XXV

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Bianca alzò gli occhi ad incontrare la figura a cavallo, massiccia e tutta d'un pezzo, che incedeva trionfante nella piazza della Signoria; accanto a questa, una donna anch'ella robusta e fiera teneva il passo. Dietro, altri uomini in sella a splendidi destrieri morelli agghindati e lucenti come sarebbero state le cavalcature degli imperatori di Roma antica di ritorno da una vittoriosa campagna militare. Peccato per lei e Guglielmo, suo marito, che si trovavano ad avere il sole contro e non potevano distinguere granché oltre alle sagome, ai profili stagliati contro un cielo che pareva loro bianco, ma che era sereno e quasi primaverile. Era marzo inoltrato, perciò nulla di incredibile né di miracoloso, dato che le viole erano già fiorite qua e là lungo le strade, anche quelle cittadine, e tendevano i petali come a voler sbirciare l'arrivo dei magnifici ospiti.

«Quante bizzarrie, mi vengono le traveggole!» borbottò Guglielmo, quando vide che i priori si paravano in gran pompa per assistere al passaggio della comitiva variopinta né più né meno del Carnasciale e tributarle il saluto delle autorità cittadine. Bianca udì le sue parole a stento, perché la folla attorno a loro era in festa, sventolava fazzoletti, lanciava urla di gioia, c'era persino chi suonava strumenti improvvisati pur di far sentire benaccolti i nuovi venuti; e dire che gli Sforza, da Milano, s'erano portati dietro un armamentario di corteo che, se anche avessero trovato una città deserta, avrebbero saputo riempirla dei propri servi e farsi acclamare da loro. Si diceva, e anche Lorenzo se n'era lamentato qualche volta, che si trattasse di duecento persone solo per la corte del duca, da aggiungersi poi a quelle assegnate a servire la duchessa, i fratelli, i cani da caccia – se ne contavano un centinaio! –, i cavalli...

Bianca cercò istintivamente la fronte della bambina che spingeva la schiena contro la sua gamba: Alessandra, la sua quinta figlia, di quasi sei anni, una morettina vivace dagli occhi un po' all'insù. Le accarezzò i capelli per rassicurarsi di averla vicina, di non perderla nella calca; similmente fece con Antonio, di nove anni, più grandicello, che già le arrivava al seno. Contessina, invece, sua terzogenita, restava tutta ammirata al fianco di suo padre e si metteva in punta di piedi per gettare lo sguardo più lontano possibile.

Guglielmo, però, si volse bruscamente indietro allo scoccare delle campane di Santa Reparata: in mezzo alla baraonda generale, la placida calma delle cose religiose rammentava l'ora del secondo Angelus, il mezzogiorno, e con essa le sue incombenze più terrene e quotidiane. «Tempo di andare, o perderemo l'arrivo del duca al palazzo...», sussurrò alla moglie, già traendola con sé a braccetto. «Voi prendete la carretta, il ragazzo, io e i servi vi raggiungeremo a piedi.»

«Saranno loro a raggiungerci, babbo, perché io so come scorciare la strada! Venite che v'insegno la via!» esclamò Antonio, guizzando tra la gente come un pesciolino nell'acqua del proprio stagno; Guglielmo, più per prudenza che per reale bisogno di una guida, gli fu dietro lesto. A nulla valsero alla piccola Alessandra le preghiere e le frigne: per lei c'era un posto nella carretta della mamma e che andasse a piedi era proprio fuori discussione.

*

Lorenzo aveva badato bene di non mettere il naso fuori casa per tutta la mattina; si era guardato dall'andare in piazza ad accogliere Galeazzo, lungi dal voler dare l'impressione che lui, privato cittadino privo di qualsiasi carica, potesse rappresentare la città in una cerimonia pubblica. Lo stesso aveva imposto a Giuliano che, per rifarsi della perdita dello spettacolare ingresso del duca, aveva chiesto e ottenuto di ispezionare le cucine e assaggiare ogni piatto, per impedire che portate mal riuscite potessero in qualche sventurato modo offendere il palato dei convitati forestieri.

Il palazzo era in fermento; non c'era differenza tra i corridoi del piano interrato e terreno, percorsi in lungo e in largo da fantesche, paggi, scudieri, tutti nella bella livrea delle occasioni speciali, e quelli dei piani superiori, dove la matrona de facto, madonna Lucrezia, impartiva ordini a chiunque le passasse davanti, con l'eccezione di due sole persone: Contessina, che attendeva tranquilla sulla sua seggiola in sala da pranzo guardandosi attorno con gli occhietti grinzosi ricolmi di aspettative, e Clarice.

Clarice, infatti, era stata categoricamente esclusa da qualsiasi impegno e responsabilità; ammutolita dall'emozione, sedeva non tanto discosta dalla nonna, solo un poco più vicino al grande camino che ardeva legna buona e profumata. Quando fosse venuto il momento di accogliere Galeazzo Maria, Bona di Savoia e i restanti Sforza, allora si sarebbe alzata e, accompagnata da Lorenzo, avrebbe percorso quel poco di strada, scambiato quelle parole di rito, e sarebbe tornata indietro, pronta a sedere al banchetto, consapevole di dover mangiare con più grinta e voglia che mai per dimostrare tutta la propria salute: questo era bello veder fare a una giovane donna incinta.

Dalla misura del pancione, che già sporgeva e che aveva costretto i sarti, malgrado gli avvertimenti di Lorenzo, ad allargare il girovita dell'abito alessandrino preparato per quel giorno, si sarebbe detto che fosse già al sesto mese. All'inizio le era parso troppo presto, ancora non si sentiva del tutto ripresa dalla prima gravidanza e, come se i semplici timori non bastassero, erano venuti a turbarla certi malesseri prima sconosciuti, malesseri che talvolta le impedivano di alzarsi dal letto e che le donne di famiglia, già tutte con prole, avevano attribuito alla fame del bambino, che le sottraeva energia, o alla stagione fredda o al volgere delle stelle in quei mesi. Non si persuadeva; anche quel giorno, con le sue trepidanti speranze di far bella figura, le aveva portato solo preoccupazioni, per via di alcune gocce di sangue lasciate sulla biancheria. Non è nulla di che, capita più di quanto non si dica!, l'aveva rassicurata Caterina, la sua serva per metà circassa, e non ne aveva parlato più a nessuno. Ora temeva di sporcare il bel vestito nuovo, come succedeva durante i giorni del malessere femminile; ma più ancora, e non lo ammetteva nemmeno a se stessa, l'angustiava che quel sangue presagisse qualche tragedia.

«Madonna, presto! Il duca è partito ora dalla piazza, il corteo sarà presto qui», avvisò la voce di un uomo, e la trepidazione si trasformò in vera follia: uomini e donne, senza differenza di ceto o d'età, parevano trasmutati in falene, e si affannavano alla ricerca della luce della famiglia ducale in arrivo, come impazziti. Persino Lorenzo soffriva la tensione e, venendole incontro a metà strada per condurla al centro del cortile, le mise fretta pur senza intenzione, salvo accorgersene e camminare più piano una volta che l'ebbe accanto.
Fecero appena in tempo ad occupare la posizione loro destinata, che i trombettieri e i pifferai milanesi soffiarono prepotentemente nei bocchini dei loro ottoni, annunciando l'arrivo del corteo all'imbocco di via Larga. Qualche bambino, i più piccoli presenti, scoppiò in pianto; tra essi c'era sicuramente la piccola Lucrezina, perché qualche strillo proveniva distintamente dalla camera al primo piano. I suoi genitori lanciarono appena un'occhiata in alto, poi ripresero subito tutta la loro distinta compostezza.

*

«Avevo ragione, babbo! De', avete visto che noi s'è arrivati pe' primi?» pigolò Antonio, strattonando il lucco scarlatto di suo padre, che su due piedi lo guardò severo e quindi lo rimproverò sottovoce: «O figlio mio, 'un s'è più tra noi e noi, 'un mi de' chiama' babbo, ché tu se' cresciuto!»

«Ma, babbo...»

«O Antonio! Portati bene, su!»

«E dov'è i' mi' barba Lorenzo?» insistette il bambino, facendo apposta a sottolineare in modo marcato la parlata fiorentina, contrariamente a quell'uso equilibrato che i maestri volevano inculcargli. Suo padre, datosi un'occhiata attorno e vedendosi protetto da una delle colonne del porticato, si inginocchiò e, dalla prospettiva del figlio, scrutò la folla eterogenea e variopinta che andava assiepandosi sotto la protezione delle volte che cingevano sui quattro lati il chiostro.

«'Un lo vedo!» ammise, per poi subito correggersi: «Guarda, Antonio, eccolo il tu' barba; e c'è la Clarice... Vedi tu che pancia grossa ch'ella ha?»

«Mmh... A me pare l'abito, babbo... La mamma l'aveva più grossa con Lorenzino dentro!»

Lo squillo improvviso delle trombe zittì il bambino, che per di più si portò le mani alle orecchie turandosele con forza, ma quasi del tutto inutilmente. Guglielmo ne approfittò per prenderlo in braccio e solcare, come una barchetta nel pieno di una tempesta, la folla che si era già assiepata tra le colonne, vinta la reverenza dalla smania e dalla curiosità.

Fece più in fretta che poté, schiacciò pure qualche piede, ma non se ne fece un cruccio; mentre cercava Lorenzo suo cognato aveva infatti scorto dall'altra parte, presso l'ingresso che dava sul giardino, la moglie e le figlie, e intendeva raggiungerle prima che la comparsa del duca lo costringesse a non muoversi.

«Appena a tempo, Guglielmo!» lo rimproverò lei stessa. «Per poco non abbiam fatto la figura dei ritardatari...»

«Ve l'avevo detto, io, che meglio sarebbe stato risparmiarsi l'attesa nella piazza della Signoria... Ma voi, e i bambini, proprio lo volevate vedere lo Sforza a cavallo. De',» accennò con un lieve movimento del capo, «guardatelo, il duca: nemmanco si preoccupa di smontare di sella anti di entrare in casa d'altri...»

Se fino a quel punto il loro bisticcio era stato coperto dalla folla ruggente, dalle trombe e dai pifferi, d'un colpo si fece silenzio e loro stessi ammutolirono. Venne ancora qualche vagito dal piano di sopra, segno che Lucrezina non aveva proprio in simpatia il rumoroso nuovo venuto, ma Galeazzo non faticò a ignorarla.

Solo quando ebbe condotto il proprio destriero nel quadrilatero a cielo aperto che il porticato di Michelozzo disegnava come cuore del palazzo mediceo, il duca di Milano si degnò di scendere di sella con l'aiuto di uno scudiero sul cui petto, cucito con fili d'oro e d'argento, brillava lo stemma di famiglia del padrone. Una volta a terra si volse alla consorte, Bona di Savoia, le tese la mano in un gentile gesto di soccorso; per lei, tuttavia, servirono non uno, bensì due scudieri oltre il marito, perché la rotondità delle forme la impacciava.

Lorenzo notò con un solo sguardo, nonostante la miopia ancora leggera che lo affliggeva, che la nobile coppia non era più la stessa da lui veduta con assiduità a Milano un anno e mezzo prima, nel luglio 1469: entrambi erano ingrassati, e Bona più di Galeazzo, di certo a causa delle due gravidanze una di fila all'altra. Gli venne d'impulso gettare un'occhiata a Clarice accanto a sé, incinta pure lei per la seconda volta, e con così poco intermezzo di tempo... Quando lei alzò gli occhi a cercare i suoi, comprese che il medesimo timore li pungolava ambedue. Nel frattempo, la duchessa aveva messo i tacchi sul lastricato e si era lisciata la gonna color piè di cappone, si era sistemata la giornea con i gigli di Francia che le piaceva ostentare ad ogni occasione, e aveva preso la mano del marito.

«Vostre Eccellenze,» disse allora l'ospite fiorentino, aprendo la mano destra in segno di benvenuto, «siamo infinitamente onorati di potervi accogliere in casa nostra, pur sapendo che essa non sarà all'altezza.»

Galeazzo mosse con fastidio tre dita, a troncare un discorso colpevole di finta modestia indicando intorno a sé il meraviglioso allestimento effimero di Andrea del Verrocchio. «Via, messer Medici, compare nostro (1), noi ricordiamo con estremo piacere la visita che facemmo ormai dodici anni fa a vostro avolo, in nome dell'amicizia che lo legava a nostro padre; e siamo certi che da quel giorno questa dimora non ha potuto far altro che ingentilirsi, giacché vediamo già qui davanti ai nostri occhi il tesoro più prezioso per un uomo: una moglie giovane e pregna», e, dicendo così, abbozzò un inchino del capo nei confronti di Clarice o, piuttosto, della sua scollatura. Ella, più per trarsi dall'imbarazzo che per ricambiare la cortesia, chinò la testa e piegò un poco il ginocchio, mentre Lorenzo muoveva impercettibilmente le spalle in avanti, come gli spiacesse riconoscere la propria inferiorità di fronte a lui.

Complice la vicinanza, però, il giovane Medici poté anche osservare meglio sia il duca che la duchessa: Galeazzo aveva sviluppato un buffo doppio mento che, raggiungendo la fine della mascella, si congiungeva alle onde di capelli scuri che gli cadevano sulle spalle, così da incorniciare il viso grassoccio in modo che, su altri profili, avrebbe conferito alla persona un aspetto gioviale. Al contrario, lo Sforza aveva conservato un paio d'occhi grifagni e la piega maliziosa delle labbra, sicché nulla di gioviale, nulla di buono v'era da ricercare sul suo volto. Bona, gli occhi azzurri e i capelli biondi raccolti nella rete d'oro fissata con perle, conservava poco della bellissima fanciulla che era al momento del matrimonio; ciò che si ostinava a esalare dalla sua figura era un'aria di ingenuità, di vaghezza che strideva con il compagno che il destino le aveva assegnato. Di nuovo, in modo fugace, Lorenzo sbirciò Clarice temendo si fosse risentita per lo sguardo impudico del duca: la trovò, invece, ben ritta, orgogliosa, gli occhi bassi ma non paurosi – era buon costume che le nobildonne guardassero in giù, pur tenendo alta la testa – e una mano poggiata sul ventre, per mettere in risalto il suo stato e, di conseguenza, la sua onestà.

«Non c'è bisogno di presentazione per i nostri fratelli: ecco Filippo, Sforza, Ludovico e Ottaviano, tutti legittimi figli del duca Francesco, nostro padre», lo ridestò la voce di Galeazzo. I quattro nominati si fecero avanti deferenti, manifestando una varietà di toni e fattezze che qualcuno, risaputa la vivacità del loro genitore, avrebbe potuto mettere in dubbio l'identità della madre: Sforza, sopraffatto dalla pinguedine nonostante la giovane età di vent'anni, aveva i capelli castani e il colorito sano, così come il fratello maggiore Filippo, che pure non era altrettanto sovrappeso; Ludovico, alto, largo di spalle, robusto senza eccesso, aveva i capelli corvini e l'incarnato olivastro, dacché gli derivava già il soprannome di Moro; Ottaviano, il minore di tutti, aveva la chioma bionda ereditata dai Visconti e somigliava nelle fattezze alla sorella Ippolita, duchessa di Calabria per matrimonio con Alfonso, figlio del re di Napoli, che Lorenzo annoverava tra le corrispondenti più affettuose.

«I miei figli, Gian Galeazzo ed Ermes, hanno viaggiato in carretta con le balie e ci raggiungeranno a breve», concluse il signore di Milano, lasciando intendere dalla propria espressione il desiderio di ritirarsi per riposare dal viaggio. Lorenzo carpì al volo la sua volontà e fece segno al suo cancelliere, il fidato Bernardo, di far defluire la gente estranea alla famiglia e agli altri invitati di prestigio; quindi, quando la voce dei paggi medicei esortava ad avviarsi in strada, mostrò la via per raggiungere la scala e salire al piano superiore.

Seguì un lauto banchetto di benvenuto in cui ogni ben di Dio fu servito agli ospiti: pesce di fiume, pesce di mare, verdure e prodotti delle campagne, leccornie d'ogni genere, nel rispetto però del periodo quaresimale in cui si trovavano. Il pomeriggio, invece, fu dedicato alla rassegna di tutte le preziosità del palazzo, che per la prima volta fu aperto indifferentemente all'ingresso di chiunque volesse vedere con i propri occhi il tesoro favoloso della famiglia: gemme, perle di rara grandezza, scrigni di velluti, stoffe damascate, sete e merletti, vasellame antico istoriato, statue ed erme di provenienza greca tra cui il ritratto scolpito di Platone e ritrovato pochi anni prima negli scavi dell'Accademia. Solo a tarda sera i rumori della festa si assopirono e i cortigiani sforzeschi, che per mancanza di sufficiente spazio non potevano alloggiare coi signori, furono visti sfilare per le strade con fiaccole e torce e dirigersi, scortati dai servi, verso i palazzi delle famiglie fiorentine più in vista.

I giorni successivi furono un continuo travolgimento di celebrazioni fastose e inusitate, cosa che fece storcere il naso a buona parte della Firenze tradizionalista, insofferente alla vanteria e allo sperpero di beni e tempo; tuttavia, per far buon viso al signore di Milano della cui alleanza avevano così bisogno, tante persone accorrevano regolarmente nelle piazze per assistere a spettacoli di tema religioso, unico svago che la Quaresima consentisse, per inneggiare al biscione milanese e per urlare, di quando in quando, un "Palle! Palle!".

Nonostante l'impegno profuso per trovare una medietà che accontentasse tanto i forestieri quanto gli abitanti, l'ospite, dopo tre dì, si dice cominci a puzzare: Galeazzo, poi, aveva intenzione di fermarsi ben più di qualche giorno, di divertirsi ben diversamente da quanto il momento dell'anno permettesse, perciò, una sera, prima di cena, sedendo con Lorenzo e altri parenti, dell'uno e dell'altro, e maschi e femmine, ordinò senza mezzi termini: «Oggi voglio mangiare di grasso!»

Bona, del tutto ingenuamente, mandò una risatina acuta e si sporse verso Clarice, che le era accanto, e commentò: «Ah, Sua Eccellenza il duca non ha paura nemmeno di Nostro Signore!»
Il suo accento, macchiato profondamente dall'inflessione d'Oltralpe, spiaceva alla Romana già nei contesti inoffensivi, sicché sentirla prendere tanto alla leggera una questione di religione la turbò più del solito.

«Come?» ribatté. «Voi permettete che vostro marito mangi carne in Quaresima?»

«E che posso fare io, madonna, s'egli è così risoluto a ottenere quello che vuole?» rispose, ostentando ancora una superficialità disdicevole in una madre cristiana.

Clarice, dunque, si volse al marito e notò che pure Lucrezia, Nannina e Giuliano – Bianca e Contessina non erano presenti in quel frangente – lo stavano fissando con insistenza. Gli Sforza erano tutti, chi più e chi meno, rassegnati all'arroganza del fratello maggiore.

«Devo pensare che non gradite le scelte dei miei cuochi?» fu la replica del Medici, pronunciata con una sottile vena di indifferenza. Galeazzo ghignò e prese un sorso di vino, tanto per mostrare quanto fosse toccato dall'ironia; riposando la coppa sul tavolo e rivolgendosi stavolta alla madre di lui, ripeté: «Madonna, finora mi avete onorato in tutti i modi convenienti, tuttavia vi sarei grato della generosità che non mi ha mai negato nulla in alcuna circostanza e assaggiare quanto le vostre ghiacciaie possano offrire».

L'appello alla donna più influente della casa non gli giovò immediatamente, perché questa si schermì dietro la scusa di non avere la chiave della ghiacciaia e che perciò non aveva la libertà di soddisfarlo. Galeazzo, per niente stupito, sbuffò e tornò ad assillare l'altro: «Suvvia, non mi dite che a Firenze non vi piace la carne!»

«Ci piace, ma sappiamo astenercene quando conviene.»

«Vi astenete da tutte le carni?» insinuò malevolo e qualcosa di cattivo brillò in fondo alle sue pupille. Lorenzo non si fece spaventare. «Carne bianca e carne rossa; pollo, starne, fagiani, cignali e manzi; la mangiamo quando conviene.»

Bona a quel punto decise di alzarsi; volto un saluto ai presenti, disse che sarebbe andata a ricrearsi un po' prima di sedere a tavola, perché altrimenti non avrebbe digerito bene l'arrosto. Pregò pure la compagnia delle dame e tutte, meno Clarice, che si attardava e comunque non avrebbe partecipato, le si accodarono, chi più e chi meno volentieri. Lucrezia, da parte sua, compresa l'antifona, andò a comunicare in cucina le nuove richieste. Le donne, insomma, per un motivo o per l'altro uscirono e Clarice, rimasta indietro, ne approfittò volentieri per scambiare uno sguardo con suo marito prima di prendere la via della camera poco distante.

«Non v'è solo quella carne; qui a Firenze siete intenditori anche d'altri vizi capitali che non la gola, o sbaglio?» diceva ancora Galeazzo, come dimentico della presenza di lei.

All'allusione, Lorenzo lo guardò bieco. «Le nostre conversazioni finora sono state piacevoli e arricchenti, non vedo bene che noi si scada in simili argomenti.»

Clarice, giunta alla porta, vi si appoggiò languida, incerta se lasciare la stanza. C'erano altre persone lì, ma erano per lo più sforzeschi, con l'esclusione di Bernardo Rucellai suo cognato, Giuliano, che si mostrava quasi intimidito, e qualche giovane paggio.

«E sia, parliamo di quel David che fa bella mostra nel cortile: un pezzo di rara bellezza, ne converrete. Donatello ha saputo imprimere tutto il fascino del suo efebo in quel bronzo», rise il duca, prendendosi gioco del furente Medici sedutogli di fronte. Riprese: «Sono certo, d'altronde, che voi conoscete qualche posto dove io mi possa divertire. Ditemi dunque la strada, farò in modo di non farmi riconoscere».

Lorenzo si girò verso Bernardo che, di rimando, fece spallucce. Galeazzo si servì di quella distrazione per alzarsi e avvicinarsi incombente al suo interlocutore, che lo guardò dal basso in alto un po' sorpreso.

«Non fate quella faccia da fanciullo inconsapevole, ché la voce mi è giunta dei vostri sollazzi giovanili e so che, da buon Fiorentino che siete, non vi siete sottratto al vizio in passato.»

Clarice sbiancò sulla soglia e chiuse le dita attorno alla maniglia, gli occhi verdi lucidi e spalancati come quelli di una preda inerme di fronte al cacciatore. Lorenzo taceva e stringeva i denti, sul punto di perdere l'ultimo briciolo di pazienza conservato con tanta fatica.

«Io conosco un posto, in verità...» venne una voce fioca da un canto. Galeazzo lampeggiò in quella direzione e: «Messer Giuliano! Dunque qualcuno ammette i propri peccati, finalmente!»

«Con tutto il rispetto, Eccellenza, i peccati li si dice al prete: conosco un posto, ma non perché ne abbia esperienza, solo che è noto a tutta la città. Pure i fantolini in culla ve lo saprebbero indicare.» E, portatosi al tavolo, tracciò il percorso sulla tovaglia con il dito indice onde aggiungere chiarezza alle parole, per poi concludere: «Andateci, ma io non vi accompagnerò».

Detto ciò, si dileguò attraverso la porta scambiando uno sguardo vergognoso con Clarice che, rigida come una statua di sale, stava ancora con un piede nella sala e uno nel corridoio. Galeazzo Maria le fece un cenno ambiguo, quindi tornò a tormentare suo marito. «Io son contento in quel che richiedevo, ma temo che la donna vostra vorrà qualche parola di chiarimento da voi. Orsù, ammantatevi e fatemi da scorta stanotte, così scamperete alla confessione pur voi».

«Con permesso», disse soltanto Lorenzo, alzandosi composto e orgoglioso. Fissò il duca negli occhi in aperto atteggiamento di sfida e, pian piano, si allontanò da lui, come tenendolo d'occhio; raggiunse la moglie e le diede il braccio. «Andiamocene», sussurrò a Bernardo che, pronto, gli fu dietro. Si avviarono, mentre alle loro spalle Galeazzo sorseggiava un altro po' di vino del Mugello dalla propria coppa.

Era la sera del 23 marzo 1471.


***

(1) Il titolo di "compare", così come quello di "comare" per le donne, si riferiva alla parentela spirituale contratta attraverso il battesimo: in questo caso specifico, Lorenzo è compare di Galeazzo Maria in quanto padrino di battesimo (perciò "padre nello spirito") di suo figlio Gian Galeazzo Maria. Tali legami erano molto sentiti in passato, considerati al pari di vere e proprie parentele di sangue, tanto che sussistevano limitazioni e impedimenti tra, per esempio, padrino e figlioccia, madrina e figlioccio, figlioccio e figlia del padrino e così via...

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