XXIII

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Se la meritava, quella bella battuta di caccia col falcone. E si meritava di stare un po' con la testa leggera, senza pensieri di politica, di mercatanzia e di neonati in arrivo. L'aria di Firenze era diventata irrespirabile, perché Firenze, povera lei, si trova stretta tra i colli in un avvallamento che trattiene l'umidità stretta al terreno, e ogni via, ogni stanza, quasi perfino le cantine diventano inabitabili.

Lì, invece, in quel boschetto ombreggiato, cresciuto rigoglioso sul fianco di una collina che volgeva verso sud, il buon tempo era cosa certa. Il sole non scottava, la brezza invece accarezzava, la camicia slacciata sul petto lasciava respirare la pelle un poco accaldata dalla corsa, e ogni gioco, ogni scherzo era lecito in assenza di donne e precettori.

Lorenzo si guardò attorno: oltre al fratello, che ovunque andasse lo seguiva, v'erano i fedelissimi amici dell'infanzia, Sigismondo e Gianfrancesco, e più indietro Luigi e ancora a venire Niccolò Michelozzi. Volti familiari, voci gradite, e gli schiamazzi dei giovani liberi di divertirsi.

Percorrevano un sentiero, soli, senza servi ad impicciarli, e appiedati, muovendo i passi nell'erba che sfiorava loro le ginocchia, verde come smeraldo orientale. Non avevano pensieri per nulla che non fosse il loro piacere: si davano il braccio, si cingevano a vicenda le spalle e procedevano ridendo e schiamazzando.

Ammutolirono tutti alla vista di una cerbiatta snella e bellissima, con un musino superbamente raffinato e il pelo rossiccio e lucido. Che zampe lunghe e definite, e che ventre sodo, e che schiena diritta! Un ottimo trofeo da riportare a casa.

«Shhht! Zitti tutti, bischeri! O la ci scappa!» bisbigliò Lorenzo, facendo segno ai compagni di acquattarsi insieme a lui. Lo imitarono, di colpo silenziosi e concentrati sulla preda. Ella, ammantata di una sorta di fascino femmineo che supera anche la diversità di specie, muoveva avanti sospettosa, con le zampe sempre tese e pronte a condurla al sicuro. Lorenzo, che aveva ceduto il proprio falco al falconiere, e non aveva cani da aizzarle contro, si coricò prono e cominciò ad avanzare strisciando nella sterpaglia.

«O che credi di fare tu, grullo? Vuoi che la non ti senta che arrivi?» lo rimproverò Gianfrancesco prendendolo per una caviglia.

Imperterrito, Lorenzo continuò l'avanzata. Nessuno lo seguì e, pian piano, si dimenticò addirittura di loro. Erano lui e la cerbiatta soltanto, lei ancora guardinga, lui sempre più vicino, incombente. Non aveva armi con sé, perciò si convinse di avere come obiettivo non più la sua morte, ma qualcos'altro, che non riusciva a descrivere.

La cerbiatta camminava lenta lenta, brucava qua e là le foglie più tenere, scansando i rovi e prediligendo i germogli. Lorenzo non avrebbe saputo dire da quanto la stesse pedinando in quel buffo modo, non avrebbe nemmeno saputo dire se lei si fosse accorta o meno di essere seguita. A un tratto, però, ella fece due balzi e si portò fuori dal suo campo visivo, costringendolo a rialzarsi e correre per starle dietro. Quando ebbe voltato la lieve curva che si insinuava nel fitto sottobosco, la cerbiatta era ormai sparita, abbandonandolo a se stesso nel bel mezzo di un labirinto fatto di tronchi tutti uguali.

Lorenzo, indispettito, batté una mano sulla coscia imprecando sottovoce. Persa lei e perso lui, in un paradossale scherzo del destino. E ora? Come sarebbe tornato dai suoi? Avrebbe potuto chiamarli, ma la voce gli mancava. Avrebbe potuto ripercorrere le tracce lasciate per via, ma dubitava che le avrebbe sapute ritrovare.

Fece perciò l'unica cosa che gli sembrava essere nelle sue possibilità: si mise a camminare con le orecchie tese, pronto a rispondere a qualsiasi appello. Gli amici, dopotutto, si sarebbero messi alla sua ricerca non vedendolo tornare. Si era avviato da meno di un minuto, quando in lontananza gli parve di udire una risata. Ristette, non aspettandosi questo. Nel silenzio del bosco, la risata si ripeté più chiara, cristallina, indicandogli una direzione precisa. Ora il suo passo incerto si era fatto sicuro, e il suo cuore batteva palpiti più speranzosi. La vegetazione prese a diradarsi al suo incedere, finché non si aprì in una bella e ordinata radura con al centro un laghetto limpido, incastonato tra le rocce.

Uno spettacolo per gli occhi di chiunque vi fosse incappato per errore o per fortuna, reso ancora migliore dal fatto di non essere deserto, bensì animato di figure che, dalla distanza, apparivano vaghe ombre biancastre, come riflessi di nuvole sulle increspature lievi della superficie.

A Lorenzo venne d'istinto una gran sete, perciò decise di avvicinarsi per bere alla fonte che zampillava da un costone ripidissimo e scendeva in forma di allegre cascatelle per andare a immettersi nel laghetto. Gli parevano mille anni dall'ultima volta che aveva bevuto un sorso d'acqua fresca e non si fece distogliere da nulla mentre tentava di raggiungere il suo scopo. Giunto che fu accanto ai balzi finali della cascata, tese le braccia e abbozzò con le mani una scodella, con la quale si dissetò con grande sollievo. Stava inghiottendo l'ultima sorsata e la misteriosa risata si ripeté vicinissima e moltiplicata in numerose voci diverse, tutte però acute, tutte di donna.

Sollevò la testa con un movimento brusco e si volse al laghetto, che prima non aveva degnato di grande attenzione. Qui vide affiorare appena appena dal pelo dell'acqua cinque visi femminili d'una grazia e bellezza non mai veduta. Sentì le gambe improvvisamente molli, il fiato corto, gli occhi brillanti. Non sapeva su quale delle cinque posare lo sguardo e non si accorgeva di avere la bocca socchiusa in un'espressione piacevolmente spiazzata.

Una, infine, nuotò verso di lui, raggiunse il sasso su cui Lorenzo posava i piedi, vi si aggrappò e si erse, emergendo fino alla vita. Indossava una tunica bianca, zuppa d'acqua, appiccicata leziosa al corpo perfetto che sembrava scolpito nel marmo con assoluto virtuosismo. I seni, non grandi, ma turgidi, seni di fanciulla nell'età migliore, si intravvedevano impressi nella stoffa, così come il gentile ombelico più sotto. Lorenzo non poté trattenersi dal guardarla voglioso e a lei ciò non dispiacque: gli porse la mano, gli accarezzò la gamba ammiccante, poi disse: «Oh, caro giovane mortale, che vieni a lenire la nostra solitudine eterna con la grazia della tua presenza, accompagnati a noi per comune piacere. Non negarci il tuo bene, non negarci la nostra pace. Vivi qualche ora con noi, e sarà come se avessi assaggiato la felicità degli dei».

«Oh, dolce cacciatore,» le fece eco un'altra, bionda come la prima e come le altre, con le gote spruzzate di rosa, «niente ci vieta di congiungerci ai mortali. Non v'è la vergine Diana, non v'è Artemide per sempre indomabile. Ci è lecito godere le mollezze dell'amore: non esitare, dunque, non privare e te e noi di ciò che tutti ci muove!»

Lorenzo, lusingato dalle prospettive che l'incontro gli schiudeva, era sul punto di tuffarsi, ma un barlume di sospetto lo trattenne. Rispose loro: «Leggiadre fanciulle, sarei ben lieto di unirmi a voi e godere delle vostre belle forme e della vostra soave compagnia. Tuttavia, conosco storie che mi consigliano la prudenza, e massime la morte di Ila, l'amato di Ercole figlio di Zeus, che perì inseguendo vani sogni nel fondo d'una fontana in terra di Misia. Vedete dunque che, per quanto il desiderio mi inclini a seguirvi, debbo io prima procurare sicurezza alla mia persona!»

«A che pro dovremmo noi ingannarti di tanto, gagliardo amante nostro? A che pro condurti a noi per poi privarti della vita e dell'amore insieme, e toglierci l'occasione di essere rallegrate dopo tanta attesa? Orsù, se non ti bastano le parole, noi giuriamo tutte assieme sul nostro padre, il glorioso fiume Arno, di non osare attentare alla tua vita e alla tua salute. E per assicurarti d'ogni cosa, aspettaci là, sulla riva, tra l'erba soffice che ci sarà talamo. Là noi verremo a te e ci conosceremo», replicò gentile una terza fanciulla, additando con l'esile manina. Lorenzo si leccò le labbra e poi se le morse, girando e rigirando in mente quanto felice fosse stata l'occasione del suo smarrimento, quanto fosse debitore alla cerbiatta. Ah, se gli avessero dato retta, ora i suoi compari avrebbero avuto veramente poco di cui lamentarsi. Invece avrebbe raccolto da solo il ricco bottino e avrebbe stabilito liberamente il tempo e i modi dell'impresa. Con tali ragionamenti e con un sorriso luminoso sul volto, discese dalle rocce e si portò sulla riva, in una pianura accogliente. Le fanciulle nuotavano verso di lui e i loro visi sembravano illuminare d'intorno per la gioia. Quando le prime due si trassero dall'acqua con la veste bianca sgocciolante, i capelli sciolti raccolti in ciocche lungo le spalle e il petto, Lorenzo ebbe conferma della loro sovrumana beltà. Allargò le braccia e loro vi si rifugiarono, strusciandosi come micine contro di lui, non curandosi di bagnargli gli abiti. Una addirittura gli scostò il lembo della camicia e gli carezzò il petto con la mano, solleticandolo con esperta accortezza; l'altra, invece, gli passò le dita nella zazzera di capelli neri, scoprendogli la fronte, poi scivolò sulla nuca e sul collo. Una terza si era unita a loro, si era posta dietro di lui e l'abbracciava cingendogli il busto, indugiando a tastargli i fianchi e l'addome mentre con la bocca percorreva la pelle delle sue spalle. Le ultime, poi, non trovando spazio, si accoccolarono a terra ai suoi piedi, contentandosi di massaggiargli le cosce con movimenti lenti. Lorenzo aveva chiuso gli occhi quasi subito, lasciandole fare, concedendosi tutto ai loro desideri. I tanti e vari toccamenti che riceveva lo eccitavano a dismisura e il suo respiro si faceva affannoso, rotto in mille sospiri di diversa intensità a seconda dello stimolo che li provocava. A un tratto, la ninfa alla sua destra si protese e lo baciò sulla bocca; la sua compagna di sinistra, invidiosa, gli afferrò delicatamente il mento e gli fece voltare il viso verso di sé, per poter fare altrettanto. In breve, ovunque si girasse incontrava un paio di labbra carnose e succulente da assaggiare, soavi e deliziose come frutti maturi.

Esse se lo litigavano per gioco, gli strattonavano la camicia allargando via via lo scollo sul petto e sulle spalle, tutte e cinque ora schiacciate a reclamare un poco di lui. Alla fine, vinto dalla loro furia amorosa, Lorenzo si trovò sdraiato sul manto erboso, coccolato dalle sue cinque belle fanciulle cui a fatica riusciva a distribuire vezzi, baci e palpatine in ugual misura. Che sospiri, che gemiti accompagnavano le loro moine, preludio al tanto sperato congiungimento dei corpi! Tuttavia, con l'andar del tempo, la ninfa che si era coricata alla sua sinistra diventò più insistente delle altre: gli stringeva spesso il braccio, lo tirava, lo scuoteva... e, con voce soffocata, chiamava il suo nome, benché lui non l'avesse mai rivelato.

Si volse a lei, la fronte corrugata, e sentì un lieve vorticare dei sensi. Chiuse gli occhi, si massaggio le tempie, si sforzò di risollevare le palpebre: così si accorse di trovarsi in una camera buia, strappato prima del tempo a quel che si rivelava essere stato un sogno meraviglioso e fallace, con Clarice che, nella penombra, si premeva contro di lui in lacrime.

«Clarice? Clarice, non sarà mica...?»

«E che vi pare che sia?!», disse tra i denti, arpionando la sua carne con le unghie per sfogare il dolore della contrazione. Lorenzo strinse il pugno per resistere, poi, quando la vide tranquillizzarsi e prendere un respiro profondo, si alzò carponi, e intanto domandava in tono concitato: «Dov'è Cammilla? Perché non l'hai chiamata?»

«C'ho provato! Ma la fitta nel ventre m'ha troncato la voce...» lamentò lei, sforzandosi di mettersi seduta contro la testiera.

«Oh, Maremma impestata! Non ci voleva a quest'ora... Forza, fa' che mi metta una camiciola e sveglierò tutta la brigata», la confortò, sporgendosi già a recuperare un indumento dal cassone; come l'ebbe tra le mani se lo lasciò cadere addosso e, siccome lo copriva a sufficienza, osò aprire le cortine del baldacchino. Avevano allestito un secondo letto per le serve che, a turno, si avvicendavano accanto alla padrona gravida; di tutte le donne di casa, Cammilla era purtroppo quella con il sonno più pesante. Lorenzo sbuffò, notando l'aria di beato torpore sul suo volto alla pallida luce dell'aurora.

«A' Cammilla!» esclamò forte, per farsi udire senza dubbio. La serva ebbe un tremito convulso e si rizzò sulle braccia. «Sì, messere?»

«Va' a chiamare le levatrici, e che vengano qui subito! Non ammetto esitazioni e ritardi, intesi?»

Cammilla si passò rapidamente le mani tra i capelli, nel tentativo di domare le folte ciocche crespe, poi si stropicciò gli occhi e, balzata in piedi con l'agilità di un grillo, corse fuori sbattendo la porta, senza nemmeno una candela.

«Lorenzo! Ah! Aiuto, Lorenzo!» urlò Clarice, stringendo stavolta le lenzuola. «Non ce la faccio, non posso! Ho paura!»

Nel tornare da lei, il suo sguardo cadde sulla sedia da parto che, ormai da più di una settimana, se ne stava in bella mostra da un canto: un brivido inquietante lo pervase, ora che quello strumento sarebbe stato veramente utilizzato. Clarice singhiozzava sotto la sferzata di una nuova contrazione e probabilmente condivideva gli stessi pensieri cupi: la morte di parto era cosa diffusa, male necessario nel tentativo di mandare avanti le sorti della famiglia, sconfitta nella battaglia della vita contro il tempo.

«Quieta, quieta, Clarice... Tutto andrà per il meglio... Vedrai che bel fagottino che avremo tra le braccia di qui a poco!»

«Ah, messer mio,» rispose, ora che l'aveva raggiunta, ora che le era vicino e le teneva la mano, «se dovessi morire, se dovessi...»

«Non se ne parla punto! Tu non morrai, tu non morrai...» mormorò lui, accarezzandole la guancia già umida di sudore, ma fredda. Non poté dilungarsi oltre: le levatrici infatti piombarono nella camera armate di torce e lampade e in quattro e quattr'otto, con modi anche piuttosto rozzi, spinsero il marito fuori dalla porta. Solo a madonna Lucrezia, svegliata dal trambusto, fu permesso di restare, perché donna e perché madre, affinché portasse conforto alla partoriente. Lorenzo, cacciato senza neanche aver avuto il tempo di infilare un paio di mutande o di calzoni, non ebbe altra scelta che recarsi di soppiatto nella camera del fratello a rimediare dei vestiti; quindi scese in cortile, da dove poteva udire le urla di Clarice, e lì attese. Fu un'attesa snervante.

*

Un vagito incerto si levò nell'aria appena appena scaldata dal sole di metà mattina. Il cielo azzurro dipingeva un quadrato uniforme sopra il cortile di Michelozzo, cuore del palazzo mediceo di via Larga, e Lorenzo lo fissava senza battere le ciglia, seduto ai piedi di una delle colonne con la testa poggiata al fusto liscio. Era ormai assuefatto al ritmo regolare scandito dalle grida di sua moglie che si propagano dalla finestra aperta. Le ingiunzioni delle levatrici non gli arrivavano quasi mai chiare a sufficienza da poter essere intese, mentre le suppliche di Clarice, i nomi dei santi che invocava ad alta voce, quelli li udiva bene e vi partecipava con tutto se stesso.

Non era solo: col far del giorno e col diffondersi della notizia tra i parenti e gli amici, molti erano venuti a dar conforto e, anche, a curiosare. Ciononostante, a quel primo flebile vagito di bimbo nessuno parve far caso, forse confondendolo con l'ennesimo spasimo della partoriente. Giuliano, però, rizzò la testa e guardò dritto il fratello che pareva inanimato; questi, avvertendo il peso del suo sguardo, gli rivolse un'occhiata distratta. Poi il bimbo prese coraggio e lanciò uno strillo così acuto che nessuno poté più dubitare delle proprie orecchie.

Non fecero in tempo a girarsi nella sua direzione, che Lorenzo era già sparito dalla circolazione, volato in pochi salti a una scaletta di servizio e montato su, due gradini o tre per volta, fino al piano nobile. Voltando l'angolo rischiò di scivolare, ma si tenne in piedi e corse di slancio attraverso le porte aperte: arrivato senza fiato nell'anticamera della propria stanza, si fermò. Gli girava la testa e temeva che l'emozione subitanea che l'aveva travolto lo facesse venire meno. L'ultimo uscio, il più importante, il più sacro in quel momento, era ancora serrato; i vagiti si erano molto affievoliti e, oltre ad essi, non si udiva altro. Gli venne freddo all'improvviso e quando Giuliano lo raggiunse, lui si coprì il viso con le mani, quindi le passò nei capelli e poi le strofinò sulla camicia, impaziente.

Uno schiocco, dopo svariati minuti di silenzio, annunciò l'apertura della porta. Fu Lucrezia ad affacciarsi, la chioma nera spettinata e lo sguardo un po' stanco. Guardò il proprio figlio con espressione orgogliosa e si fece da parte. Lorenzo, senza bisogno di altri inviti, entrò.

Giuliano lo seguì bisbigliando: «È mascolo?», e Lucrezia lo prese per un braccio affinché lasciasse suo fratello libero di avvicinarsi al letto senza ulteriori disturbi. Clarice vi stava distesa, una fascia bianca le cingeva la fronte premendo i capelli sudati contro le tempie. Il cuscino, sollevato contro la testiera, le dava il morbido sostegno di cui aveva bisogno. Un piccolo involto di panni bianchi trovava spazio tra le sue braccia nude, e parimenti bianca era la camicia pulita che le avevano fatto indossare. Lorenzo si arrestò di fronte a lei, separato dalla pediera e dal cassone, e rimase lì, come di pietra, a osservare. Da un canto, dove la sedia da parto era stata coperta da un lenzuolo e il pavimento ripulito, le levatrici stavano parlando con la giovane contadina ingaggiata per far da balia al neonato. Tuttavia, benché le loro voci fossero alla sua portata, Lorenzo non ascoltava.

«De', nol vuoi vedere il tuo fantolino?» lo incoraggiò sua madre con una leggera spinta. Allora si mosse titubante, aggirò il baldacchino, salì sul cassone laterale e montò sul materasso. Clarice, immersa nella beatitudine, quasi non si accorse di lui. Appena lo sentì vicino, però, venne fuori il suo entusiasmo e, scostando delicatamente un lembo, gli disse: «Guardate...»

Il piccolo aveva un visino da baci, con un paio di belle guanciotte rosate, labbra in bocciolo e il nasino all'insù. Pochi e chiari capelli velavano la sommità della testa e la fontanella era ben visibile al centro. Lorenzo se ne innamorò a prima vista e, d'istinto, tese la mano per toccarlo.

«È mascolo?» sussurrò accarezzandogli la fronte. Clarice sospirò. «No... È una femmina... Mi dispiace...»

«È andato tutto per il meglio, vero? Nessun accidente, niente?»

«No, nulla, la levatrice m'ha detto che un primo parto è sempre lungo e non s'ha da crucciarsi, e m'ha detto pure che è andato molto bene. Solo temo una cosa, che voi voleste un maschio...»

Lorenzo, folle di gioia, a malapena ascoltò l'ultima mezza frase; le prese il viso tra le mani, invece, e le stampò tre baci, uno sulla fronte e due sulla bocca. «Hai fatto una meraviglia, Clarice. Non ho visto mai una fanciullina più bella di lei!»

«E poi, madonna, non sapete come si dice a Firenze?» intervenne Giuliano, cui la mamma aveva finalmente dato il permesso di avvicinarsi. «Noi si dice che la donna di buona razza fa sempre la prima figliata femmina!» (1)

Un sorriso sereno si abbozzò di nuovo nei suoi occhi verdi, prima che tornassero a contemplare il frutto di tanti immani sforzi, una bambina sana e forte cui ora si doveva provvedere un nome.

«Dunque, non ci son dubbi: ella sarà Lucrezia, come la nonna», disse a quel riguardo Lorenzo. Clarice annuì, e aggiunse: «Vorrei porla anche sotto la protezione della Vergine e chiamarla Maria, Lucrezia Maria...»

«Buon proposito davvero. E allora sia così: Lucrezia Maria Romola.»

«Romola? Non m'avete mai fatto cenno a quest'altro nome...»

Lorenzo tese le braccia e, prima di rispondere alla domanda, disse: «Accòmodala qua, ché la voglio cullare un po', per far pratica», poi, quando ebbe la figlioletta accoccolata sul petto, riprese: «Donde mi vieni tu? Da Roma. E' mi pare cosa da festeggiarsi e pubblicarsi per le generazioni, che i fanciulli miei son per tua parte nobilitati tanto in alto. Inoltre, come sai, in piazza della Signoria sorge una chiesa dove riposano le ossa di San Romolo di Fiesole, sicché, vedi, Roma e Firenze, come te e me, sono intimamente legati».

«E sia, mi piace!» approvò, e si permise, pur davanti a tanta gente, di baciare a lungo il marito sulla guancia. Era ruvida, la sua guancia, perché non aveva avuto tempo e modo di radersi; ma questo non le importava.

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(1) Dai Detti piacevoli di Angelo Poliziano.

La scena di Lorenzo e le ninfe si ispira alla versione della "Canzone di Bacco e Arianna" del musical intitolato "Principe della Gioventù". Lo trovate in versione integrale su Youtube!

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