XXVI

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25 marzo 1471

«Ancora non si vede messer Medici coll'ospite suo. Che vadan l'uno e l'altro alla malora!»

«Non s'è mai sentito, mai sentito d'un simile sgarbo alla religione e alla città. E noi seguitiamo a farlo dormire in casa nostra coi suoi servi men cristiani che i Turchi!»

«Io per me non aspetterei nessuno. Vedete voi se Cristo deve stare ai comodi d'un Milanese o d'un Fiorentino, che già han fatto spostare una volta l'orario delle sacre celebrazioni!»

A Firenze, quel primo pomeriggio, non si parlava d'altro che della maleducazione del duca Galeazzo Maria che, incurante dell'importanza del giorno che si stava vivendo, faceva il bello e il cattivo tempo prima domandando che l'ora della solenne funzione in Duomo per festeggiare l'Incarnazione del Signore e l'inizio del nuovo anno fosse spostata dal mattino al dopo pranzo, e poi tardando a presentarsi.

Tutto era pronto, con l'unico incomodo dell'assenza dello Sforza e del suo fedele tirapiedi messer Medici, e la gente mormorava, toccata così impunemente nelle cose più care che aveva.

Galeazzo fece pervenire un messo quand'era ormai trascorsa una buona mezz'ora di vana attesa nella cattedrale, e il messo, imbarazzato certo, ma istruito ad arte affinché non mostrasse né pena né rimorso, comunicò che Sua Eccellenza non aveva ancora terminato di pranzare e che perciò chiedeva la cortesia di rimandare la santa messa di altre due ore. Sbigottiti, il capitolo della cattedrale (1) assecondò la richiesta a denti stretti e, giacché erano tutti lì, imbastì un ciclo di predicazione quaresimale.

Infine, un'ora prima del tramonto, il duca di Milano mostrò la sua faccia a coloro che l'avrebbero volentieri preso a schiaffi; accanto a lui, con la tranquillità di chi non si rende pienamente conto della gravità del proprio comportamento, Lorenzo de Medici faceva il suo ingresso in chiesa senza la compagnia della consorte. Lucrezia sua madre e Contessina erano già sedute presso il banco di famiglia, venute come a smussare la rabbia dei concittadini e a mettere in giro la voce secondo cui tutta la responsabilità era del duca, mentre Lorenzo avrebbe di gran lunga preferito rispettare l'orario originale della messa. L'assenza di Clarice fu notata da pochi e ancora meno furono quelli che domandavano di lei: in una circostanza in cui così tanti forestieri calcavano le loro strade, ella non appariva né più né meno che una straniera e come tale veniva pesata. La risposta, comunque, era semplice e intuitiva: la gravidanza le imponeva riposo.

Finalmente cominciata, la funzione religiosa arrivò al termine senza ulteriori incidenti. La festa, temperata solo in minima parte dalle norme quaresimali in quanto giorno di domenica, animò la città fino a tarda sera. I milanesi e tutti coloro che avevano seguito il duca nel suo viaggio presero parte alle sfilate, alle abbuffate e a ogni passatempo, buono o cattivo, senza mai lamentarsi.

Ora che si sentiva inebriato dall'atmosfera di euforia per l'anno nuovo e accomunato nell'offesa a Qualcuno ben più in alto di qualsiasi terrena autorità, il popolo fiorentino tornava ad usare della consueta schiettezza nel criticare i modi maleducati e volgari dei visitatori e nell'augurare loro una pronta e rapida partenza, pena sicura l'insorgere di brutti accidenti.

Il giorno si cambiò però in notte in un'atmosfera di sospensione sospetta. I Fiorentini, per quanto distratti, fecero caso al fatto che nessuno d'importante si affacciasse fuori da palazzo Medici, come volessero evitare lo sguardo accusatorio che li avrebbe colpiti immediatamente, e non c'era pretesto buono a trarli dal loro nascondiglio; nemmeno gli amici, pur molto esperti, ebbero successo nei loro tentativi. C'era altresì un via vai di servitori e messi che si intensificò al momento del crepuscolo, per poi cessare improvviso alle prime ore della sera e riprendere solo la mattina seguente, quella ormai del 26 marzo.

Allora un'altra voce prese piede nella città, ed era una voce talmente cruda e triste che, come sovente capita, allettò la curiosità molto più che lo sgarbo del 25 marzo, sebbene quest'ultimo fosse un fatto destinato a rimanere più lungamente nella memoria. Era l'imminenza dell'evento e le circostanze in cui si era consumato a rendere eccezionale qualcosa che, diversamente, sarebbe stato accolto con distaccata rassegnazione.

La notizia cominciò a circolare al mercato di San Lorenzo, da cui fluì rapidamente per le viuzze e si intrufolò nelle case tanto degli operai come dei mercanti e dei nobili, sempre ricevuta con un certo sbigottimento.

«Avete sentito quella brutta faccenda della Romana?» diceva qualcuno al vicino di bottega mentre insieme spazzavano la via o impilavano casse di verdura fresca appena arrivata dalle campagne. «Ella s'è sconcia!»

«S'è sconcia?! Ma che tu di'?»

«L'ha detto la Cammilla sua fantesca questa mattina alla donna di Tommaso il panettiere... e la Anna, che fino a iersera è rimasta a palazzo perché l'aiutasse, ha detto che per poco l'è campata!»

«Ma quando, quando l'è capitato?»

«Tra 23 e 24, sicché si spiega perché siano tanto vergognosi d'uscir di casa...»

«Maremma ladra, questa è grossa assai, sconciarsi d'un bambino con il duca di Milano nella camera accanto... L'ho detto io che quell'uomo porta male, un figlio del Diavolo qual è lui!»

«Ma tu non sai! Mica un figliolo, bensì due; due ne aveva in pancia la Romana, e si dice due maschi nella stessa camicia...»

«Ah, due! Brutta cosa che fossero due, già buona che lei la sia scampata. E il magnifico Lorenzo che dice?»

«Di quel che si sa, ha pianto come un putto, che non s'aspettava mai più una tale disgrazia in casa, e in un tempo come questo.»

«Ben l'intendo, anche se il piangere non s'addice punto a un uomo che vuole avere qualche autorità. Troppo giovane per far figlioli, troppo giovane per fare il padre... Che Dio gliela mandi buona, la prossima volta...»

«Se ci sarà, ché sai che talvolta le femmine non han più bambini dopo che si son sconciate...»

Non dissimili le chiacchiere delle donne d'alto ceto, soprattutto di quella parte di magnati che non vedeva di buon occhio né i Medici in generale né l'Orsini in particolare. Erano tante le fanciulle che avevano creduto fino alla fine alla prospettiva di un matrimonio con Lorenzo, e con le famiglie di alcune di esse Piero aveva avuto abboccamenti strategici: il caso più famoso in città era quello di Francesca Pitti all'indomani della congiura del 1466. Luca Pitti, suo padre, era stato uno dei capi della fazione antimedicea e un matrimonio avrebbe rafforzato il suo ravvedimento, giunto appena qualche ora prima di sferrare l'attacco che avrebbe dovuto portare per lo meno alla cattura, se non proprio alla morte del Gottoso. Per qualche tempo si era davvero creduto che la rottura si sarebbe ricomposta per mezzo dell'unione dei due coetanei, poi, a sorpresa, Francesca era stata fidanzata a Giovanni Tornabuoni, cognato di Piero, l'aveva sposato e l'aveva seguito a Roma. Quasi agisse per ricambiare la mediazione del Medici, Giovanni aveva imbastito il matrimonio del nipote primogenito, procurandogli una moglie foresta.

«Così, forse, la capiranno che quella puttina di Roma non è buona a procurare eredi alla gente fiorentina», diceva una matrona con un lungo e pesante velo nero sulle spalle; accanto a lei, un'altra donna trapassò la tela di un fazzoletto con un ago da ricamo, e lo fece schioccando la lingua contro il palato. «Mia figlia, la mia Bice, lei sì che sarebbe stata un'ottima madre e moglie, non come quella là, così uggiosa, che pare sempre che piova in casa sua...»

«Madonna Lucrezia sarà contenta di quel che ha combinato; han voluto salire ai sommi gradi? Beh, ora precipitano. Capita pure di cadere, come quel tale delle favole greche... quel tale, come si chiama?»

«Icaro, mamma, che volò troppo vicino al sole e si vide le ali di cera tutte disciolte, e affogò nel mare», venne in soccorso la voce di un bambino di sette od otto anni.

«Bravo, Sandrino, bravo!», approvò sua madre, allungandogli una carezza sulla guancia. Quello, gongolante, si volse di nuovo ai propri giochi e non prestò più orecchio alle noiose e incomprensibili frecciatine delle donne.

«Ora precipitano!», rincarò ancora la vedova, e le altre cinque donne presenti assentirono in coro, tutte accomunate dalla medesima invidia.

Nessuno, comunque si stupì di vedere Lorenzo ricomparire al fianco del suo ospite il pomeriggio del 26, vigilia del giorno in cui il duca di Milano si sarebbe finalmente congedato per proseguire il viaggio. Era stato allestito uno spettacolo di teatro sacro nella chiesa di Santo Spirito e, dato il trambusto sollevato dai ritardi del 25, stavolta tutti furono puntuali.

Ciononostante, l'aura malaugurante che aleggiava sulla città sfruttò l'ultima occasione per creare scompiglio e disagio ai Fiorentini. In ossequio al titolo della chiesa, argomento della rappresentazione sarebbe stata la Pentecoste, per quanto precorresse di molte settimane la ricorrenza vera e propria. Per stupire, inoltre, un pubblico per sua natura annoiato dai temi religiosi, gli organizzatori avevano ideato un complicato sistema di macchine che avrebbe permesso, all'acme dell'azione scenica, di riprodurre le fiamme discese dal cielo sui discepoli raccolti in preghiera nel Cenacolo. Avrebbe dovuto essere una fulgida prova d'ingegno, si risolse in un disastroso fallimento: il fuoco è l'elemento che, dalla terra, si protende verso l'alto, ottima metafora per indicare la fede, ma incontrollabile nei suoi effetti. Fu così che il soffitto ligneo della chiesa di Santo Spirito si accese e bruciò, arse intossicando gli astanti, cagionando crolli e ferimenti nella calca che premeva per scappare.

Allo scoccare della compieta, il puzzo impregnante del fumo rendeva l'aria ancora irrespirabile, e una colonna nera si stagliava diritta e minacciosa sopra un rudere senza tetto, monito a tutti.

La mattina seguente, Galeazzo Maria Sforza tolse il disturbo, seguito, come il Diavolo, dalla propria pompa vanagloriosa, lasciandosi alle spalle una città che non solo l'odiava, ma guardava ora con occhi stizziti colui che era responsabile della sua venuta.

Lorenzo, oppresso da pessimi pensieri, anche quel giorno non si fece vedere.

*

6 aprile 1471

Non si fece vedere nemmeno il giorno seguente, e pure nei successivi fu parco d'uscite perché aveva tutt'altri sentimenti, ed era ancora molto turbato, per quanto non lo desse affatto a intendere ad estranei. Solo chi lo conosceva bene era ammesso alle sue confidenze più difficili, e in quella settimana srotolatasi con incredibile frenesia l'aveva consolato, incoraggiato, incalzato a tener duro, e lasciare i dispiaceri per quando l'acqua si fosse calmata.

Aveva cambiato camera, dormendo al pianterreno; al suo risveglio, prestissimo, con poche ore di sonno alle spalle, si era trovato indaffarato nel governare gli ultimi preparativi; poi, forse troppo presto, forse troppo tardi, Giuliano era montato in sella e con un cenno ribelle della testa – come a dire che alla fine gliel'aveva fatta – aveva dato di sprone e preso la via, seguito da un piccolo gruppo di accompagnatori parimenti a cavallo. Per quanto il duca Galeazzo Maria fosse lontano dal carattere e dagli interessi del Medici piccino, la sua figura potente e circondata di lusso aveva istillato nel diciottenne la voglia di vedere il mondo, e a poco era valso cercare di trattenerlo nel cerchio delle mura cittadine, dov'era al sicuro.

"Io parto, parto, t'ho detto! Che tu sia d'accordo o no, stavolta parto davvero! Me ne vo a Napoli, chessò, me ne vo a Venezia, Milano, Mantova, dovunque io voglia andare, andrò. Il babbo a te l'ha fatto fare, d'andare a zonzo per l'Italia, a conoscere questo e quello, e io? Se non ti sta bene, m'importa una fava!"

Lo sentiva ancora strillare, nella camera al primo piano che ora sarebbe rimasta vuota per un po'. E ricordava bene anche che cosa gli aveva replicato: "Tu non puoi partire ora, capisci che non è mica opportuno, bischero d'un mulo che non comprendi niente?"

"M'importa una fava!" aveva chiarito, alzando indice e pollice uniti a formare un cerchio che, perentoriamente, aveva mosso di getto verso il basso. "Te l'ho detto già più e più fiate: stavolta lo faccio. E parto!"

Il bisticcio era andato avanti per tutta la giornata del 30 marzo e, verosimilmente, le loro voci alterate erano state udite per le strade sotto le finestre. Alla fine, per il bene di tutti, Lorenzo aveva dato il benestare e Giuliano, fattosi come d'improvviso uomo, aveva organizzato il tutto nei dettagli e preso contatti con chi l'avrebbe guidato e ospitato in terra altrui. La mattina del 6, quella appunto, era partito.

Lorenzo aveva tirato un sospiro di sollievo, si era passato una mano tra i capelli e aveva allentato i primi due bottoni del lucco mentre lo scalpiccio degli zoccoli si faceva sempre più lontano, confondendosi con i rumori della vita cittadina. Sua madre, in modo non così dissimile dal figlio maggiore, si sporgeva dal portone, sebbene la sua vista non potesse spingersi più in là dell'angolo della via; servi, paggi e tutti i presenti restavano sospesi, in attesa di conoscere come sarebbe proseguita la giornata.

Siccome piovigginava, Lorenzo era malinconico: gli venne perciò naturale guardare in su, incurante delle piccole gocce d'acqua che gli ferivano il viso trovandosi all'aperto nel cortile. La finestra della camera matrimoniale era accostata, gli scuri aperti.

Strinse la presa, e percepì tra le mani lo scricchiolio della carta. La lettera era già passata per la cancelleria, che l'aveva registrata; poi, in attesa della partenza di Giuliano, l'aveva letta, e l'umor nero aveva di nuovo preso il sopravvento. Sospirò una seconda volta, questa volta non di sollievo, ma di rassegnazione: meglio provvedere subito, rimandare avrebbe solo inasprito il dolore. Salì di sopra, intento a quella finestra che da sotto aveva sbirciato, picchiettò delicatamente con le nocche sull'uscio e, a una parola, entrò. Al suo apparire, le due fantesche si congedarono immediatamente.

«Luigi ha scritto...» disse; Clarice, distesa a letto, non lo guardò, ritrasse invece le gambe, piegando le ginocchia, in un istintivo atto di protezione. Lorenzo non aspettò di avere il permesso di avvicinarsi, distese la pagina davanti a sé, si schiarì la voce.

Io ti scripsi, è pochi giorni, et per questa t'ò a dire che ho inteso come madonna Clarice s'è sconcia in due fanciulli maschi: di che ho havuto assai dispiacere, però ch'io so dispiace anco a te.

Non lesse ad alta voce la prima frase, consapevole che avrebbe cagionato una fitta insopportabile al cuore provato di lei; e tacque pure la successiva: Ma tu se' savio, et vorrai esser a ogni modo, et così ti ricordo con amore.

«Et di' a madonna Clarice per mia parte, che non si disperi per questo, però che essendo due, sarebbono riusciti due Luigi Pulci, et noi vogliamo ne facci uno per volta, et acconcilo bene, et facci Cosimi et Pieri et Giuliani, et, presso ch'io non dixi, Lorenzi; et non granchi di sette per mazzo, come a San Miniato, o Cosimini, Quaracchini o simili cose.»

Clarice tirò su con il naso, ritrasse ancor di più le gambe e, abbracciandole, nascose il viso scrollando la testa. Lorenzo, che, mentre leggeva, aveva raggiunto il cassone laterale, sedette e, tratto un respiro, concluse: «Ma tutte le nostre cose sono così fatte: uno zibaldone mescolato di dolcie et amaro et mille sapori varii».

Alzò gli occhi su di lei, poi tese la mano e le accarezzò la testa, piano, come avesse paura di farle male semplicemente toccandola. Certo, certo lei soffriva molto più di lui, perché quelle creaturine le aveva sentite crescere dentro e le aveva amate, nutrite, cullate nelle notti fredde dell'inverno mentre lui le stava accanto ignaro, e lei invece già sospettava con trepidazione. Un'altra carezza le distese sul capo, e lei ora si volse a guardarlo, e aveva gli occhi tanto rossi da sembrare malata di terzana (2).

«Suvvia,» la confortò, «come ti senti oggidì?»

«Mi sento in uggia...» sussurrò, e la sua voce parve provenire da tutt'altro luogo che quello. Lorenzo attese un momento, quindi, forzando il tono per suonare più sereno di quanto non fosse, continuò: «L'ho fatti seppellire nella Sagrestia di San Lorenzo e ho già disposto che si dicano messe; dopo battezzati, erano puri come angeli, egl'è certo che siano in cielo. Dobbiamo essere grati di questo: son venuti al mondo per liberarsi dei peccati e raggiungere il paradiso senza timore di passare per il purgatorio». (3)

Lo sguardo di Clarice restava inesorabilmente distante; guardava la pioggerellina fine di fuori posarsi sui davanzali e rabbrividiva quando uno sbuffo d'aria fredda la sferzava, tuttavia non cercava di coprirsi con le coperte di pelliccia. Lorenzo, allora, le prese la mano. «E poi hai sentito, Luigi dice che sarebbero stati due pari suoi; due birbanti, che ci avrebbero fatti ambedue matti.»

«Sarei ammattita volentieri per loro...»

«Clarice...»

«Mmh?»

«Ti prometto che ne avremo altri, tanti altri: mio avolo usava dire che questa è troppo gran casa a sì picciola famiglia, ma non sarà più così quando l'avremo riempita di nostri pargoli. Pensa alla Lucrezina nostra, a come cresce sana e forte e promette bene per l'avvenire. Ne avremo altri, Clarice, ora vie' qui...»

E così dicendo, si issò dal cassone al materasso, stese le braccia e la avvolse in sé. La sentì annuire poco convinta, come non credesse fino in fondo a quella promessa, e allora la premette più forte contro il petto.

Tutte le nostre cose sono così fatte: uno zibaldone mescolato di dolcie et amaro et mille sapori varii.

***

(1) Il capitolo della cattedrale è l'insieme dei presbiteri incaricati di assicurare la celebrazione delle funzioni religiose. A capo del capitolo vi è normalmente un vescovo o, in sua assenza, un vicario.

(2) La febbre terzana è una manifestazione della malaria. È detta appunto terzana in quanto si tratta di febbri alte e intermittenti secondo un ciclo di 24 ore (febbre alta il primo giorno, bassa il secondo, alta il terzo). Una volta superato l'attacco febbrile, esso può ripresentarsi senza nuovo contagio nel momento in cui le difese immunitarie della persona si indeboliscano (a causa dello stress, per esempio).

(3) Nel Medioevo e Rinascimento il tema dei neonati morti durante il parto era fortemente sentito in quanto, morendo senza battesimo, le loro anime erano condannate a un'eternità nel Limbo. Erano stati perciò eretti anche oratori e cappelle dedicate alla Madonna e ad altri santi in cui portare i piccoli cadaveri e pregare perché "riprendessero vita" un momento, giusto il tempo di un battesimo con sola acqua benedetta. In tal modo essi sarebbero stati ammessi in paradiso.
Nel caso dei due gemelli che Clarice perse attorno al quinto mese di gestazione, Lorenzo afferma nei Ricordi che essi furono battezzati, perciò è verosimile che siano stati poi deposti nella Sagrestia cosiddetta Vecchia della basilica fiorentina di San Lorenzo, dove già si trovavano le tombe di Giovanni di Bicci e Piccarda Bueri (bisnonni di Lorenzo), di Piero e Giovanni de Medici (padre e zio).
Diversamente, se cioè non fossero stati battezzati, sarebbero stati sepolti fuori dalle mura della città, in terra sconsacrata e senza alcun segno commemorativo.

La lettera di Luigi Pulci è autentica e si può liberamente trovare su internet, sia trascritta, sia originale all'interno del sito dell'Archivio di Stato di Firenze.

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