La chat delle mamme

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Venerdì 18 novembre 2016

Quando dicono che a Cervia in inverno non succede nulla, non è propriamente vero.

Quando dicono che a Cervia in inverno molta gente non ha niente da fare, ecco, già colgono più nel segno.

Erano già i primi giorni di novembre quando Natália si trovò impelagata in una discussione che non avrebbe proprio nemmeno voluto iniziare. Era una ragazza solare e tutto sommato conciliante, ma da quando aveva avuto una figlia, la vita le era un po' cambiata: era tutto più complicato e l'assenza di aiuti esterni si faceva sentire parecchio.

Natália era una ragazza tutto sommato fatalista, e sua figlia Taíssa Avril, era un piccolo bulldozer che scorrazzava per il giardino dell'asilo, sudando come una pazza, paonazza per la maggior parte del tempo.

Taíssa Avril, che nome, ehm, bizzarro. Ma nemmeno troppo: era l'unione di Taíssa, nome proprio della nonna materna di Natália, e Avril, nome proprio di Avril Lavigne, al cui concerto, diversi anni prima, Natália aveva incontrato Leonardo.

Ah, Leonardo, l'amore della sua vita, che aveva conosciuto a quel concerto e che aveva deciso di seguire a Cervia dove lui viveva assieme ai suoi, facendo le stagioni come bagnino.

Ah, i bagnini, razza particolare. Ma Natália bene o male era riuscita a districarsi in riviera, facendo anch'essa lavori stagionali e qualche periodo in alcuni bar, ma poi nel 2014 era nata Taíssa Avril e lei si era dedicata prevalentemente a alla bambina, giacchè non è che passasse buonissimo sangue tra la coppia e i genitori di Leo, che comunque avevano passato al figlio una casa bifamigliare, con annessi affittuari che partecipavano attivamente al bilancio economico di Leo e Naty.

Taíssa Avril, che i genitori chiamavano affettuosamente Taíl, tornò a casa anche quel venerdì sudata fradicia e a Natália non rimase che pregare Nostra Signora Aparecida affinchè Taíl non passasse tutto il weekend a fare degli aerosol.

Che poi fu più o meno quello che scrisse anche Marta nella chat delle mamme dell'asilo, ma in termini piuttosto feroci.

Non è possibile che i nostri figli siano mandati fuori a sudare come bestie con queste temperature FREDDE.

Sarà l'ennesimo weekend che passeremo a curare raffreddori e bronchiti a causa del menefreghismo delle nostre amate maestre

Natália non era abituata ad avere a che fare con gente così arcigna come Marta, la mamma di un bambino che frequentava la stessa classe di Taíl che sulla chat, si stava scagliando con acredine contro le maestre d'asilo dei loro bambini.

Marta era scocciata, perché la sua idea era di passare quella sera alle terme con alcune amiche, lasciando il figlio Manuel ai genitori. Ma questi ultimi, col cazzo che le avrebbero tenuto il moccioso che in quel momento aveva muco in abbondanza e febbre a 37.5.

La donna, frustrata per il programma serale scombinato, espresse quindi il proprio disappunto, ma non ci furono molti messaggi di stima: le maestre erano tutto sommato ben volute da molti genitori della classe. Solo un'altra mamma, scocciata per aver dovuto pulire un episodio di vomito da parte del figlio, si affiancò a Marta nel lamento.

Questo appoggio diede forza alla madre del piccolo moccioso Manuel per continuare a lamentarsi, chiedere un incontro con la rappresentante e portare avanti l'idea di arginare queste insegnanti incoscienti che portavano fuori i bambini lasciandoli sudare come cipolle nel soffritto.

Ciò che fece scattare la reazione fu un messaggio piuttosto infelice:

Non è che abbiamo tutti dei figli che vengono dalla foresta amazzonica

Il senso che voleva dare Marta non era ovviamente offensivo nei confronti degli abitanti dell'Amazzonia, ma anzi voleva indicare gli amazzonici come gente resistente ai malanni di stagione, ma ebbe tutte le sembianze di uno sprezzante luogo comune, e Natália si sentì chiamata in causa.

In Amazzonia o a Cervia i bambini corrono sudano e si ammalano è così da sempre

Immediatamente partì una discussione accesa, perché Marta non era proprio disponibile ad assecondare il fatalismo di Natalia.

"Queste tizie straniere hanno 'sta cosa che eh, se i figli si ammalano è volere di Dio e noi non ci possiamo fare niente" pensava, mentre digitava furiosamente sulla tastierina virtuale del suo smartphone. Mentre i rispettivi figli tossicchiavano e colavano teneri margusi dai loro nasini, le due donne continuarono a scambiarsi messaggi sempre più accesi e punteggiati da frecciatine, senza rendersi conto di aver completamente monopolizzato la chat, dove le altre non intervenivano più da svariati quarti d'ora.

Persino la rappresentante di classe ci rinunciò, pensando che se avesse continuato a seguire quella discussione dal lavoro, il capo l'avrebbe sicuramente licenziata per nullafacenza. Era una ragazza devota al suo ruolo di rappresentante, ma quelle litigate sul nulla cosmico iniziavano a stufarla, e parecchio.

La discussione si placò quando rientrò Leonardo con il sushi che era passato a prendere come cena. Natalia appoggiò il telefono e si mise a spiegare la questione mentre terminava di fare il secondo aerosol a Taíl. Lui, che di solito delegava a lei le questioni scolastiche, si scocciò parecchio, sia perché avevano tirato in mezzo la nazionalità della sua compagna, sia perché questa Marta se l'era già sentita nominare una dozzina di volte da quando il suo bambino si era spostato nella loro classe d'asilo, a marzo. E quasi mai in maniera lusinghiera.

«Mettimi nella chat che gliene dico un paio» borbottò Leo.

«No, Leo, ti prego, meglio di no.»

«Allora dammi il suo numero.»

«Ma adesso la risolvo io» insistette lei.

«Dammi il numero, che due parole gliele voglio proprio dire. A me nessuno mi dice che mia figlia è una selvaggia.»

E così, Leonardo mandò un paio di lunghi vocali alla signora Marta, con un tono particolarmente duro, in cui sottolineava come tirare in ballo nazionalità di provenienza e stereotipi come il selvaggio amazzonico fosse un comportamento assolutamente riprovevole.

Ovviamente lui, che aveva fatto sì e no l'alberghiero, usò una terminologia un po' più semplice e, ehm, diretta. E questo non fece che ingenerare una escalation, perché poco dopo, a Leo arrivò una chiamata da un numero sconosciuto.

«Pronto?»

Lo sorprese una voce maschile e piuttosto esagitata, che parlava prendendo frequenti respironi, come se controllasse il fastidio pronto a esplodere.

«Sei te che mandi i vocali a mia moglie per una discussione che nemmeno ha avuto con te?»

«Oh, ma te che cazzo vuoi?! La discussione è su mia figlia e io mando i vocali a chi mi pare, hai capito te che non ti presenti nemmeno?»

Enrico, marito di Marta, si lasciò facilmente coinvolgere nella polemica. Era un uomo che aveva già la sua dose di stress a causa del lavoro da commercialista che aveva deciso di intraprendere in autonomia dopo anni da dipendente nel forlivese.

Non poteva mandarla giù quella cosa che uno poco più che analfabeta, che s'era presa una in Brasile, venisse a rompere i coglioni a lui e alla sua famiglia che erano gente che da sempre si era comportata in maniera rispettosa. La moglie aveva semplicemente esposto un problema serio, che era quello delle maestre che, da brave dipendenti pubbliche, se ne fregavano della qualità del loro lavoro. E tutta quella gente che cresceva i figli come le zebre della savana, non aveva certo titolo per difenderle.

«E allora manda il tuo cazzo di figlio dalle suore» replicò Leonardo, aggiungendo una bestemmia per dare l'idea dell'ossimoro.

«Vieni a dirmelo in faccia, idiota. Sei capace di fare il leone solo da telefono.»

«Benissimo» replicò Leo, trattenendo la voglia di spaccare la cornetta in testa al signor Enrico, «Ti aspetto tra un quarto d'ora al parcheggio dello stadio che la mettiamo a posto. Leone.»

Quanto tutto questo fosse assurdo, sfuggiva in quel momento alle capacità di comprensione di quei due uomini. Enrico uscì di casa come una furia, con il figlio che muggiva un «Papà ma dove vai! Sei appena tornato!»

Nemmeno Leo salutò, uscendo di gran passo, pronto a mettere fine alla discussione in maniera "maschia".

Marta, in uno slancio, mollò il figlio in casa da solo e rincorse la sua dolce metà, cercando di bloccare la partenza della vettura.

«Enry, ma che fai?! Ma sei matto?! Ma quello è capace che ti ammazza!»

«Ma smettila, è il solito ritardato che parla a vanvera. Lo sistemo io.»

Marta, a differenza di Natalia che si arrese al destino di vedere il marito tornare un po' tumefatto e insanguinato, si torse lungamente le mani, cercando di tranquillizzare il piccolo Manuel che continuava a chiedere dove fosse finito il padre. Poi prese il coraggio a due mani e chiamò i carabinieri, spiegò l'accaduto a un agente di guardia che si segnò stancamente tutte le informazioni.

«Dunque, due uomini, parcheggio antistante lo stadio. Il prima possibile. Vabbuò signora. Vedo di mandare una pattuglia a dare un'occhiata.»

Marta mise giù un po' disillusa: dato il tono dell'agente di guardia, disperava di poter sventare la scazzottata. Andò in camera, prese un borsone e preparò un cambio da usare eventualmente al pronto soccorso in caso lo tenessero in osservazione.

E invece l'agente stupì tutti, riuscendo a trovare una pattuglia da quelle parti. La gazzella arrivò al parcheggio, individuò facilmente la vettura di Enrico in un parcheggio praticamente deserto, ma dei duellanti non c'era traccia. Che si fossero diretti in pineta per picchiarsi con più calma?

Un agente scese, e con la pila, fece per avvicinarsi alla macchina, a cui era affiancata un'altra vettura, regolarmente registrata a nome di Leonardo Farina. Sentì un fitto parlottare, aggirò la vettura e trovò i due, seduti a terra, con una bottiglia di birra in mano.

I due si pararono il volto accecato dalla pila.

«Agente, che c'è?!» mugolò Enrico, quello meno sobrio dei due.

«Fornitemi le generalità, per favore» intimò l'agente, secco.

I due uomini allungarono titubanti i loro documenti di identità lamentando che non stavano facendo nulla di male. Il carabiniere comunicò al collega in macchina.

«Senti, io li ho trovati, ma si stanno facendo una birra seduti per terra»

Sentì il collega che rideva in macchina, mandandoli a cagare in abruzzese stretto. Dopo aver controllato i documenti, li restituì ai proprietari.

«Sentite, Cippecciopp, chiamate a casa che le vostre mogli stanno fuori di testa. Che dicono che dovevate menarvi.»

L'imbarazzo scese tra i due. Enrico si sentì in dovere di spiegare.

«Agente scusi. E' che io a questo lo conosco da quando eravamo alti così, eravamo grandi amici tipo trent'anni fa, all'epoca delle elementari.»

"E a me che cazzo me ne frega?" pensò l'agente, ma fece la faccia accondiscendente mentre Enrico continuava.

«E niente, ci siamo persi di vista, sa, l'università e poi lui girava per il mondo.»

Dopo un momento di imbarazzo e risatine nervose, i due uomini si misero in piedi, completamente dimentichi della questione per cui erano inizialmente convenuti lì.

«Agente, avete voglia di una birra?» chiese Leo.

«Ma scherzerà? Siamo in servizio. buona notte.» disse l'agente, tornando in macchina.

«Ma nemmeno un caffè?»

«No, ce tenete abbastanza svegli voi co' ste cazzate» replicò il carabiniere, piuttosto scocciato.

Gli altri due invece, finirono l'ultimo sorso di birra che avevano in mano e decisero di andarsene in un bar lì vicino, per passare il resto della serata insieme, riscoprendo l'amicizia che li legava da tempo.

«Ma pensa te, i figli assieme all'asilo, pensa te. Io manco pensavo di avere figli. Pensavo di prendere un cane» confessò Enrico, prendendo l'amico per le spalle.

Le mogli le avrebbero avvisate più tardi, forse.

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