia. Si fermarono, immersi nella quiete del giardino, il gorgoglio della fontana poco distante, e si guardarono attorno. Gli invitati, che avevano seguito dalle finestre e dalle arcate del porticato il loro errare tra le piante ornamentali come potessero, con lo sguardo, catturare brani di conversazione, non desistettero dall'osservarli. Notarono, eccome, che l'andatura a braccetto si era mutata in un restare accoccolati, più vicini di quanto si sarebbe detto di due persone che non s'erano mai incontrate prima. Clarice, difatti, si era aggrappata al braccio di Lorenzo e aveva reclinato leggermente il capo contro la sua spalla, mentre lui, con la mano libera, le accarezzava le guance.

«Anche voi dovrete portar pazienza, messere», gli rispondeva in quel momento, gli occhi illanguiditi da mille pensieri che da qualche mese erano diventati ricorrenti. Alzò lo sguardo su di lui e lo colpì con i riflessi verdi delle sue iridi. Lorenzo, stringendola più vicina, le carezzò amorevolmente la gota sinistra con la punta delle dita. «So essere paziente, sebbene i miei parenti potrebbero dire il contrario», sussurrò. «Per esempio, ora ti vorrei baciare, ma non si è più tra noi e noi come ieri sera, e non lo posso fare...»

Il suo viso si illuminò un poco di speranza, la presa delle sue mani si chiuse sulla stoffa della manica di lui. «Piano, Clarice,» la prese in giro allora, pizzicandole la guancia, «non provocarmi!»

Le piaceva farla arrossire, metterla in imbarazzo; così, quando lei abbassò la testa per pudore e si accinse a riprendere a camminare verso la fontana, la assecondò con un sospiro tenendola ancor più stretta accanto a sé, quasi temesse che gli sfuggisse via.



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(1) La memoria liturgica di San Clemente papa e martire ricorre il 23 novembre. Non ho trovato una data certa per la nascita di Clarice Orsini, perciò, inventare per inventare, ho deciso di tenere buona la data indicata su Wikipedia. Qualora dovessi trovare riscontro di una data più certa, provvederò a correggere :)

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