XII

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Il 4 giugno era stata una serena domenica della prima estate; il lunedì, quando sede dei festeggiamenti era il palazzo di proprietà di Carlo de' Medici, figlio illegittimo di Cosimo e perciò fratello di Piero, il cielo non fu affatto clemente e la festa si risolse in un acquazzone improvviso che non risparmiò dame, messeri o paggi, e nemmeno gli sposi. Quando il sole si levò su martedì 6 giugno, il tempo sembrava promettere bene.

Clarice indossò un abito castigato e dai colori freddi: una cotta di raso alessandrino sotto, una giornea verde di sopra. Quella mattina si sarebbe tenuta la messa del congiunto, la solenne benedizione del vincolo nuziale. Lorenzo, invece, aveva scelto un abbinamento di toni caldi come il cremisi e il morello e l'aspettava nella chiesa dedicata al proprio Santo patrono, che si trovava poco lungi dal palazzo. Anche in quell'occasione non poterono assistere al rito vicini, poiché non era buon costume mescolare i sessi durante la celebrazione sacra. Oltre a rari e fugaci sguardi, nessun altro scambio era concesso.

La soddisfazione della novella madonna Medici arrivò all'ora di pranzo. Consapevole di entrare finalmente in casa propria, non più come ospite, ma come parte integrante, Clarice parve allora più radiosa che i due giorni precedenti. Altra nota positiva, il tempo dei grandi banchetti era passato e il pranzo venne consumato nel salone con la sola compagnia dei parenti. Preso posto accanto al marito, la giovane cominciò ad assaporare quello che lui le aveva predetto durante la passeggiata in giardino: non sarebbero state le celebrazioni pubbliche a sancire il loro legame, ma la quotidianità vissuta fianco a fianco. Lorenzo aveva appreso la lezione dall'esempio dei genitori: Piero e Lucrezia, insieme per matrimonio combinato, con una non piccola differenza d'età, in privato si davano vicendevolmente del tu e indulgevano spesso a gesti affettuosi anche in presenza dei figli.

Clarice, per quanto la riguardava, non aveva mai assistito a simili comportamenti a Roma: suo padre era stato per lo più assente nel corso della sua infanzia e poi, nel 1465, era morto lontano. Conservava di lui pochi ricordi e sua madre non aveva pensato di condividere i propri con la prole nata dal matrimonio. Ora si domandava, da ragazzina inesperta quale era, come avrebbe voluto che fosse il suo, di matrimonio; si voltava a guardare il marito e, istintivamente, rinnovava i propositi che avevano riempito le sue brevi lettere. Voleva dargli piacere, renderlo felice, assisterlo e confortarlo quando ne avesse avuto bisogno. Se, però, i loro sguardi si incontravano, lei subito chinava la testa e intingeva del pane nella salsa dell'arrosto o spiluccava piccoli bocconi per non dargli modo di domandarsi a cosa stesse pensando mentre lo guardava. O forse era proprio lei a distogliere lo sguardo per evitare di spingere la fantasia oltre il presente, verso un momento che invero sarebbe pur arrivato. Lorenzo, in ogni caso, era sufficientemente dotato di sensibilità da comprendere le sue titubanze; suscitargliene di nuove era certo contrario ai suoi stessi interessi.

Nel corso del pomeriggio, il palazzo tornò a riempirsi di giovani uomini, amici dello sposo, che intendevano fare la loro parte nel tradizionale proseguimento dell'ultima giornata di festa. Restarono per la cena e, quando essa fu ormai conclusa, si divisero in due schieramenti: il primo, con la complicità delle cognate e dei cognati, cinse gli sposi e prese burlescamente a condurli alla camera da letto tra canti e burle; il secondo, precedendoli sulla via, si pose d'ostacolo al loro avanzare. Gli anziani si tennero da parte, assistendo a una scena che comunemente si sarebbe verificata per le strade e che allora, per la situazione inusuale di un matrimonio forestiero, veniva a svolgersi tra le mura domestiche. Lorenzo dovette pagare un dazio per poter proseguire e, quando la strada fu nuovamente libera, prese a braccetto la moglie e la incitò a fare in fretta.

Giunti poi alla fatidica meta, un sacerdote vestito dei paramenti sacri li attendeva: tutto era pronto per la benedizione del talamo nuziale. Il sacerdote imbracciò per prima cosa il turibolo e incensò abbondantemente tutta la stanza; e nel farlo esagerò, perché molti dei presenti tossirono forte e qualcuno dovette allontanarsi. Poi, cogliendo delicatamente l'aspersorio dal secchiello, benedisse il letto borbottando tra sé le formule di rito con cui scacciava definitivamente il demonio da quelle mura. Aveva ben da preoccuparsi, il povero curato, con tutte le immagini paganeggianti che lo sposo aveva voluto affrescate nella propria alcova. Lanciando occhiate in ogni dove, minaccioso, si volse quindi ai due giovani che, per mano, attendevano che venisse il loro turno. Li benedisse con l'acqua e con la voce, rinnovando l'augurio alla fecondità e alla concordia, quindi si affrettò a uscire per far spazio a un genete di rituali che non lo riguardava. I presenti, imitandolo, salutarono un'ultima volta e se ne andarono.

*

«Lasciami aprire un momento, un momento solo», bofonchiò Lorenzo, portandosi una mano sulla bocca per reprimere l'ennesimo colpo di tosse. Clarice, stringendosi nelle spalle, lo lasciò fare senza dir nulla né a favore né contro quell'iniziativa.

«Certo, se c'eran diavoli sono bell'e scappati», aggiunse subito dopo. «Ora mi preoccupano quei tre bischeri qui fuori.»

Andò alla porta e diede un giro di chiave nella serratura. «Che non gli venga in mente di farsi burle di noi!»

Nell'atto di voltarsi, mise mano alla cintura e la slacciò, quindi si sfilò la giornea. Clarice, le mani giunte, aspettava; poiché cominciava a sentirsi a disagio, disse: «Cammilla dovrebbe arrivare a momenti». Era una giustificazione, quella che stava dando? O forse era una scusa per prendere tempo?

«Oh, la fantesca non verrà», ribatté lui, le mani salde sui fianchi.

«Non verrà?»

«Mi propongo di aiutarti io a svestirti. Intanto, mettiti comoda, siediti se ne hai voglia», disse Lorenzo. Quasi fosse un ordine, Clarice obbedì e sedette su uno dei due cassoni, quello a destra del letto, ma i suoi modi impacciati tradirono l'agitazione che la pervadeva da capo a piedi. Lorenzo se ne accorse e: «Sta' quieta, madonna, che c'è tempo».

«Come dite?» bisbigliò lei, voltando un po' la testa per guardarlo meglio. Lui fece spallucce e, sciogliendo un laccio delle calzebrache dal farsetto, rispose: «Ho ripensato spesso a quella Pasqua».

Per la prima volta da che era entrata in camera, Clarice sorrise. «Anch'io ho pensato tanto a quel giorno.»

«Quindi ricordi anche che cosa ti dissi?»

«Sì, messere», rispose arrossendo. «Mi diceste che invidiavate colui che mi avrebbe preso in moglie, perché mi trovavate bella e gentile sopra ogni altra dama di Roma...»

«E siccome sarai d'accordo che l'invidia è un gran brutto affetto, mi sono adoperato al fine di non doverne provare», ammiccò Lorenzo, quindi: «Posso riporre i tuoi gioielli? Guarda, ho fatto preparare un portagioie», propose, raggiungendola a lato del letto. Lei non gli si negò, apprezzando il modo premuroso che le usava. «E ora ti aiuto con la giornea», continuò lui che, già sufficientemente vicino, le slegò la cintura con insospettabile velocità. Clarice si trovò con la sola cotta addosso prima che potesse rendersene conto, ma a quel punto le sue esitazioni diventarono manifeste. Temeva che questo l'avrebbe irritato, ma contro ogni previsione Lorenzo cambiò argomento, domandandole all'improvviso: «Ti garbano le fragole?»

«Sì!» ribatté in un soffio. E lui, approvando, si avviò alla porta.

*

Rimasti chiusi fuori, come d'altronde si richiedeva a siffatti testimoni, Guglielmo de' Pazzi, Bernardo Rucellai e il sedicenne Giuliano sedevano sul pavimento, incuranti delle occhiatacce di Lucrezia che di tanto in tanto entrava nell'anticamera a vegliare sulla prima notte di nozze con la premura delicata di una madre.

Sembrava non accadere nulla; Giuliano, che era il più giovane e audace dei tre, premeva di frequente l'orecchio all'uscio in cerca di qualche rumore sospetto, ma nulla. Parlavano normalmente, il che significava che non c'erano progressi.

«Che t'aspetti? Che sia come con le amiche? Una moglie non è un'amica», lo rimproverò bonariamente Bernardo. Subito Guglielmo diede conferma: «Quando avrai moglie, capirai come non basti chiedere per avere. Bisogna chiedere nella maniera giusta».

E Giuliano sbuffava, perché il tempo gli sembrava scorrere invano, quando invece non erano passati che pochi minuti. Poi, mentre borbottava insoddisfatto, la chiave schioccò nella serratura, si aprì uno spiraglio e comparve il volto di Lorenzo.

«Dunque?» balzò su il fratellino curioso.

«Dunque?» gli fece il verso il maggiore. «Dunque ora vai nelle cucine e ti procuri un cestino di fragole belle mature, poi ti fai dare un fiaschetto di trebbiano e una coppa d'argento e ti spicci a tornare.»

«O per chi m'hai preso? Sono io tuo schiavo?» si ribellò, ma già camminava verso la scalinata. Guglielmo e Bernardo risero di lui, prendendolo in giro, quindi il primo domandò: «Ha già le voglie? Cattivo segno!»

«Non è per le voglie sue, ma per le mie che m'occorrono le fragole!» bisbigliò Lorenzo, richiudendo piano la porta.

*

«Cattivo segno?»

Clarice aveva afferrato solo quelle due parole e, interdetta, si chiedeva dove stesse il nesso con le fragole. Lorenzo, mostrando risolutezza, slacciò del tutto le calzebrache e le calò con un movimento repentino. Lei trasalì e serrò d'istinto gli occhi; quando, titubante, li socchiuse, vide che la camicia gli arrivava poco sopra le ginocchia. Nello spacco laterale, che raggiungeva l'anca, spuntavano talvolta le mutande, e gliele vide bene quando lui levò alte le braccia per togliersi il farsetto. Accomodò i vestiti sul cassone e prese posto vicino, troppo vicino a lei. Clarice, rispondendo di nuovo all'istinto, si irrigidì e trattenne il respiro.

«Nessun cattivo segno, non temere», disse a bassa voce, quindi le accarezzò la testa scendendo giù lungo i capelli che si era sciolti sulle spalle e la schiena. Arrossì, Clarice, e per trarsi dall'imbarazzo si guardò meglio attorno: le pareti erano tutte affrescate, ma la luce soffusa delle poche candele accese non le permetteva di riconoscere figure definite né colori. Aveva avuto un assaggio d'arte a palazzo degli Alessandri e già a prima vista questa camera le sembrava superbamente decorata. In un'altra occasione, pensò, avrebbe chiesto a che cosa alludessero le scene dipinte, i simboli e le scritte in latino in lettere capitali. Una cosa più di tutto la colpì e, quasi senza accorgersene, chiese: «È uno stendardo, quello?»

Lorenzo spostò lo sguardo là dove sapeva essere il suo stendardo da giostra: aveva disposto che fosse tenuto lì, in un angolo, a ricordare il glorioso giorno della sua vittoria; l'elmo, un prezioso manufatto d'argento, restava conservato nella tesoreria del Palazzo, al sicuro.

«Lo è. È lo stendardo con cui mi sono presentato alla giostra.»

«E sono rose, quelle?»

«Rose rosse intrecciate a rami di alloro. In onore tuo.»

Un sospiro, e il suo cuore si fece un po' più pesante e un po' meno agitato. «Trovo che sia molto bello, messere», bisbigliò, chinando il capo come le veniva istintivo fare in circostanze imbarazzanti.

«Il Verrocchio ha fatto un buon lavoro», convenne Lorenzo. Quindi si volse a lei e la guardò un momento in quella posa timida e dimessa. Non ci pensò, semplicemente allungò una mano e le sfiorò il mento e poi, pian piano, le sollevò la testa finché fu ben ritta. Era sul punto di dire qualcosa, lo si capiva da come il suo respiro si fosse fatto più lieve, quasi avesse paura di rovinare l'atmosfera. Ma a questo pensò Giuliano con il suo bussare.

*

Giuliano si ingegnava di tenere con una mano il cesto di fragole e con l'altra il fiaschetto, sul cui tappo era stata capovolta la coppa d'argento richiesta. Aveva ancora nelle orecchie gli strilli della sguattera che aveva or ora terminato di lucidare il servizio della giornata, pezzo dopo pezzo. E non gli andava giù che suo fratello l'avesse cacciato via, avendo paura che, in sua assenza, avesse finalmente combinato. La sua faccia, quando Lorenzo aprì, manifestava uno schietto disappunto.

«Tienti codeste fragole», sbottò cedendogli la cesta, quindi gli tese il fiaschetto e incrociò le braccia.

«Grazie», fu la ricompensa, e la porta si richiuse. A quel punto, Giuliano si volse ai cognati che sedevano a terra. «Vi pare che mi debba trattare in siffatta maniera?»

*

«Eccoti le fragole, Clarice. Prendine una.»

La cesta giaceva ora sul letto e il profumo che emanava pizzicò l'appetito goloso della fanciulla; senza farsi ripetere l'invito, Clarice si scelse una fragola rossa e succosa e la portò alla bocca, morsicandola. Nel frattempo Lorenzo aveva stappato il fiaschetto e versato del vino bianco nella coppa; attese che inghiottisse e glielo porse. «Bevi un sorso, sentirai che buon abbinamento.»

«Messere, io non tocco vino!» si scusò. Lui non desistette: «Un sorso, uno solo».

Accompagnandola con la propria mano, le fece portare la coppa alle labbra. Clarice bevve più di quanto avrebbe voluto e, per di più, per distrazione qualche goccia le cadde sul mento; Lorenzo, mordendosi il labbro, si affrettò ad asciugargliela con il dito e solo in seguito addentò la propria fragola.

«Ti garba?»

Mentire è peccato, perciò: «Sì, molto!» ammise, guardandolo fisso mentre sorseggiava dalla coppa.

«Allora ne vorrai un'altra.»

Già allungava la mano alla cesta, ma lui la anticipò, scegliendo una delle fragole più belle e avvicinandogliela così che potesse morderla. Non la tenne però alla sua portata, costringendola a chinarsi avanti; quando la vide pronta, ritrasse leggermente la mano e la fragola sfuggì a Clarice, che poté solo sfiorarla con le labbra. Si era così guadagnato il suo sguardo, tornato fisso su di lui: questo era quello che voleva. Le diede la fragola e quindi il vino, poi mangiò e bevve a propria volta.

Stette attento a che lei non esagerasse, data la sua inesperienza con le bevande inebrianti, poiché non voleva che si ubriacasse. Avrebbe dovuto ricordare tutto, comprendere tutto. Era essenziale che fosse presente a se stessa per tutto il corso della notte.

Il gioco si ripeté per altre tre volte e la moglie non mancò di restituire la cortesia al marito, imboccandolo divertita. Alla quarta fragola, quando ormai gli occhi di entrambi brillavano di complicità, Lorenzo sussurrò, rigirando il piccolo frutto nella mano: «La vuoi?»

Clarice annuì immediatamente. Lo vide protendersi, ma senza puntare alla bocca, come aveva fatto in precedenza. A un tratto percepì la superficie liscia e fresca della fragola contro la guancia sinistra, la sentì scendere fino alle labbra; l'odore dolciastro le pervase la mente, ma non pensò nemmeno per un momento di addentarla.

*

«Ohi, Giuliano, che tu senti?» domandò Guglielmo sgranchendosi il collo.

Il ragazzo premette ancora di più l'orecchio alla porta con un'espressione sospesa. Aspettava una conferma ai propri sospetti, ma, tardando questa a venire, poté rispondere solo: «Niente».

Bernardo socchiuse gli occhi lascivo. «Come niente? Se hanno smesso di parlare è perché avranno la bocca impegnata a far altro!»

Guglielmo fece spallucce; si sarebbe accostato all'uscio, non fosse stato per l'età che aveva, per la reputazione, per la moglie e per i bambini. Giuliano poteva permetterselo perché la sua curiosità sapeva ancora un po' di malizia innocente: era questa a dominare il suo sguardo strabuzzato ad ogni minimo suono che provenisse dall'alcova nuziale.

*

Lorenzo rimase assorto a guardare il modo in cui la fragola percorreva la guancia soffice di lei, tanto che, a un certo punto, dovette chiudere gli occhi per distogliere la mente da fantasie inopportune. Ne aveva fatta una questione d'orgoglio: non avrebbe ceduto all'impulso di farla sua senza riguardo alla sua condizione di vergine. Lo incantava il fatto che fosse pura e inesperta: le donne che aveva conosciuto erano donne avvezze all'amore e agli uomini, ma Clarice era diversa, glielo si vedeva negli occhi velati di pudico timore. Non aveva bisogno di sbirciare sotto la sua sottana per avere una prova del suo onore intatto; il desiderio, però, gli faceva talvolta cadere lo sguardo tra le sue cosce e, se non fosse stato per le fragole, sicuramente avrebbe già tentato di allungarvi le mani.

Ora era il suo viso a tenerlo inchiodato. Aveva le labbra rosse e umide dopo l'ennesimo sorso di vino; Lorenzo voleva assaporarle e, più rimandava, più la voglia cresceva. Giunti com'erano alla quarta fragola, il suo corpo faticava ormai a resistere. Fortunatamente, la camicia ampia dissimulava abbastanza affinché Clarice non capisse.

Dopo una piccola esitazione, optò per spingere il gioco un po' più in là. Abbassò la mano e, assumendo un'espressione birichina, fece correre la fragola lungo il collo e il petto di lei fin dove la scollatura creava sul seno un piccolo anfratto; lì la lasciò cadere.

«Questa tra un poco», disse, poi, appoggiando le mani una al cassone, l'altra alla spalla sinistra di lei, le si accostò tanto da sentire il suo respiro corto sul viso. Le loro bocche si incontrarono, chiuse, perché l'allieva doveva ancora essere iniziata ai piaceri dei baci. Lei fremette, pur aspettandosi una simile mossa da parte del marito, e rimase immobile, pietrificata dalla vergogna. Lorenzo se ne avvide e decise di andare oltre, socchiudendo le labbra delicatamente; un lungo brivido lo pervase quando lei fece lo stesso, anche se con prudenza. Lui, che prudente non era, la abbracciò stretta a sé e diede inizio a un bacio appassionato, così che finì col travolgerla.

Clarice non osava certo sottrarglisi, consapevole del proprio dovere di moglie verso i ghiribizzi del marito. E forse non gli si sottraeva perché percepiva di nuovo dentro di sé quella torsione di viscere che la scaldava e illanguidiva a un sol tempo; una sensazione che non la infastidiva affatto, anzi le spezzava ogni resistenza, facendo sì che lui potesse prendere quel sopravvento che la situazione richiedeva senza che lei si sentisse in qualche modo violata. Quando la sete di baci fu provvisoriamente appagata, Lorenzo scese a sfiorarle il mento, quindi il collo, seguendo il percorso tracciato dalla fragola come un segugio che rincorre la preda. Scese e scese, e Clarice ansimava già per lo stupore, la meraviglia di così piacevole tocco. Scese ancora, frugando sotto il corpetto; avvertì la presenza della fragola, la morse e, tenendola tra i denti, tornò a porgerla alla sposa, ma lei, ridendo, la rifiutò una prima volta. Al secondo invito, per assecondarlo, la addentò, sicché finirono col dividersela in due metà uguali. Allora Lorenzo si alzò in piedi, scostò il cestino dal letto e, piegandosi su Clarice, la afferrò per le ginocchia, pronto a prenderla in braccio.

«Tienti alle mie spalle», le disse, poi la tirò su come fosse una bambina. Lei, con la voce soffocata da un cuoricino impazzito, emise appena un gridolino che si ritrovò sdraiata supina a gambe larghe con il marito chino su di sé. Come l'ebbe posata sui cuscini, Lorenzo le slacciò il corpetto, si protese e le sciolse il laccio della gonna. Clarice, le braccia ritratte, si ritrovò con la sola camicia lunga indosso, una camicia di raso bianco che aderiva al suo corpo rivelandone oltre ogni dubbio le forme. Lorenzo prese un profondo respiro e le sfiorò i fianchi e le cosce senza distogliere un momento lo sguardo dai suoi seni, che ora poteva valutare nella loro giovanile freschezza.

«Vuoi un altro goccio di vino?» domandò poi, traendosi in ginocchio per aver più agio nel togliere la propria, di camicia. Clarice negò con un lieve cenno del capo, mordendosi le labbra, inconsapevole di attizzare ancor di più le voglie di lui. Ecco tornare la sensazione di calore nella pancia, il rivolgimento della carne eccitata dai sensi; quasi le girava la testa. Lorenzo lasciò la camicia sulla pediera. «Clarice...» sussurrò, tornando a sovrastarla. «Clarice, non aver paura.»

Insinuò la mano sotto la stoffa leggera, risalì la gamba. «Messere?» balbettò lei, come il pigolio di un pulcino alla ricerca della chioccia.

«No, ti prego. Chiamami Lorenzo, almeno nel letto», la corresse, il respiro già spezzato in ansiti impercettibili. Quando raggiunse la sua intimità, ecco che la vide fremere e serrare gli occhi, voltare il viso da una parte.

«Shhht», sibilò Lorenzo. «Non sei curiosa?»

«Mi vergogno», rispose flebilmente. Egli non aspettò, dunque, e si denudò del tutto. «D'accordo», disse. «Ma permetti che io ti veda tutta nuda, ora, che non ce la faccio più!»

Tratteneva il respiro, Clarice, e stringeva i pugni sul lenzuolo bianco steso sotto di lei. Lorenzo, gli occhi ben aperti, sentì montare dentro di sé un improvviso e incontenibile desiderio; tese le mani verso i suoi seni, li stropicciò delicatamente quasi che fossero per lui una scoperta. Non gli sovvenne nemmeno di fare paragoni con Linora o Franceschina o qualunque altra donna avesse conosciuto prima.

*

«Li sento! Li sento!» trasalì Giuliano, poggiando ambedue le mani contro la porta insieme all'orecchio che non staccava da svariati minuti.

Bernardo e Guglielmo balzarono seduti ritti. «Fanno?» domandarono all'unisono.

«Dovreste sentire come gemono!» gongolò, saltando in piedi.

«De', vienti a sedere costì prima che Lorenzo ti colga a origliare», lo richiamò Bernardo, inutilmente.

*

L'attesa aveva decuplicato il desiderio e Lorenzo si dominava a stento; Clarice, il suo corpo non mai veduto da alcun uomo che non fosse lui, non mai amato, incontaminato nella sua freschezza come rosa appena sbocciata, ora gli apparteneva. Era sua, sua soltanto, e tale pensiero bastava a dargli vertigini di piacere; ad esse andavano ad aggiungersi le belle sensazioni che avvertiva in tutta la persona, e specialmente al bassoventre, e la vista di lei, esasperata da un godimento che passava necessariamente dal dolore. I suoi occhi, che talvolta socchiudeva, ma sempre guardando altrove, non osavano mai sbirciare in giù, mentre le sue mani, strette alle spalle di lui, stringevano e allentavano la presa seguendo l'andatura dell'amplesso.

Sedurla era stato più semplice di quanto Lorenzo si aspettasse e, benché i suoi baci fossero ancora timidi, non glieli rifiutava mai quando, carezzandole la guancia con le labbra, le dava la caccia. Un'altra cosa che non si sarebbe aspettato era la passione che lo stava pervadendo, la brama di possesso e di piacere; non si aspettava che una moglie, per quanto giovane e graziosa, potesse dargli simili sensazioni. Aveva perso la cognizione del tempo, udiva solo ansiti e mugolii e non intendeva distogliere l'attenzione da ciò che lo faceva stare così bene. Preso dalla foga del momento aveva dimenticato di accostare le tende del baldacchino, ma questo non lo infastidiva.

«Ah, Clarice, ti voglio!» ansimò, stringendosi a lei che, di rimando, esalò un lungo sospiro e terminò con un gemito acuto e un arcuare la schiena. Combattuta tra ciò che il corpo le diceva e i moniti che tutte le donne di famiglia le avevano fatto prima di partire, Clarice non sapeva che nome dare all'estrema sensibilità con cui rispondeva ad ogni movimento di Lorenzo. Soprattutto, non sapeva se considerarla buona o cattiva, segno di matrimonio compiuto o di peccaminoso cedimento ai desideri della carne. Una morsa le stringeva la gola, come fosse sul punto di piangere, e le parole che avrebbe voluto dire le morivano tra i denti, lasciando scivolare fuori solo i respiri affaticati.

D'un tratto Lorenzo mandò un ansito più forte e si pesò un poco su di lei, come se non avesse più la forza di reggersi sui gomiti. Clarice si spaventò e, quasi ciò non bastasse, se lo sentì cadere di lato come morto e temette che l'eccessivo sforzo gli avesse giocato un brutto tiro.

«Mess... Lorenzo! Lorenzo, che avete? Mio Dio!» esclamò, voltandosi immediatamente a guardarlo per assicurarsi che stesse bene. Lui, un sorriso beato in volto, si passò il braccio sulla fronte e le rispose sottovoce: «T'ho fatta donna, Clarice! Come t'è parso, suvvia?»

«Io... Non so come dovrebbe parermi, in verità», esitò. «Io... Non voglio apparirvi come donna lasciva, poiché non lo sono!»

Una lacrima fece capolino sul suo ciglio, ma Lorenzo gliela asciugò via prima che potesse turbarle il viso. Quindi, cingendola tra le braccia, se la portò vicina e lei, per forza di cose, lo vide nudo. All'inizio si portò una mano sugli occhi, poi scostò le dita, infine guardò bene. Lui, per sdrammatizzare, scherzò: «Noi si è fatti così!» e aggiunse: «Ed eccoti le due allegrezze che t'ho taciuto l'altro dì. L'una è starsene abbracciati nel letto, e l'ultima è amarsi fino a diventare una medesima carne. Non deve spiacerti essere lasciva con me, ché è così che nascono figlioli forti e sani. Chi s'unisce per forza e di malavoglia non gode più mai in tutta la vita sua».

Nel bel mezzo del discorso, quando Clarice cominciava ad ammorbidirsi, la porta, che non era stata chiusa a chiave con attenzione, si spalancò. Giuliano perse l'equilibrio e, con un'imprecazione, cadde pesantemente a terra. Lorenzo, lesto, si parò sulla moglie. «De', tu, bischero, o che tu fai?!»

Il ragazzo si alzò in un baleno, rosso paonazzo in volto. «Pietà, pietà! Non ho visto nulla, nulla, lo giuro su tutti i santi che stanno in paradiso!»

«Fila a dormire, che quanto c'era da fare s'è fatto e credo tu lo sappia bene!»

«Sì, sì, lo so...» mugugnò Giuliano, richiudendo la porta dietro di sé.

Lorenzo corse subito a riparare alla sbadataggine e si sentì sollevato solo allorché l'uscio fu ben serrato: non avrebbe tollerato altre intrusioni. La notte era ancora lunga e Clarice aveva ancora tante cose da imparare.

----

Le sette allegrezze d'amore è una canzone a ballo (pensata quindi per essere musicata) che Lorenzo comporrà negli ultimi anni della sua vita e quindi dopo la morte di Clarice. Riporto sotto il testo perché la trovo molto carina e mi piace l'idea di farla conoscere!

1

Deh! state a udire, giovane e donzelle,
queste sette allegrezze ch'io vo' dire,
divotamente, che son dolci e belle,
che Amore a chi lo serve fa sentire;
io dico a tutte quante, e prima a quelle
che son vaghe e gentili e in sul fiorire:
gustate ben queste allegrezze sante,
che Amor ve ne contenti tutte quante!

2

Prima allegrezza, che conceda Amore,
si è mirar duo pietosi occhi fiso
(escene un vago, bel, dolce splendore),
veder mover la bocca un dolce riso,
le man, la gola e i modi pien d'onore,
l'andar che uscito par di paradiso,
ogni atto e movimento che si faccia;
e cosí prima un cor gentil s'allaccia.

3

La seconda allegrezza, che Amor dona,
è quando hai grazia di toccar la mano
accortamente, ove si balla o suona,
o in altro modo strignerla pian piano;
e, mentre che si giuoca o si ragiona,
gittar certe parole e non invano;
toccare alquanto e strigner sopra i panni
in modo che chi è intorno se ne inganni.

4

Terza allegrezza, quale Amor concede,
è quando ella una tua lettera accetta,
e degna di rispondere e far fede
di propria man che 'l giogo al collo metta;
ben è duro colui che, quando vede
sí dolce pegno, lacrime non getta:
leggela cento volte e non si sazia
e con dolci sospiri Amor ringrazia.

5

Piú dolce assai quest'allegrezza quarta,
se ti conduce a dir qualche parole
a solo a solo, e far del tuo cor carta,
e dire a bocca bene ove ti duole;
se avvien che Amor le some ben comparta,
senti dir cose da fermare il sole:
dolci pianti e sospiri, e maladire
uscio o finestra, che ti può impedire.

6

Chi può gustar questa quinta allegrezza,
può dir che Amore il suo servizio piaccia,
se avvien che baci con gran tenerezza
un'amorosa, vaga e gentil faccia,
le labbra, e dentro ov'è tanta dolcezza,
la gola e 'l petto e le candide braccia,
e tutte l'altre membra dolci e vaghe,
lasciando spesso i segni delle piaghe.

7

Questa sesta allegrezza, ch'io dico ora,
è venir quasi alla conclusione,
e a quel fin, per che ognuno s'innamora
e si sopporta ogni aspra passione;
chi l'ha provato e chi lo pruova ancora
sa che dolcezza e che consolazione
è quella di poter sanza sospetto
tenere il suo signore in braccio stretto.

8

Vien drieto a questa l'ultima allegrezza,
che Amor infin pur contentar ci vuole:
non si può dir con quanta gentilezza,
con che dolci sospir, con che parole
si perviene a quest'ultima allegrezza,
come si piange dolcemente e duole;
fassi certi atti allor, chi non vuol fingere,
che un dipintor non li potria dipingere.

9

Queste so' l'allegrezze che Amor dá,
o donne, a chi lo serve fedelmente;
però gustile e pruovile chi ha
bellezza, gentilezza, etá florente,
ché perder tempo duole a chi piú sa.
Queste allegrezze, che detto ho al presente,
chi dice e pruova con divozione,
non può morir sanza l'estrema unzione.

10

Questo povero cieco, quale ha detto
queste allegrezze, a voi si raccomanda;
vorrebbe qualche caritá in effetto;
almen la grazia vostra vi domanda;
Amor l'ha cosí concio il poveretto,
come vedete, e cieco attorno il manda.
Fateli qualche ben, donne amorose,
che gustar possi delle vostre cose.

Il poveretto è giá condotto a tale,
che non ha con chi fare il carnasciale.

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