XXIV

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Il tempo, come in tutte le ricorrenze felici, volò planando verso l'autunno, caricandosi di profumi antichi, abitudini nuove, preoccupazioni tenere e tipici assilli degli adulti nei confronti di un bambino appena appena venuto al mondo.

La culla era divenuta il centro del palazzo e tutto il resto sembrava gravitare attorno ad essa: i movimenti medesimi delle persone che vi abitavano confermavano l'impressione di quello stravolgimento, soprattutto i movimenti di Lorenzo. Ogni qual volta potesse concedersi un attimo di requie dagli impegni, eccolo affacciarsi sulla soglia della cameretta e guardare subito attorno alla ricerca della Lucrezina. Talvolta la scopriva addormentata nelle fasce strette, tal'altra la trovava in braccio alla balia per la poppata o in seno alla mamma per essere vezzeggiata e sbaciucchiata. Allora si avvicinava, si fermava contemplativo, accarezzava la testolina, le piccole orecchie rosate, una manina curiosa che si chiudeva a pugno intorno al dito insinuatosi per gioco nel suo piccolo palmo. Poi chiedeva di averla lui stesso in grembo e la cullava con leggeri sussulti e grandi sorrisi, dilettandosi di vederla ricambiare. Clarice, che si era rivelata a propria volta una madre premurosa oltre il consueto, zitta zitta osservava tutto e conservava nel suo cuore ogni fatto e ogni parola, meditandoci su nei rari attimi di calma.

Venne ottobre e cominciò a profilarsi meglio all'orizzonte quella che fino ad allora era stata una proposta, una eventualità di tutto rispetto e pure augurabile, per gli sviluppi che avrebbe comportato in politica estera: una visita dei duchi di Milano, ufficialmente per sciogliere un voto fatto alla Santissima Annunziata, in verità occasione per rafforzare l'alleanza indispensabile a entrambe le parti, benché molto disequilibrata.

Anche per questo, Lorenzo divenne via via più nervoso e assillato dalle incombenze. A lui sarebbe toccato l'incomodo di ospitare in casa propria il duca con i fratelli e la consorte, che stando alle motivazioni non venivano in veste privata; e lo fece sì con grande onore e piacere, ma non senza preoccupazioni. Dovendo poi occuparsi di altre questioni, già di per loro gravi e urgenti a tale visita correlate, affidò l'approvvigionamento alle donne di casa e ad alcuni segretari scelti accuratamente. Ecco, per Clarice, la prima vera prova da moglie d'un uomo di stato. Questo le dava modo di prendere un poco più di parola in famiglia, e l'essere madre le giocava molto a vantaggio in quanto a credito e autorevolezza, nonostante si trattasse solo di pochi mesi e di una bambina.

Lucrezia sua suocera, riacquisito in fretta tutto il proprio spirito allo scoccare del primo anno di lutto vedovile, badava alla casa con il piglio della matrona esperta, a cui nulla sfugge. Con occhio aguzzo vegliava sulla giovane nuora, valutandone ancora talvolta l'ampiezza accogliente del ventre e il viso fattosi un po' più pieno, i capelli di nuovo brillanti e setosi, i seni ammorbiditi nelle forme. Benché desse a vedere, con i primi freddi autunnali, una tempra un poco debole, bastava tenerla al caldo e riparata dalle correnti perché rifiorisse, insieme alla promessa di pargoli sani e forti come la primogenita. Il carattere, invece, mostrava ancora tratti di timidezza che non si addicevano a Firenze, non si addicevano alla moglie di suo figlio; e la sua ostinazione nel vestire più accollata delle dame fiorentine cominciava a suscitarle contro le critiche delle cittadine, le quali si sentivano implicitamente accusate d'impudicizia; la sua inclinazione religiosa, poi, pareva affettazione, arroganza, e andava in ogni modo mitigata con qualche passatempo che sapesse meno di antica e romana nobiltà.

La visita d'un ospite tanto illustre le offriva lo spunto per commissionare un abito all'altezza della fama sartoriale di Firenze, con le migliori stoffe, i più bei gioielli, tutto a puntino come si conveniva.

Aveva buttato l'argomento tra le chiacchiere della tavola, condendolo di complimenti e di parole incoraggianti, e aveva trovato il sostegno di entrambi gli uomini di famiglia. Ma Clarice, al primo accenno, si faceva sempre rossa sulle guance tondette da mamma, chinava lo sguardo e lasciava cadere dalle dita il pane con cui faceva l'intingolo nel piatto che divideva con il marito, per poi sussurrare che non stava bene, che una donna sposata non si scopre troppa pelle, che si sarebbe raffreddata di certo. Scosse di capo, frecciatine e sguardi di biasimo non suscitavano altro che rifiuti, talvolta anche piuttosto secchi. Lorenzo allora sbuffava, si ripuliva le mani con il tovagliolo e se ne andava con la scusa del lavoro allo studiolo; Giuliano, da parte sua, non si dava per vinto e raccontava alla cognata qualche storia di cavalieri o di eroi al solo scopo di distrarla, per poi affondare di nuovo con il pugnale della scollatura, quasi a tradimento.

Lucrezia, però, sapeva che avrebbe ottenuto più con i fatti che con la sola voce. Prese dunque l'iniziativa e, un giorno di fine ottobre, chiamò i sarti, istruì le fantesche, comprò a proprie spese un drappo damascato e intessuto di fili d'argento, poi, quando tutto fu pronto, fece venire la giovane. Ella, ignara, si affacciò nella propria camera da letto, dove tutte le donne di casa, sua figlia neonata compresa, l'aspettavano. Da un lato, le tre fedeli serve romane avevano le bocche serrate, così rigide che per un momento Clarice pensò che l'aspettasse una brutta notizia; adocchiato poi, in un canto, una tavola preparata appositamente per sostenere l'occorrente per una seduta di sartoria, saettò uno sguardo alla suocera e domandò: «Che cosa significa questo?»

Quella sua suocera non era tipo da spaventarsi davanti alla resistenza del prossimo, o il suo defunto marito non l'avrebbe mandata pressoché sola a cercare l'alleanza matrimoniale di una delle più ostinate casate della penisola; si sarebbe fatto a modo suo, questa volta, e non avrebbe ceduto di un passo pur di non presentare al duca di Milano una madonna meno gagliarda di quanto ci si aspettasse.

«Venite, Clarice, tanto per provare come vi sta. Se non vorrete, allora cucirò queste mie labbra impertinenti e non vi assillerò più.»

La squadrò bene, squadrò i sarti e la stoffa che tenevano in mano, prima di assentire. «E sia,» bisbigliò combattuta, «ma la scollatura...»

«Lasciate fare, lasciate fare, vi dico! Chi non prova, non sa!»

Non essendo in vena di discussioni, soprattutto con la bambina tra le braccia della balia, Clarice si slacciò i nastri della giornea e sfilò la sottana e tolse il corpetto, andando ad adagiarli in ordine sulla cassapanca ai piedi del letto, quella istoriata con l'allegoria del proprio matrimonio. Quindi si volse alla suocera in attesa di indicazioni; a un suo cenno, i sarti le si avvicinarono, cominciando a prendere le misure dalla vita che, per la recente gravidanza, risultava ancora un poco ingrossata. Lucrezia, vedendoli appuntare su un taccuino le spanne necessarie, intervenne a correggerli: «Stringete, ché per quel giorno in cui il duca verrà, ella avrà riacquistato la vita da giovinetta».

La vecchia ed esperta Contessina, però, tentennò il capo e, con espressione sgamata, constatò: «Bada, Lucrezia mia, che per me la piccina non sarà sola per molto...»

Ci fu uno scambio di sguardi tra le tre donne dei Medici, tre generazioni, tre vite in tutto diverse accomunate dal matrimonio con uomini che avevano tanto dell'uno e dell'altro, e perciò si capivano in forza di un misterioso senso di appartenenza. «Se così sarà, sarò contenta di chiamare questi bravi sarti ad allargare dove servirà», concluse la novella vedova. E riprese con una risatina non scevra di vanità: «Vi ricordate, Clarice, di quando venni a conoscervi a Roma? Feci cicalare tutta la città; dicevano che vestivo come una bambina di quindici anni!»

«E chi s'o scorda?» borbottò Lisabetta, facendosi un cucchiaio con la mano davanti alla bocca. Cammilla sbuffò, i pugni sui fianchi, scrutando le mani agili dei sarti disegnare lo scollo della padrona un po' troppo in basso per i loro gusti. Clarice stessa, le braccia larghe come un crocifisso, sbirciava il proprio petto con una certa apprensione, finché non le sfuggì a mezza voce: «Un dito o due più su?»

«Ah, no! Mi sono tanto raccomandata, madonna... Guardate, ho già commissionato qualche dì fa la camicia da mettersi con l'abito, provatela un po'!» tornò alla carica Lucrezia, porgendole un involto di seta leggera. Lei la ricevette con una faccia tutt'altro che grata - ormai le era chiara la premeditazione; ma giacché doveva farle questo favore, glielo fece e, terminata la presa delle misure, usciti tutti gli estranei dalla camera, indossò il nuovo capo e trovò che lo scollo le scopriva ben più di quanto la decenza potesse accettare mai. Per questo, quando le porte si riaprirono, Clarice si presentò con un braccio di sbieco sui seni.

Il caso volle che Lorenzo fosse lì lì per entrare in camera da letto, inconsapevole di quale riunione vi si stesse tenendo; messo dentro il naso, si incuriosì immediatamente per i toni stizziti e l'indaffarato andirivieni dei sarti con i loro nastri da misura.

«No!» diceva una. «Non ho intenzione di vestire come una donna sporca!»

«Ma che? Ma che?» rispondeva l'altra. «A Firenze s'usa far vedere le cose belle! E Nostro Signore non s'offende, se v'ha fatta bella dovete rendere grazie a lui. Noi si mostra ciò che non fa male, e non si andrà in chiesa alla funzione quando lo indosserete!»

«Foss'anche! Voglio uno scollo alla romana, non codeste fiere di vanità di voialtri! Madonna Lucrezia, v'ho detto tante volte che non mi garbano punto, e insistete!»

«Ohibò, che cosa vedo costì?» esclamò allora lui, facendosi spazio per aver più agio nel contemplare una scena inaspettata. Sua madre si fece da parte ammutolendo sorpresa, sua moglie si nascose il viso paonazzo e singhiozzò: «Oh, no!»

Essendosi fatto campo libero tutt'intorno, Lorenzo poté avvicinarsi senza altri impicci e, mentre Clarice faceva la vergognosa celando le guance e gli occhi per dispetto, saggiò con due dita la stoffa sottile della camicia, approvandola subito con un sorriso sghembo; poi mosse un passo indietro, le braccia conserte, e la scrutò da capo a piedi con attenzione, le fece accostare il drappo color alessandrino dell'abito, per poi terminare in un sospiro pieno di soddisfazione: «Mi garba, mi garba proprio tanto. E ditemi, quanto verrebbe profondo lo scollo qui sul davanti?»

«Oh, non cominciate anche voi, messer Lorenzo! Alla moglie vostra non piace niente», fece Cammilla, pizzicando l'orlo proprio in mezzo al petto e tirandolo su fino alla gola della giovane. Il padrone, però, le diede un buffetto delicato, ma secco, sulla mano e ripeté la domanda. Il maestro sarto rispose prontamente disegnando a breve e rispettosa distanza dall'Orsini una linea immaginaria con l'indice e il medio.

«Uhm,» fu la prima replica del marito, ora punto da una spina di gelosia. «Io tirerei su di un dito o due; la moglie è pur sempre mia e non vorrei che qualcuno si facesse strane idee, con tutta la mercanzia di fuori...»

«Giustappunto, è quel che dico! La decenza, il buon costume...» riuscì a dire Clarice, finalmente, ma incespicando nelle parole per l'imbarazzo. «Per non parlare dell'appetito insaziabile di Galeazzo Maria; no, decisamente bisogna alzare questo scollo di qualche dito, non di troppo», concluse Lorenzo, prendendole la mano per far sì che si voltasse. Lei obbedì diffidente; sentì la punta del suo dito correre sulla pelle della sua schiena nella parte in cui rimaneva scoperta, rabbrividì e inspirò forte senza volerlo, gli occhi chiusi. Al riaprirli, le parve che Lucrezia si fosse tratta da parte e che i sarti avessero permesso a un sorrisetto malizioso di baluginare sui loro volti.

«Dietro come verrebbe?» domandò ancora Lorenzo, tracciando inconsciamente il percorso che lui stesso avrebbe desiderato. Il sarto, che era un uomo accorto, si affrettò a confermare che il progetto era proprio quello, ma che avrebbero provveduto a modifiche qualora non fosse stato gradito. Una pausa di silenzio, poi Lorenzo sussurrò: «Clarice, ti garba, mmh?»

Era tentata di dire di no, soprattutto per rendere vani i tentativi della suocera di imporle un vestiario che non le apparteneva; tuttavia, le piaceva, per una volta, essere al centro delle attenzioni della famiglia, cosa che era andata perdendosi in seguito al parto. E poi aveva quel favore da richiedere, e credeva che forse, accondiscendendo a un capriccio dei parenti e del marito, avrebbe potuto ottenere risposta più certa, più pronto effetto. D'altro canto, lo scollo era stato ridimensionato, la nuova misura era stata diligentemente appuntata e Lorenzo non aveva interesse a scoprirla oltre il limite della pudicizia. Perciò, torcendosi un po' le mani, sussurrò: «Sì, mi garba... Si può fare...»

Lorenzo si scostò di lato, si volse al maestro sarto e gli affidò l'incarico di confezionare il più bell'abito che potesse; alla rilettura, poi, delle misure nel complesso, aggiunse: «Non stringete troppo, v'avverto, che potrebbe esserci da aggiungere stoffa tra qualche mese».

Così dicendo, fece per agguantare un mantello leggero da buttarsi sulle spalle per continuare a lavorare nello studiolo, come sordo alla mamma che lo rimbrottava: «T'ho pregato d'aspettare, che a volerli troppo, i figlioli, quelli non vengono!»

«Che fo? La lasciamo sola soletta, la Lucrezina bella? Eh? La mia gemma frescolina, lei... Vienti un po' dal tu' babbo, vie'!» scherzò lui, tendendo le mani alla neonata di due mesi che osservava tutto dai grandi occhi grigi. La prese, la vezzeggiò e alla fine, vinto dalla tenerezza, sedette sul letto, segno che voleva restare tranquillo; segno che era tempo di accomiatarsi. I sarti, ben lieti del lavoro ottenuto, arraffarono stoffe e strumenti e si incamminarono verso le scale con la scorta delle serve romane e fiorentine. Le matrone più anziane, Lucrezia e Contessina, scambiarono ancora qualche parola con i due giovani prima di lasciar loro l'intimità che, pur senza esplicitarlo, reclamavano. Per ultima, la balia contadina fu rassicurata - l'avrebbero chiamata al bisogno - e congedata.

Adagiata la bambina sulle gambe, afferratele le manine lasciate libere dalle fasce, Lorenzo continuò a parlarle sorridendole, inventandosi dolci nomignoli con le metafore più strane. Clarice, incerta se rivestirsi o farsi forte con quella camicia di seta che aveva addosso, optò per la seconda: dapprima sedette accanto al marito, solleticando la piccola sul pancino. Quindi, con un movimento forse brusco e sgraziato, si protese a baciarlo sulla guancia e lo cinse nelle braccia, lo baciò di nuovo e premette la fronte contro la sua testa.

«Ho ricevuto nuove da Organtino», disse, come cosa di poca importanza. Lorenzo, al contrario, si irrigidì impercettibilmente. Organtino Orsini era il fratello maggiore di Clarice, condottiero di professione secondo la tradizione di famiglia. Fino a poco prima foraggiato dal re di Napoli, Organtino si era dimesso perché aveva fiutato la possibilità di ricevere una condotta dal duca di Milano, possibilità che dipendeva per la maggior parte dal legame con i Medici. La storia non era nuova: si trattava di presentare al momento giusto il nome e la carriera del candidato. Pratica di per sé non del tutto disdicevole, quella della raccomandazione, solo che non si doveva abusarne e in quel frangente Lorenzo si sarebbe volto più volentieri ad altre materie che non gli incarichi militari. Quell'Organtino, oltretutto, gli appariva da lontano un personaggio di minore importanza e affidabilità, petulante e senza, insomma, le qualità opportune al servizio di un alleato fondamentale come il ducato di Milano.

Perciò, anche allora, quando era faccia a faccia con la sposa che insisteva senza parlare, Lorenzo piegava lo sguardo per non dover incontrare i suoi occhi verdi. Non disse nulla, continuando a carezzare il viso paffuto di sua figlia, a insinuare il dito sotto il suo mento per farle il solletico.

«Aspetta una risposta dal duca...» riprese Clarice. «Gli avete almeno scritto?»

«Ho pensato fosse meglio ragionarne di persona.»

«Ma il duca non si vedrà fino a marzo... Mio fratello s'è licenziato dal re tempo fa! Proprio ora che si parla d'un matrimonio... Volete farlo sfigurare di fronte ai nuovi parenti?»

Quando Clarice si stizziva, meglio non averci a che fare. Suo marito l'aveva capito dopo ripetute cozzate di testa che l'ultimogenita di Jacopo Orsini aveva punti saldi su cui non avrebbe negoziato: uno di questi era la famiglia, probabilmente anche per via delle strigliate che riceveva da Roma quando sembrava non impegnarsi troppo a vantaggio dei favoriti dei parenti. I Medici credevano di fare un affare combinando un matrimonio altolocato - e invero era stato così - ma non avevano tenuto conto di quanto anche gli Orsini volessero approfittare di loro, dei loro soldi e della loro mediazione; così che, quando a distanza di pochi mesi dalla cerimonia nuziale, Maddalena aveva inviato la sua prima lettera di raccomandazione per un posto da podestà per un fedelissimo di casa, Piero aveva storto un sopracciglio e, strappando parole misurate alla sua sofferenza silenziosa, aveva constatato: «I figli dell'orso s'apprestano già a suggere a sbaffo il nostro miele». (1)

La fuga, però, sarebbe stata disonorevole; Lorenzo non aveva convenienza nel mostrarsi refrattario alla richiesta del cognato, né poteva apparire debole o indeciso alla moglie. Afferrò quindi la bambina, la sollevò, se la adagiò cautamente sulla spalla e si diresse spedito alla porta, la aprì.

«Teresa, - chiamò, e la balia, con il suo corpo rotondo e non molto alto, si scostò da una finestra e lo raggiunse, - portate la piccina nella sala di sotto. A più tardi, stella mia», e consegnò il grazioso fardello di fasce e sorrisi che era la sua Lucrezina. Si volse di nuovo al letto su cui Clarice sedeva ancora e, parlando piano, riprese a dirle: «Non è opportuno presentare adesso Organtino; Galeazzo non ne ha alcun bisogno. Ancora non comprendo cosa l'abbia spinto a lasciare il re di Napoli!»

«Ma voi! Voi, che stravedete per Milano!»

«Io non stravedo affatto per Milano! Solo che, ora come ora, a Firenze conviene di più! Non mi dire che sei stata tu a fargli intendere che fosse meglio licenziarsi...»

Clarice abbassò il capo, confessando senza bisogno di parlare che forse, sbadatamente, aveva fatto pervenire vaghi consigli in proposito. Lorenzo, sfruttando la sua distrazione, corse e in quattro salti l'ebbe alla portata; per gioco si aggrappò a lei e, saltando sul letto con l'aiuto della cassapanca, la atterrò di sorpresa.

«Meglio se la prossima volta chiederai a chi ne sa di più... Ma ora mi trovo impacciato, dovrò sì scrivere al duca e sperare che la faccenda vada come noi ci si augura. Ma te? Come pensi di cavartela? Io butto giù due righe e ci metto una buona parola con Sagramoro... ma te?» le disse all'orecchio, poi le baciò la spalla scoperta dalla camicia scollata.

«Io... io...»

«Suvvia, Clarice degli Orsini di Monteritondo, è tanto facile! Noi si fa un pargolo, un bel maschietto, un maschietto che valga per due, che se anzi me lo farai, io ti sarò debitore.»

E invero, per i restanti giorni prima della Quaresima, Clarice pagò la propria parte molte volte, ma la cosa non le dispiacque.

****
(1) La battuta di Piero è frutto di fantasia; cosa certa, invece, è che gli Orsini, e prima tra tutte Maddalena, non persero tempo e presentarono immediatamente (ancora prima che Clarice si trovasse a Firenze!) richieste di raccomandazioni per uomini loro servitori fedeli. Sempre Maddalena insiste più volte con Clarice affinché si impegni a perorare tutte le cause della famiglia d'origine presso il marito.

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