Capitolo Uno

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Stowe, era bella come la ricordavo.

Erano due anni che non tornavo a casa dei miei genitori.
Avevo un lavoro davvero estenuante, ero sempre di corsa e, talmente indaffarata da non riuscire mai a trovare un secondo per loro.

Ultimamente però, erano successe così tante cose a New York, che avevo scelto la strada più semplice: fuggire.

Questo paesino con i suoi paesaggi, mi aveva sempre aiutato a riflettere, e ora, nel periodo più brutto della mia vita, ne avevo proprio bisogno.

Così, ieri mattina, avevo preso la mia valigia più grande, tutti i miei vestiti, ed ero partita.
Senza mai guardarmi indietro.

Sentivo il bisogno costante di tornare nel mio nido.
Colui che aveva ammirato le mie cadute in bicicletta quando avevo cinque anni, il mio primo amore, i miei sorrisi, i miei dolori e non mi aveva mai giudicato.

Ma più di tutti mi mancavano mia madre, mio padre e i loro abbracci.

Erano passati sei anni da quando avevo spiccato il volo ed ero atterrata a New York, con una valigia in una mano e un contratto da stagista nell'altra.

Avevo fatto gavetta ed ero riuscita a diventare una delle stiliste di moda più importanti della grande mela.

Ma non c'era stato giorno in cui non sentissi il desiderio di stare con i miei genitori.

Anche questo era uno dei motivi per cui ero tornata.
Mi sentivo un pesciolino piccolo in un acquario immenso a New York, ed ero arrivata a un'unica conclusione: ero sola con i miei pensieri e la mia disperazione.
Erano basi troppo deboli per risolvere tutto autonomamente.

Quindi, da sole quattro ore, ero atterrata in aeroporto, stanca e infreddolita.
Mi sentivo uno straccio, con un carico di bagagli non indifferente e una grande voglia di dormire.
Ma nonostante questo, avevo lasciato tutto a casa dei miei ed ero scappata a fare una passeggiata.

Immergermi nella natura, era sempre stato per me un colpo al cuore.
Il panorama era mozzafiato e, ogni volta che tornavo, mi sorprendeva con nuovi piccoli dettagli.
Cambiavano i colori, l'atmosfera, l'aria che si respirava, ma tutto dava comunque il profumo di casa.
Come se venisse coperta da una polverina magica ad ogni cambio di stagione.

Camminavo nel mio quartiere natale guardandomi intorno e mi sentivo come una bambina di fronte a un parco giochi.

Alberi di colori diversi ricordavano il foliage nel New England.
Distese arancioni, rosse, marroni e gialle riempivano gli occhi di colori naturali.
La cittadina era piccola, ma accogliente e non mancava nulla.
Amavo stare a New York, ma Stowe aveva messo radici nel mio cuore.
Un posto dove potevo rimanere a lungo senza paure.
E ne avevo molte.

Ultimamente, vivevo con il costante timore di essere seguita.

Ed era assolutamente tutta colpa di Jamie.
Da poco era diventato inquietante.
Lo trovavo nascosto nell'androne del mio palazzo, sotto le scale, all'uscita dal lavoro.
Ovunque.

Per questo avevo deciso di tornare qui.
Per non vederlo sempre.
Ci eravamo lasciati da dieci mesi e lui ancora non aveva accettato la cosa.

Mi guardavo intorno pensando a questi quattro lunghi anni passati insieme.
Era bello stare con lui, amavo le sue mani, il suo sorriso e i modi gentili con cui mi trattava.
Era il ragazzo perfetto, sempre disponibile, generoso, eccezionale in tutto.
Ma dovevo capirlo fin da subito che lui non era solo la persona che mi dimostrava di essere.

A casa, lo adoravano tutti e, come me, i miei genitori stravedevano per lui.
Due anni fa, era venuto qui a conoscere la mia famiglia.
Mamma e papà rimasero subito colpiti dai suoi modi di fare e dall'amore che vedevano nei suoi occhi, soprattutto, quando mi guardava.
Ma Lion, mio fratello minore, era un pochino restio a questo nostro rapporto.
In fondo cosa potevo aspettarmi, era sempre stato iperprotettivo nei miei confronti.

«Dove vai tutta sola?» sobbalzai all'istante, nell'udire la sua voce.

Parli del diavolo.

Lion era appena uscito dal portone di casa sua con la busta della spazzatura in mano.
Abitava da qualche anno con la sua famiglia in una villetta.
L'aveva curata con tanto amore nei minimi dettagli, insieme a sua moglie Courtney.
Ogni volta che passavo di qui, amavo guardarla, immaginando anche per me lo stesso lieto fine.
Un marito, figli e forse anche qualche cagnolino che scorrazzava per il giardino.

«Ciao anche a te, fratellone.»

«Honey! Ma quanto sei cresciuta?» disse abbracciandomi forte.

«E tu? Sei diventato grosso! Ma guarda che muscoli!» dissi tastandogli i bicipiti.

«Hai visto? Ore di palestra e sollevamento di bambine cicciottelle!»

«Dov'è la mia polpetta?»

«Sta per fare il bagnetto, fra poco potrai vederla»

«Courty è con lei o a lavoro?»

«È dentro con Emy, stanno scegliendo le paperelle e le principesse da mettere nell'acqua. Abbiamo passato mezz'ora a giocare con la farina. Mi fa diventare pazzo ogni volta... » sorrise lasciando la frase a metà.

Emy era dolce come lo zucchero filato e, allo stesso tempo, tirannica come un sovrano.
Quando aveva qualcosa in mente, non c'era nulla che potesse smuoverla.
Bellissima con i suoi occhi verdi, guance da mordere e riccioli castani, una polpetta da mangiare di baci, ma a volte anche troppo testarda come suo padre.

«Si è messa a piangere di nuovo?»

Nessuno riusciva a resistere al suo volere.
Ormai aveva capito come intenerirci: due lacrimoni, broncio dolcissimo e occhioni supplicanti.

«Sì, lo sai che non riesco a resisterle.» disse imbarazzato mentre si grattava la nuca.

Ogni settimana era la stessa storia, anche quando Emy insisteva per farmi una videochiamata si presentava con farina ovunque.

«Ma tu le hai spiegato che la farina non va sui capelli? Che cosa ci trova poi a farlo...»

«Sì l'ho fatto, ma lei mi risponde dicendo che così somiglia a nonna Emily» disse affranto.

Mi sbellicai dal ridere nel vederlo così avvilito.
Nonna Emily aveva novant'anni, era la nostra bisnonna e i suoi capelli erano bianchi, come i fiocchi di neve.

Più lo guardavo ridere e più capivo che eravamo uguali.
Occhi nocciola, capelli castani e sorriso smagliante.
Due gemelli nati con sei anni di differenza.
L'unica diversità? Era il carattere.
Io ero troppo chiusa e introversa, lui troppo espansivo e socievole.

Distolsi lo sguardo per evitare il suo nel momento in cui smise.
Era bello quando rideva, ma quando mi guardava con quegli occhi non riuscivo a reggere il confronto.
Sapevo cosa stava per chiedermi, ed ero venuta qui soprattutto per dimenticare.
Ma d'altro canto però, capivo benissimo che aveva bisogno di conoscere ogni dettaglio.

«Cosa c'è Lion? Parla! Ti conosco..» dissi catapultando i miei occhi direttamente nei suoi.

Tanto valeva prendere il toro per le corna.
Mi guardò spaesato e in difficoltà, ma poi, sospirò grattandosi la barba e parlò, deciso e fermo.

«Lo hai sentito? Ti ha cercato?»

«No» Guardai a terra afflitta.

«Lo hai denunciato?»

«Per cosa? Eh? Per delle coincidenze? Per dei messaggi anonimi?» dissi sentendo la rabbia crescere dentro di me.

«Honey, cazzo! Non sono coincidenze, ti sta stalkerando da otto mesi»

«Gli passerà vedrai, deve solo trovare un'altra donna per cui perdere la testa.»

«Finiscila di dire stronzate!» disse aprendo le mani esasperato.

C'era sempre stato, dal giorno in cui avevo ricevuto la prima minaccia di morte da parte di Jamie.
Avevo chiamato Lion per cercare aiuto, per capire cosa potessi fare, ma era solo un messaggio, anonimo per giunta.
Dopo quella volta, decisi però di non dire più niente a nessuno.

Mio fratello sapeva solo una piccola parte perché avevo sempre cercato di non farlo preoccupare e di tenere all'oscuro sia lui che la mia famiglia.
Ma non era bastato.

Il suono di una notifica del mio cellulare mi avvisò dell'arrivo di un nuovo messaggio.

Lo presi, guardai Lion e poi, con mani tremanti, lo sbloccai.

Un avviso lampeggiava tra le notifiche in arrivo.
Ormai Jamie mi aveva inviato di tutto.
Dai messaggi d'amore per riconquistarmi, alle minacce dettate da rabbia assoluta.

Ma questa volta il mio sesto senso mi diceva che faceva sul serio.
Lessi, e il sangue del mio corpo si congelò.

Anonimo:

Ti distruggerò lentamente.

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