XXI

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Nel corso di quel mese, Clarice cercò di non preoccuparsi di nulla. Com'era previsto, con l'inizio della Quaresima la grossezza divenne evidente e, a quel punto, inutile nasconderla. Lucrezia sua suocera dispose immediatamente  ogni cosa in favore della buona riuscita della gravidanza, e lo fece con lo slancio che contraddistingueva ogni sua azione di cuore e di mente: aveva particolarmente caro che tutto filasse liscio, nonostante i fianchi generosi della nuora lasciassero presagire le migliori qualità di fattrice. A questo proposito si parlava già di trasferirsi in una delle ville di campagna, con tutte le premure del caso, per favorire dell'aria buona e pulita di laggiù; Lorenzo, però, preferiva tenere la moglie vicino a sé, come a vegliare che niente la turbasse: era dopotutto il primo figlio per entrambi e, quando la pancia cominciò a crescere tondeggiante sotto i vestiti via via più leggeri, anche lui prese finalmente coscienza di ciò che le donne avevano compreso d'istinto.

La notizia corse attorno tanto forte che la misteriosa e improvvisa partenza di Linora non suscitò chiacchiere degne di nota, giacché tutti parlavano solo e soltanto della gravidanza della Romana. E tuttavia, Lorenzo aveva pure altri pensieri e molto meno piacevoli di quello, perciò tentava di dividersi come poteva tra gli impegni della banca, quelli della politica e quelli della famiglia.

Aveva preso la buona abitudine di svegliarsi presto; era qualcosa che, bene o male, aveva sempre fatto, ma più per imposizione di altri che per personale determinazione: si era reso subito conto, dopo la morte del padre, che per badare a tante faccende diverse si necessitava tanto di tempo quanto di buona volontà. Svegliarsi presto, ora, gli consentiva di indugiare qualche minuto con la mano sul grembo di Clarice addormentata; raramente, nel farlo, la destava, e in ogni caso la lasciava a riposare.

La mattina del 6 d'aprile non si prospettava diversa dalle precedenti. Certo Lorenzo non poteva immaginarlo, ma mentre la sua mano percorreva la superficie setosa della camicia di sua moglie, non lontano, a Prato, qualcuno tramava, e tramava per il suo male.

Nessuno se l'aspettava, specie a Prato, che distava un'ora a cavallo da Firenze ed era sua succube. La quiete che regnava in quei mesi aveva rilassato gli animi ed era permesso, a chi ne facesse richiesta con validi argomenti, d'avere a propria disposizione le chiavi delle porte della città; così era consuetudine in tempi di pace e il podestà aveva creduto di non aver motivo di negare il permesso a chi, il giorno prima, aveva domandato di poter aprire la porta affacciata nella direzione di Pistoia. Questione d'affari, aveva detto il Pratese; il podestà aveva allungato a un proprio servitore il mazzo che solitamente portava alla cintura, e aveva raccomandato di riportarglielo subito.

Fu così che la pace divenne la miccia perfetta per lo scoppio di una nuova guerra; se fosse stato altrimenti, Bernardo Nardi e i suoi fuoriusciti non avrebbero potuto nemmeno sperare di condurre a buon fine i loro particolari affari, ossia la rivolta del popolo contro il dominio tirannico di Firenze. Bernardo stesso, e così molti dei suoi, era fiorentino; aveva pagato per la collusione con i congiurati di Piero de' Medici ed era stato esiliato, motivo per cui aveva ben da covare dell'odio verso i Medici e i loro fedelissimi. Non cercava una vendetta personale contro Lorenzo, benché si dicesse che proprio la sua prontezza avesse salvato la vita al padre: lui ce l'aveva con il governo di Firenze, succube degli interessi di pochi, di pochi con cui lui, purtroppo, non si trovava d'accordo.

Per questo avrebbero sobillato Prato, credendo di avere ogni fattore a proprio vantaggio. La città mal sopportava lo strapotere della vicina, detestava che le tasse dei propri cittadini andassero a riempire le tasche di chi era già ricco, e covava profonda invidia. Non solo Prato, ma Pistoia e tutta la campagna intorno sarebbero insorte contro l'oppressione; e, scalzando la tirannia dei Fiorentini, avrebbero anche contribuito a riempire le tasche dell'esule Bernardo che, per quanto potesse capire nella propria testa giovane e animosa qualche sentimento nobile, non era certo indifferente alle ristrettezze cui era costretto dal bando. Perciò egli, affacciandosi alla soglia delle porte con i compagni, era gonfio di superbia; ma i superbi hanno vita breve, se non sanno dosare i propri mezzi alla luce della realtà.

Le strade, di mattino presto, erano deserte; nessuno, dopotutto, si aspettava il colpo. Bernardo già pregustava lo sconcerto dei maggiorenti di Firenze, quando avrebbero ricevuto notizia che Prato era insorta, e con questo bel pensiero si portò sotto il Palazzo del podestà, dove gli fu cosa davvero facile l'entrare. Aveva gran reputazione, dopotutto, in quelle terre. E di nuovo la sua superbia montò, montò in alto. Anche Bologna e Ferrara, vedendo la difficoltà di Firenze, sarebbero piovute come avvoltoi sulla carcassa moribonda, avrebbero straziato i tiranni e liberato la Toscana; liberato lui, per lo meno, dai debiti che aveva contratto in passato per permettersi di vivere alla maniera dignitosa che sentiva si addicesse a un uomo della sua dignità. Dietisalvi Neroni, la mente che aveva guidato i congiurati contro Piero, lui gliel'aveva garantito. E quand'anche Milano avesse voluto intervenire, la sorpresa l'avrebbe rallentata e poi sarebbe stato troppo tardi.

«Ora è tempo di dividersi, come s'è convenuto», disse quindi, volgendosi a un certo Salvestro, suo alleato pratese. Questi, facendo cenno a una metà degli uomini, si diresse verso la cittadella, per impedire qualsiasi risposta delle guardie. Bernardo, rimasto un poco a guardarlo andar via, si volse poi alla porta del Palazzo del podestà e, spingendo avanti quel servo che era stato incaricato delle chiavi, fece sì che gli fosse aperto il portone. Irruppero dentro con violenza, come una folata di vento tempestoso in una angusta stanza, e pervasero ogni angolo della loro rabbia. Gli abitanti, pochi e ancora intorpiditi dal sonno, rimasero come sbalorditi e non fecero alcuna resistenza. Il podestà, Cesare Petrucci fiorentino, raccolse attorno a sé la moglie e i figlioletti e si lasciò rinchiudere senza rimostranze di sorta.

Bernardo presentiva la vittoria e: «Muovetemi, su! Chiamate alle armi il popolo!» urlò ai suoi che, entusiasti della facilità dell'impresa perché, in fondo, erano uomini di scarso valore, percorsero le strade di corsa urlando: «Libertà a Prato! Prato libera dai Fiorentini! Alle armi, alle armi!»

La risposta dei Pratesi fu la medesima del Palazzo podestarile: lo stupore, l'istupidimento di chi non comprende beatamente nulla di quel che si trova a contemplare. La gente scese sì in piazza, ma a mani vuote, occhi grandi e facce dall'espressione sciocca.

«Che è? Che accade più? Che è questo tumulto?» bisbigliavano l'un con l'altro i cittadini, senza capacitarsi. E a chi gli diceva che si faceva la rivolta contro Firenze, quelli sbuffavano e se ne andavano. C'era poi un organo di governo locale, denominato Consiglio degli Otto dal numero dei componenti. Questi uomini di stato furono a loro volta svegliati e attirati in strada dal fracasso che facevano i rivoltosi, sicché si radunarono da un canto e cominciarono a valutare cosa fosse meglio fare in quello spiacevole frangente.

Come Bernardo seppe che si erano riuniti, lasciò il Palazzo del podestà e li raggiunse. Non si perse d'animo di fronte al loro sincero fastidio, e prese la parola dicendo: «Miei signori, a un vostro cenno son pronto a consegnarvi una città libera, ché questo è il mio fine: liberare Prato da chi l'opprime ingiustamente! E con Prato, libererò Firenze! E voi ricoprirò di gloria per aver spodestato i magistrati forestieri dagli scranni che vi spettano. Bologna, Ferrara, Pistoia non aspettano che il vostro segnale, e insorgeranno, v'appoggeranno, vi porteranno in trionfo. Prato sarà la patria degli uomini liberi, quando si sarà scossa di dosso le catene fiorentine! Ma che dico? L'Italia vi sarà grata per tanta magnanimità!»

La piega sui volti degli Otto non si incrinò. Poiché il silenzio imbarazzato sembrava una risposta insufficiente all'ardore del novello Bruto, uno per uno i signori lo incalzarono di osservazioni ben più fredde e ponderate.

«A noi non cale che Firenze si viva libera o serva, non spetta a noi intendere di queste faccende», disse burbero il primo. Un secondo gli fece eco: «I magistrati fiorentini non si atteggiano punto male con noialtri di Prato, ma forse voi non lo sapete ché non siete di qua».

«Difatti, la nostra libertà è obbedire ai magistrati onesti, che non ci ingiuriano come tiranni; questo mi sembra vogliate farlo voi, e si è perché siete un giovanotto pieno di animo!»

«Fate come vi diciamo, messer Bernardo: richiamate i vostri e prendete la via delle campagne ora che siete in tempo, ora che non s'è fatto ancora nulla che non si possa riparare con la fuga. Non manderemo a cercarvi, se sarete ragionevoli. Questo tumulto farà più danno a voi di quanto ne farà a Firenze!»

Bernardo, sicuro di sé, considerò quella degli Otto pura e semplice pusillanimità: uomini nati servi non si sarebbero cambiati mai in uomini liberi così, a parole. Servivano fatti: fatti di sangue. Dunque ritornò al Palazzo del podestà, dove si conservava un'ottima vittima sacrificale. Appena ebbe messo piede all'interno, chiamò uno dei propri uomini e ordinò: «Manda a radunare tutto il popolo nella piazza, di' che parleremo loro. Tu,» aggiunse rivolto a un altro, «tu trai Petrucci dalla camera e appronta un cappio alla finestra centrale che dà sulla piazza medesima. Bisogna scuoterli, questi animi pavidi!»

Siccome non c'era, tra i suoi, qualcuno che avesse più cervello e autorità di lui, tutti obbedirono scattanti. In meno di dieci minuti Cesare Petrucci, uomo assennato ma non debole, dato che aveva un passato da militare, si ritrovò con il capestro al collo, a un passo dall'essere precipitato fuori dalla finestra sotto cui la gente, ignara, attendeva di udire un discorso chiarificatore.

Bernardo, che era stato impegnato altrove fino ad allora, entrò in quel momento nella stanza per assistere all'impiccagione. Petrucci, cogliendo l'ultima occasione che il fato gli concedeva, si rivolse direttamente al proprio boia. «Bernardo, tu mi fai morire e credi che i Pratesi poi ti seguiranno. Ti riuscirà bene il contrario, ché la reverenza di questo popolo ai magistrati è tanta che, come mi vedrà ingiuriato con una morte ingiusta, t'odierà tanto che sarà la tua rovina. Non la morte, ma la vita mia potrà esser cagione della tua vittoria: se io comanderò loro quel che tu mi dirai, più facilmente ti obbediranno. Io ti obbedirò e tu avrai ciò che intendi avere.»

Colto in un momento di titubanza – uccidere è sempre molto angosciante, la prima volta – Bernardo valutò il consiglio gratuito appena ricevuto. «Ha ragione», sbottò, come se non ne avesse mai dubitato. «Toglietegli quel cappio e fatelo affacciare. Messer Cesare, voi direte al popolo di insorgere. D'ora in poi faranno ciò che io ordino!»

Petrucci deglutì, pallido come un cencio, ma un po' più persuaso di sopravvivere quel tanto sufficiente a salvare la città, ed eseguì il comando: si affacciò e parlò, ripetendo senza variazioni il motivetto di Bernardo che, dalle sue spalle, annuiva e approvava platealmente. Terminata l'orazione, fu preso da due scagnozzi e sbattuto di nuovo in camera; la gioia di sua moglie e dei suoi figli al rivederlo fu prorompente, ma al di là dell'uscio sbarrato arrivarono solo singhiozzi smorzati, troppo flebili per suscitare pietà in cuori pieni di sdegno.

*

Era passata, nel frattempo, un'ora abbondante dall'inizio del tumulto e, in mancanza di uno stretto controllo delle porte, i Fiorentini presenti a Prato avevano tagliato la corda appena annusato il pericolo. I più fortunati erano montati a cavallo e, lanciati al galoppo, avevano imprecato per tutta la strada sperando così di affrettare la fuga. Quando si videro arrivare incontro questi disperati, a Firenze tutti rabbrividirono. La voce terribile corse per la città: Prato perduta in mano agli insorti, il podestà ucciso, così i figlioli, e Pistoia sul piede di guerra, e ancora l'incombere di grandi nemici all'orizzonte.

L'aria vibrava al grido convulso: «Al Palazzo dei Priori!». La gente prese ad affollarsi nelle strade, a strattonarsi l'un con l'altro, a creare confusione sulla confusione. C'era come il sapore della guerra tutt'intorno; ma nulla di certo, e pure a Palazzo Medici volavano sguardi disorientati. Arrivavano messi, membri della brigata, sostenitori, e tutti dicevano la loro senza concordare con gli altri. Lorenzo, strappato dal suo scrittoio, avvertiva la tensione pervadere ogni fibra del suo corpo: ora dipendeva da lui. Sì, c'erano i Priori, il Gonfaloniere, sì, ma lui era il capofamiglia dei Medici. Si torceva le mani per impedire che gli tremassero; era, a tutti gli effetti, un ragazzo, e l'esperienza maturata negli anni non l'aveva preparato a tanta responsabilità. Ciononostante, i suoi occhi bruciavano di ardore, il suo cuore batteva forte, e quando disse: «Si va anche noi al Palazzo!», sua madre ebbe il suo daffare a trattenerlo il tempo di fargli indossare un lucco rosso scarlatto che era stato di suo padre. Il lucco, veste lunga fino alle caviglie, castigata e autorevole, mal si accordava con i tratti giovani del suo viso e pareva quasi impacciare nei movimenti il corpo agile e prestante del ventenne.

I migliori esponenti delle famiglie fiorentine si erano già radunati all'interno; lungo la strada Lorenzo riconobbe tanti visi, ma li trovò stravolti dal terrore che un attacco militare fosse imminente e la Signoria così impreparata. Amici e avversari politici sarebbero stati tutt'uno, stavolta. E benché lui non bazzicasse i luoghi del potere ufficiale per difetto d'età, la circostanza era così straordinaria che tutto passò in secondo piano.

La discussione tra i membri delle diverse magistrature era cominciata in modo piuttosto disordinato perché tutti volevano far sentire la propria voce e aver ragione del modo in cui si dovesse rispondere alla rivolta. Il baccano non giovava certo alla ricerca di una soluzione; d'altro canto, a Lorenzo sarebbe stato impossibile anche solo accennare una proposta, perciò tacque e restò da parte, accontentandosi di ascoltare. Suo zio Tommaso aveva ben altro peso nella faccenda: sarebbe stato lui il suo punto di riferimento.

Alla fine, quasi che fosse la Provvidenza a intrecciare gli interventi infuocati uno dietro l'altro, ecco che si profilò un'ipotesi che presto si tramutò in deliberazione unanime: Roberto Sanseverino d'Aragona, condottiero stipendiato dalla Repubblica, sarebbe partito con tutti gli uomini disponibili per accertarsi dello stato delle cose in Prato e intervenire con le misure che ritenesse prudenti in quel momento. Roberto, convocato e ragguagliato della missione affidatagli, prese e partì poco tempo dopo. Da allora fu un'attesa febbrile dentro e fuori dal Palazzo dei Priori, un'attesa aggravata dal timore che notizie certe sarebbero arrivate solo al tramonto.

Inaspettatamente, Roberto tornò prima del previsto e con buone, se non ottime notizie: Prato era salva e fedele, Nardi agli arresti e gran parte dei suoi uomini morti o in fuga chissà dove. Tutto ciò senza colpo ferire. Il popolo pratese aveva fatto la propria scelta subito dopo il discorso di Petrucci e si era scagliata contro i sobillatori, ristabilendo da sé la giustizia. Entro il tramonto di quel medesimo giorno, Bernardo e dodici dei suoi compagni furono tradotti nelle Stinche fiorentine.

Quella sera non ci fu verso di distrarre Lorenzo dai crucci della giornata: il pancione di Clarice non gli suscitava belle sensazioni, bensì cupi presagi per l'avvenire, e le ristrettezze della Quaresima gli proibivano ogni svago. Lucrezia provò a sviare la conversazione su temi piacevoli, ma suo figlio vanificava ogni sforzo col suo star muto e serio, che quasi non sembrava lui.

Clarice, al contrario, era particolarmente sorpresa; che fosse l'angoscia repentina ovvero la ritrovata serenità a destare in lei sentimenti più forti del solito, non lo sapeva. Certo il lucco rosso che Lorenzo aveva tenuto addosso le faceva uno strano effetto, perché significava autorità, maturità, potere. Aveva sempre saputo di aver sposato un uomo importante, ma fino ad allora aveva visto un giovanotto esuberante e vivace, senza la compostezza necessaria a un capo politico autorevole. Il lucco gliel'aveva messo davanti sotto un'altra luce. Le spiacque, una volta in camera, vedere la bella veste abbandonata su un cassone; d'altro canto, non le spiacque coricarsi accanto a suo marito e percepire finalmente le sue carezze, per quanto un po' meno calorose del solito.

Destandosi ai primi spiragli di sole, solleticata dalle emozioni del giorno prima, Clarice provò un brivido che le mozzò il respiro. Lorenzo, pensando lei dormisse ancora, aveva indossato nuovamente il lucco e, con aria più tranquilla, si sistemava le maniche, il colletto, le cuciture sulle spalle. Senza far rumore, si tirò seduta, s'appressò alla pediera e vi poggiò le mani, per poi reclinarsi in avanti e poterlo guardare meglio, fatta tutta languida da quel brivido, diventato vampa, che, a onde regolari, le investiva il viso. Forse era arrossita, ma la penombra avrebbe custodito i suoi sentimenti nel segreto.

Girando lo sguardo al letto, Lorenzo infine la scoprì così accoccolata.

«O che tu fai, Clarice? Mi diventi una gattina, ora?» la prese in giro. Lei sorrise vaga e si rimise ritta, si passò una mano sulla pancia e, come sbadatamente, constatò: «Trovo che vi stia molto bene quell'abito».

«Trovi? E' mi pare stretto, che faccia difetto...»

«Vostro padre, pace all'anima sua, era un'altra figura rispetto a voi. Ma son certa che Caterina, se vorrete, la farà acconciare ammodo.»

«No, non sarà necessario. Me ne farò fare qualcheduno, e rossi e neri. Dunque, ti garbo conciato in questa maniera...»

I suoi occhi si fecero ammiccanti e Clarice sentì ritornare il calore della vampa sulle guance. «Oh, vedo bene di sì! Sarà mica che ti garbino i vecchi, Clariciozza mia?»

Risentita per gioco, ribatté: «A me garbate voi, come dev'essere perché sono vostra moglie. Il lucco vi sta bene perché vi dà dignità, per questo mi garbate di più! Oh, mi pare mill'anni ormai che...»

«Shhht! Non dir nulla, per l'amor del Cielo!» la zittì, premendosi le mani sulle orecchie. «Che se mi ci fai pensare mando a monte la Quaresima! Noi si penserà quando si potrà. Anzi, ora... Ora devo mutare modi, che si tratta di decidere della vita o morte di un uomo.»

Clarice cambiò colore, diventando pallida. «E come entrate voi in questa faccenda? Saranno i magistrati a decidere di lui, di quel Bernardo ribelle.»

Disilluso, Lorenzo negò con la testa. «Non a Firenze. A Firenze sono io che prendo siffatte decisioni. Presto verrà mio zio Tommaso e se ne parlerà con lui e gli altri uomini dabbene della brigata. Tu sta' quieta e non t'angustiare, perché quand'anche decidessimo per la sua morte, non sarebbe peccato: i traditori vanno bene spediti all'Inferno il più in fretta che si può.»

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