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27 febbraio 1470

La primavera era sempre più vicina e un inebriante buon umore si distendeva come un lieve profumo tra le sale del palazzo Medici. Come aveva detto l'ambasciatore Sagramoro, Lorenzo era bene in sella. Ma lo stesso Sagramoro guardava con sospetto a chi lo circondava, primo tra tutti lo zio Tommaso, il Soderini, quello che si era generosamente prodigato per il nipote presso i magnati e si arrogava il merito di averne assicurato una tranquilla successione al padre appena morto.

Sagramoro aveva i suoi buoni motivi per dubitare che il potere di Lorenzo fosse malriposto: non per mancanze nella persona del giovane Medici, ché aveva una profonda stima per lui, quanto per la sua giovane età, di per sé volubile e incline ad appoggiarsi ora qui ora là, pur di barcamenarsi.

Si stava recando al palazzo di Via Larga. Tante volte si era addentrato nel cortile, sotto l'ombra del David, aveva richiesto un colloquio privato con il capofamiglia, e quello aveva sempre fatto riferire di essere troppo impegnato con gli affari del banco per curarsi della politica. Sagramoro scuoteva la testa e se ne andava. Ma stavolta gli avrebbe parlato; gli avrebbe parlato perché Galeazzo Maria premeva per penetrare nella commissione di cinque membri che stava rappresentando Firenze nelle trattative della Lega. Napoli era strenuamente schierata dalla parte della guerra per risolvere le turbolente vicende di Rimini; Milano restava nella convinzione di siglare la pace. L'opinione della commissione fiorentina, perciò, avrebbe fatto la differenza e, mentre era risaputo che Soderini tendeva verso sud, Lorenzo de' Medici aveva strettissimi vincoli di alleanza con il nord. Sagramoro voleva forzare questi vincoli, portarli all'esasperazione, perché la giovinezza di Lorenzo non doveva giocare solo a vantaggio del suo avido zio.

Sagramoro entrò nel quadrilatero con questo preciso proposito. Aveva addosso una pellanda spessa che ondeggiava a ogni passo, e lui camminava spedito, come non volesse farsi sfuggire i discorsi che si rivolgevano nella sua testa. Si arrestò, e tutti i suoi discorsi di conseguenza, quando vide un po' in disparte il figurino della Romana. Lei ricambiava il suo sguardo: ormai lo conosceva, perciò gli sorrise timidamente, il capo leggermente chino come soleva tenerlo, perché così l'avevano educata nella città del papa. Le Fiorentine erano di tutt'altra pasta che la sua, e pure le Milanesi. Lei, comunque si ponesse, era fuori luogo, e al contempo era proprio ciò di cui i Medici avevano bisogno.

L'ambasciatore si sentì attratto da lei come una calamita: fosse la piega dolce dei suoi occhi, fosse il suo essere moglie dell'uomo che cercava, Sagramoro la raggiunse, accennò un inchino e le domandò: «Che sono quei lampi di gioia che vi percorrono il viso, madonna?»

Lei, arrossendo, si schermì: «Non so, messere... Sarà che oggi c'è un bel sole caldo, e mi fa bene, perché da sempre sono deboluccia di polmoni».

Sagramoro le sorrise di rimando. «Dunque andavate in giardino quando vi ho disturbata.»

«Disturbata? Non lo dite, messere. È piacevole scambiare due parole con voi; ma credo che siate qui con il solito scopo vostro.»

«M'avete scoperto. Può ricevere un umile servitore?»

«Sono desolata, ma mio marito non ne fa motto con me. Non discute di politica in mia presenza...» quindi, alzando casualmente gli occhi, riprese: «Ma la madre sua l'ascolta sempre. Chiedete a lei, che è voce più autorevole di me...»

Lucrezia era apparsa sulla scena in quel momento e, per non lasciarsela scappare, Sagramoro salutò in fretta e si volse subito, con movimenti assai poco confacenti al suo ruolo e alla sua età. Clarice aveva ancora quella luce negli occhi mentre lo guardava andare via, allontanarsi da lei, giacché non gli sarebbe stata utile. Non si avviò al giardino; a dire la verità, vi era stata fino a poco prima, e ora, con la gioia che sprizzava da ogni parte, si apprestava a salire di sopra. Avrebbe aspettato che Lorenzo avesse tempo per stare con lei.

Eccola che entrava in camera da letto; la trovò deserta, come aveva previsto. Suo marito doveva trovarsi nello scrittoio e presto sua madre gli avrebbe comunicato il messaggio dell'ambasciatore. La sua attesa sarebbe stata lunga, ma aveva spirito paziente. Si mise a recitare qualche preghiera, poi perfezionò un lavoro di ricamo che aveva cominciato quella mattina stessa. Si immerse tanto a fondo in quel banale passatempo che quasi non si accorse che lui, invece che scendere al pianterreno, aveva mandato Lucrezia a ribadire la sua indisponibilità all'ambasciatore.

«Ah, Clarice! Sei qui?» trasalì, chiudendo la porta alle proprie spalle.

«Mmh-mmh», mugolò piano, dando a intendere di essere ancora profondamente concentrata, mentre in realtà il suo cuore sembrava impazzito. Lorenzo non credeva di trovarla lì e, a dirla tutta, voleva soltanto coricarsi qualche minuto, riposare gli occhi e il cervello. E questo fece, né più né meno. Esalò un lungo respiro rilassando le membra intorpidite dal troppo star seduto, abbassò le palpebre e svuotò la testa. Poi percepì un sussulto nel materasso, perciò, volgendo il viso in quella direzione, sussurrò ad occhi chiusi: «Hai freddo?»

«No, no affatto...» rispose Clarice. Gli prese delicatamente la mano, gliela accarezzò pian piano. Lui la lasciò fare senza approfondire il motivo di quelle premure che, in fin dei conti, non erano nuove, ma solo inusuali per quel momento della giornata. Poi avvenne una cosa strana: Clarice si portò la mano vicina, la baciò e se la mise in grembo, tenendola lì.

Lorenzo non comprese immediatamente il significato del suo gesto, limitandosi a muovere un poco il pollice sul tessuto damascato dell'abito. Poi, come un fulmine, aprì gli occhi e saltò su, mettendosi sul fianco. Gli sembrava di avere come un grande peso sul petto; mosse veloce anche l'altra mano, la sinistra, e la posò accanto alla destra, sul suo ventre di giovinetta, quindi risalì il suo corpo con lo sguardo e incontrò i suoi occhi. Vi lesse una tale serenità che non avrebbe saputo descrivere in nessun modo, ne fu contagiato, e d'improvviso il peso che lo aveva oppresso sparì, cedendo il posto a un calore mai provato.

«Clarice, che mi dici tu?» sussurrò. Lei sorrise più distesa, fece spallucce e guardò in alto. «Ho sospetto...»

Lorenzo era semplicemente spiazzato; esterrefatto; inebetito. E dire che proprio a quello scopo s'erano sposati, s'erano impegnati e profusi per tante e tante volte; pure, nonostante tutto, Lorenzo rimaneva un ventenne, e a Firenze non si diventava padri a vent'anni, né reggitori di stato. Perciò il ragazzo ripiombò sul materasso, stavolta prono, e strisciò fino a poter posare l'orecchio sul grembo di lei, che lo riprese dolcemente: «È ancora presto, il bambino è troppo piccolo per sentirsi».

«Ma tu come fai a saperlo?» bisbigliò, come avesse paura che parlando ad alta voce avrebbe disturbato. Clarice si mise più comoda, scostò la treccia da un lato e sospirò profondamente, avvertendo il peso della testa di lui sul ventre. Non fece a tempo a rispondere che Bernardo, uno dei due segretari, bussò ed entrò in camera tutt'in una volta. Sobbalzò, il malaccorto cancelliere, vedendoli distesi a letto insieme, ed era già lanciato alla ritirata con la faccia rossa e le labbra strabordanti di scuse, quando Lorenzo si sollevò su un gomito e volgendo appena la testa gli disse distratto: «Vengo, vengo, fate solo che sbrighi una faccenda mia».

Sicché Clarice, tornando al proposito di rispondergli, bisbigliò a propria volta per evitare che la curiosità di altri carpisse notizie da mantenersi ancora un po' segrete: «Una persona mi ha aiutata a scoprirlo, e m'ha detto che ne ha quasi la certezza; e tante cose lo confermerebbero, ma siccome è ancora di pochi mesi m'ha consigliato di star zitta e di dirlo solo a voi».

«E chi è questa persona? S'ha bisogno d'una ricompensa per un servigio così ben portato...» replicò entusiasta. «E dimmi, di pochi mesi dunque, ma quanti potrebbero essere?»

«Potremmo averlo concepito in novembre, prima dell'Avvento...»

«Perciò Linora ci ha portato fortuna, altroché maledizione! Ah, la mi mamma avrà da chiedere scusa per aver dubitato di noi!»

E dicendo così, si tirò sulle ginocchia e si stiracchiò prima di coricarsi di nuovo, ma questa volta accanto a lei, in modo da poterle cingere le spalle con un braccio e accarezzarla con la mano libera. «Però», riprese, molto serio, «non dire nulla finché non ne sei sicura... Perché se non fosse vero, ovvero se qualcosa non andasse bene, non se ne farebbe strepito. E poi tra poco sarà la Quaresima... Io non me la voglio anticipare, lo comprenderai!»

«Oh, sempre a quello state a pensare!» brontolò, facendo per sottrarsi alle sue premure. «Ha ragione Cammilla a dir che gli uomini han solo due cose in testa: ammazzare e procreare!»

«Sempre meglio insistere a procreare!» ribatté Lorenzo, impedendole di mettersi seduta sormontandola. Lei si indispettì, puntò le mani sul suo petto e lo spinse, o almeno fece finta di volerlo fare. Il gioco in realtà le piaceva e voleva che continuasse, perché la faceva sentire desiderata e amata; ma quella sensazione si trascinò dietro pensieri gelosi, sicché d'istinto gli cinse il torso con le braccia e lo assicurò a sé, lasciando che le baciasse la spalla ignaro della piega che il discorso avrebbe preso.

«È il momento di sistemare la faccenda di Linora...» bisbigliò, mentre lui insinuava le mani sotto la pellanda per tastarle il petto con più agio. «Non è bene che lei resti dov'è.»

Lorenzo, a quella precisazione, mugolò scontento e strofinò il naso contro la sua pelle delicata. «Aspetta ancora un po', Clarì, non essere precipitosa, perché la gente potrebbe mormorare...»

«Mormorerà se lo faremo quando si vedrà bene che sono gravida! E io ho piacere a sapere quella donna sistemata.»

Lui si issò sulle braccia e la fissò per qualche secondo prima di tornare a ravanare con il viso nell'incavo del suo collo. «Non c'è fretta... Solo mi dà noia dover tornare di là... Su, Clariciozza, un bacino me lo dai? Un bacino in attesa di stasera, che ti coccolo un po'.»

«Oh, Lorenzo, è questione sì da poco, se solo voleste mettere in pratica ciò che avete deciso... Vi manca forse il coraggio?» e gli stampò un bacio sonoro sulla guancia, per accontentarlo in ciò che chiedeva. Ciononostante, Lorenzo continuò a sfiorarle la pelle con le labbra, come volesse assaggiare il sapore nuovo della sua maternità appena agli inizi. E sembrava garbargli proprio, sicché indugiava a separarsi da lei. Clarice rimostrava solo a parole, mentre nei fatti era remissiva, se non complice. Tuttavia, insisteva: «Via, una lettera in più che cosa vi costa?»

Si sollevò, ricadendo accanto a lei con un violento sospiro. Si passò una mano sul viso, per scacciare il torpore dei sensi, e ad occhi chiusi si mise seduto. «Clarice... Perché mi sforzi? Lo farò, scriverò a Trebbio per isveltire le cose. Solo, non oggi.»

«E allora io lo dico a madonna Lucrezia», concluse lei dispettosa, stiracchiandosi. Lorenzo le gettò un'occhiata. «Dunque, tu vuoi guerra!»

«Voi la volete!»

Un momento di silenzio, uno scambio di sguardi in egual misura testardi, una mano che corre eloquente sul grembo; e Lorenzo capitolò: «E sia! Codeste donne son tali da far uscire di senno un onest'uomo che vuole soltanto un poco di pace in casa».

*

5 marzo

«T'ho trovato marito.»

Era mattino e, avvicinandosi la primavera, gli uccellini prendevano più audacia nei loro canti. Il bel tempo, inoltre, ingannava gli occhi con un cielo sereno, le temperature miti offrivano un anticipo del clima più caldo dei mesi seguenti. Dalle finestre aperte spirava però un'aria leggera, frizzantina, e Linora preferì attribuire ad essa il tremito che la scosse all'udire le parole che Lorenzo, con freddezza scontrosa, le rivolgeva. Invece erano proprio quelle parole a suscitarglielo.

«Marito?» ribatté infatti, a sincerarsi d'aver capito bene, di non aver preso un abbaglio imbarazzante. Il giovane annuì piano con lo sguardo basso. «Sì,» confermò, «un marito che possa assicurarti una vita degna di tale nome: onesta, gradevole e serena.»

«Ma io non v'ho chiesto mai nulla di tutto questo», protestò, chiudendo i pugni stretti.

«La sua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fïate liberamente al dimandar precorre», affermò da parte propria Lorenzo, citando Dante, mentre i suoi occhi muovevano dal basso all'alto, al viso di Clarice che gli stava accanto in piedi, quando lui sedeva allo scrittoio. Ella aveva un accenno di sorriso, non troppo manifesto, ma nemmeno impercettibile, così che Linora comprese che era proposito della moglie, piuttosto che del marito, che lei si accasasse. Questo la ferì, perché non era abituata a essere debitrice verso altre donne e le riusciva molto meglio avere a che fare con gli uomini. Perciò, senza pensarci, replicò: «Non merito di essere trattata a questa maniera. Non era questa la ricompensa che mi aspettavo per tutto ciò che ho fatto!»

Lorenzo arrossì velatamente sulle guance. «Non è una ricompensa, è un soccorso che vogliamo darti per alleviare la tua triste condizione.»

Linora abbassò la testa, la scosse una o due volte, affranta, tradita. Alla fine si decise a parlare: «Invece io mi merito una ricompensa. Non per quello che ho fatto a voi, ma a vostra moglie, a lei!»

Impudente, puntò addirittura il dito contro colei che ora considerava di nuovo la fonte dei propri guai, e Clarice se ne risentì tanto che il suo sorrisino incoraggiante sfumò via, gli occhi le si riempirono di sdegno. Avrebbe voluto risponderle per le rime, ma Lorenzo, sgomento, si alzò, puntò le mani sul tavolo che lo divideva dalla prostituta, guardò alternativamente la sposa e l'amante, quindi sbottò: «O che avete fatto voi due senza di me?!» quindi, volgendosi a Clarice, riprese: «Ah, ecco che cosa ti faceva sì disinvolta ultimamente!»

«Ma che dite, Lorenzo, che dite!» avvampò lei, coprendosi il volto con le mani. Linora, intuendo le ragioni dell'equivoco, intervenne subito: «Non ve l'ha detto? Non v'ha detto che ella è gravida e che gliel'ho palesato io? Eppure», continuò, «ella mi pare già grossina e dubito che voi non lo sappiate».

«Non è grossina, non è affatto grossina! Sarà grossina solo con la Quaresima, perciò se ne riparlerà mercoledì venturo, mercoledì delle ceneri. Per quanto riguarda l'altra questione, non ne so niente! Come sarebbe a dire che gliel'hai palesato tu?»

Stavolta, Clarice non avrebbe avuto uguale spinta a rispondere, ma dovette farlo sotto la pressione degli sguardi che le venivano rivolti. «Perdonatemi, è vero, me l'ha palesato... E non ve l'ho voluto dire... Però non per malizia, lo giuro.»

«E dunque?»

«M'è parso buona cosa provvedere al futuro vostro, ché voi m'avete dato una grande gioia e io vi contraccambio.»

«Madonna ha ragione, Linora: un matrimonio ti toglierà finalmente dai bordelli, non dovrai più vivere della protezione volubile dei tuoi clienti e non sarai più costretta a mutare città a ogni cambiamento del vento. L'uomo che ho scelto per te è un nostro fattore in Mugello, vedovo ma ancora in età da nozze, senza figli e bisognoso d'una moglie energica come te. Non mi pare occasione da disprezzare», aggiunse Lorenzo, usando di tutta la persuasione possibile. Linora, tuttavia, restava annoiata dalla proposta, come se le cose dovessero venirle a danno. Non potendo resistere, rispose: «Io non voglio lasciare Firenze. Non voglio lasciare voi, Magnifico Lorenzo! Credevo che aiutandovi avrei avuto la vostra sicura protezione e magari del denaro con cui condurre la mia vita. Credevo che avrei ottenuto una camera in qualche vostra locanda, ché ne avete in città, e lavorato per voi... Ora m'accorgo di essermi ingannata, perché voi volete allontanarmi ad ogni costo!», singhiozzò rabbiosa, i pugni nuovamente chiusi e i denti digrignati: non aveva fatto che pregare che, con la moglie incinta e la successione assicurata, lui tornasse ad accompagnarsi con lei, donna di volgo, almeno per i mesi della gravidanza. Molti l'avevano fatto in passato, senza grandi scandali, e così avrebbe potuto fare pur lui. Lorenzo era serio in viso, e raramente l'aveva visto così. Incuteva quasi reverenza, non fosse stato per i tanti tratti di giovinezza ancora evidenti in tutta la sua persona. Linora quindi tacque, parendole vana ogni insistenza, e si congedò con uno scatto orgoglioso della testa, pronta a tornarsene da dove due servitori medicei, poco tempo prima, l'avevano prelevata.

«Lui si chiama Giovanni e vive a Trebbio; ed è entusiasta di ammogliarsi con la mia mediazione. Credi che non ti tratterà male, se è questo che temi, ché se sospettassi di lui come d'uomo violento io non ti mariterei a lui. Ti son troppo affezionato, e ti conosco: Giovanni non sarà un novello Antonio.»

Al ricordo delle percosse del primo marito, dell'uomo che le aveva schiuso la realtà cruda della vita sforzandola ad amarlo se non voleva, a servirlo e riverirlo come un padrone cattivo, Linora si dovette appoggiare allo stipite della porta senza nemmeno riuscire a scostare l'uscio e fuggire. Chi l'avrebbe garantita della bontà di lui? D'altronde pure Antonio aveva un bel volto attraente e maniere gentili...

«E soprattutto è qui a palazzo oggi», aggiunse, come sbadatamente, Lorenzo. Quando lei si volse a guardarlo, lui le ammiccò: «Se vuoi te lo faccio vedere, ti ci faccio parlare un poco a tu per tu».

«Non è questo: che gli porterò io in dote? I miei acciacchi, il mio essere ormai sfiorita?»

Era l'attacco della cerbiatta braccata e Lorenzo, cacciatore esperto, riconobbe quel guizzo disperato nelle sue pupille fattesi grandi. Aggirò la tavola con un balzo, la raggiunse, le impedì la fuga: gli mancavano i bracchi, ma aveva molte frecce nella faretra e conosceva i punti deboli della preda. «Orsù, che lo sai bene: porterai la mia amicizia, che è più di quanto molti potrebbero dare, no?»

«E io vi donerò una somma di denaro e la stoffa per l'abito», venne Clarice. Linora la squadrò senza pietà. «Lo fate per liberarvi di me? Se così fosse, allora vi capisco. Ma se è altro che vi preme, non riesco a comprendere. Che volete?»

«Io...» sbigottì lei. Linora proseguì implacabile: «Ditemi che siete gelosa, che lo volete tutto per voi e che vi molesta la presenza di altre donne nella sua vita. Sappiate che non sono l'unica, e che per cacciare le altre dovrete fare ben altro che stipulare un fidanzamento così bizzarro!»

«Basta così, Linora», irruppe Lorenzo, con tono tutto diverso, quasi allarmato. «Tu lo vedrai senza strepito e senza pubblicità; lui è venuto, te lo dico, per vedere te. Tu sii sincera e dimmi se ti piace, se ti pare uomo dabbene, e se lo vorrai sposare. Tu, Clarice, resta qui e riposa, che ora devi riguardarti.»

La stanza vuota le parve rimbombare di tuoni; guardava la porta serrata e non pensava a nulla, con le labbra leggermente schiuse, umide e fredde e le mani strette una nell'altra. Si accorse tardi di avere i denti stretti perché una piccola fitta le attraversò le tempie. A quel punto, come riavendosi all'improvviso, si domandò se veramente era stata la gelosia a guidarla o se, come s'era convinta, era stata la carità cristiana. Temeva di scoprirsi ipocrita.

Per evitare di star sola fece venire le sue donne che, ignare del suo dolce stato, conversarono per tutto il tempo di cose senza importanza; e Clarice attese la notte con angoscia segreta. Quando Lorenzo la raggiunse le portò la notizia del prossimo matrimonio di Linora, che, infine, aveva ceduto alla promessa di una quotidianità in campagna. Lei gli si strinse accanto, gli domandò qualche carezza e si addormentò sul suo petto, cullata dai suoi respiri placidamente distesi. Le parve, tra il sonno e la veglia, di percepire un lieve movimento in grembo; sorrise.



***

Chiedo scusa, è veramente un sacco di tempo dall'ultimo aggiornamento. 

Credetemi, non è per noncuranza, anzi il contrario: non voglio proporre ai miei lettori dei capitoli fatti in fretta e furia, senza un lavoro attento e scrupoloso alle spalle.

Senza volerlo, oggi è l'anniversario della Congiura in cui Giuliano ha perso la vita e, in un certo senso, anche Lorenzo è morto. Lorenzo non fu più lo stesso dopo la congiura, ma non affrettiamo le cose: quando sarà il momento ci vestiremo a lutto. Oggi, un pensiero a quel terribile giorno.

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