8. Andrew: perchè?

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Cosa mi spingeva a comportarmi così con Liam? A fare lo stronzo? A trattarlo male? Non lo sapevo nemmeno io.

Sbuffai e voltai la testa, trovandomi faccia a faccia con Rylie. La sua camera era in penombra, le tende erano ancora tirate. Era molto presto, forse le tre, ma presto me ne sarei dovuto andare. I miei genitori non dovevano sapere che ero uscito. Sospirai pesantemente e rimasi per qualche secondo ad osservare Rylie che dormiva, successivamente mi tirai in piedi. Non avevo dormito molto, forse un'ora, e il mio corpo era al limite. Pensare che quel giorno avrei dovuto sostenere ben due allenamenti mi fece venire voglia di fingermi malato, tuttavia sapevo di non poterlo fare. Dovevo assicurarmi di rientrare il prima possibile nelle grazie del coach. Mi rivestii in fretta, per quanto riuscii, dato che i miei vestiti erano sparsi per la stanza, laddove la sera prima li avevo lanciati. Osservai per l'ultima volta Rylie, e nel farlo mi venne in mente una cosa importante, una cosa a cui avevo pensato la notte prima: non provavo nulla. Neanche per le altre ragazze che avevo frequentato, certo, ma per qualche motivo avevo cercato di convincermi che con lei fosse diverso. E invece no. Non avevo percepito nulla, né nei giorni precedenti né quella notte. Il vuoto. L'assenza di emozioni. Mentre uscivo silenziosamente dalla finestra, tornai con la mente all'infermeria. A quella sensazione di libertà, di chissà cosa, forse affetto, che avevo percepito quando le mie mani avevano sfiorato quelle di Liam. Scossi immediatamente la testa, nel tentativo di scacciare quei pensieri. No, non erano giusti. No, non era così. No, no, no. «No» ripetei mentre mettevo in moto la macchina.

I miei genitori non scoprirono nulla, per fortuna. Riuscii a intrufolarmi in casa e fingermi profondamente addormentato sotto le coperte appena prima che spalancassero la porta della mia camera per controllare fossi lì. Quel giorno, nel tragitto da casa a scuola, mi scoprii quasi triste nel ricordare di non avere nessuna lezione in comune con Liam se non ginnastica. Non comprendevo che cosa stesse accadendo, ma sapevo che doveva finire. Qualunque fosse l'emozione che suscitava quello sfigato in me, doveva smettere di condizionare la mia vita.

«Rylie!» chiamai.

Era qualche metro davanti a me, nel cortile, passeggiava chiacchierando con un paio di amiche. Quando mi sentì, si voltò. Non era felice, neanche triste o arrabbiata. Mi ero aspettato una scenata visto che me n'ero andato senza salutare, quella mattina, ma non sembrava importarle. Non provava proprio nulla, come me. Tuttavia, a differenza delle altre volte, a me importava eccome. Non di lei, ma del fatto che a nessuno dei due importasse. Mi raggiunse, lasciando indietro le sue amiche che - ne ero sicuro - avrebbero origliato l'intera discussione. «Ciao».

Si sporse per baciarmi, ma io lasciai solo che le nostre labbra si sfiorassero per qualche secondo prima di prenderla per le spalle e spingerla gentilmente indietro. Mi guardò, con aria interrogativa.

«Non possiamo più vederci».

La mia voce era fredda, apatica, roca. Non sapevo più cosa provavo, chi ero. Ero confuso come mai ero stato in tutta la mia vita. Le uniche cose sicure erano due: il mio bisogno di mettere un punto alla mia relazione con Rylie, e il mio odio verso Liam Anderson.

Rylie sembrò sul punto di protestare, tuttavia si fermò poco prima di pronunciare anche solo una parola, come ricordandosi di dover mantenere un certo contegno. Raddrizzò le spalle, inarcò le sopracciglia, e disse: «Okay».

Non mi lasciò rispondere, mi voltò le spalle e, facendo in modo di mettere più in mostra possibile le sue forme, ritornò dalle sue amiche. Quel suo comportamento non fece altro che confermare ciò che pensavo: avevo fatto la cosa giusta. Mi allontanai in fretta.

«Andrew!» mi chiamò Mason, però io non mi fermai, nè guardai dalla sua parte. Procedetti in fretta, attraversando i corridoi della scuola, bianchi e spogli come fossimo in un ospedale. Non vedevo le persone che sfilavano attorno a me, non sentivo le voci degli altri studenti, udii a malapena la campanella. Mi ritrovai nel bagno, non mi preoccupai nemmeno di chiedermi perché fossi andato proprio lì. Mi accasciai a terra, in un angolo e, prima che potessi riprendere il controllo di me stesso, le lacrime cominciarono a pizzicarmi gli occhi. Non sapevo perché stessi piangendo, non sapevo più nulla; non ero più sicuro di chi fossi e di ciò che volevo. Venni scosso da violenti singhiozzi, l'unico suono era il mio incessante pianto.

Perché, perché, perché, continuavo a ripetere come una cantilena, che cosa mi sta succedendo?

All'improvviso non sapevo più chi ero. In poco più di una settimana tutta la mia vita era stata sconvolta, e da che cosa poi? Uno sfigato senza importanza. O meglio, che non avrebbe dovuto avere importanza. Dio, quanto lo odiavo! Avrei voluto picchiarlo, rompergli il naso e tutte le ossa del corpo. Desideravo fargliela pagare, anche se non aveva colpe. Dovevo sfogarmi con qualcuno, e lui era certamente la vittima più facile. Proprio mentre immaginavo il suo sangue scorrere dal naso a seguito di un pugno, sentii lo scattare di una serratura. Mi irrigidii, non volevo farmi vedere mentre piangevo. Neanche all'asilo qualcuno aveva potuto intravedere un mio momento di debolezza; non accadevano spesso ma, quando succedeva, stavo ben attento ad essere completamente da solo. Per di più, solitamente sfogavo quel tipo di emozioni trasformandole in rabbia e utilizzandole per darmi forza nel correre o nel basket.

La porta di uno dei gabinetti disposti frontalmente rispetto a me si aprì. Tentai disperatamente di asciugare le lacrime che mi rigavano il viso, ma poi mi immobilizzai; mi trovavo davanti a Liam. Sembrava più a disagio di me; si strinse le braccia al petto, come per proteggersi, e spalancò gli occhi. La felpa che indossava gli stava enorme, era almeno tre taglie più grandi. Chissà perché lo stavo notando in quel momento.

«Che hai da guardare?» ringhiai tirandomi in piedi.

Liam trasalì, fece per muovere un passo indietro, tuttavia si accorse che la porta del gabinetto si era chiusa dietro di lui. «Ehm... N-non... I-io...»

«Vattene» sibilai stringendo i pugni.

La mia tristezza si era trasformata, come soleva fare, in una rabbia accecante, che ora premeva per uscire ed essere sfogata.

Liam chiuse gli occhi. Sembrò concentrarsi molto ma, dopo qualche secondo, riuscì a dire: «Perché stavi piangendo?»

«E a te che importa? Fatti i cazzi tuoi» ribattei acido.

Liam abbassò lo sguardo e annuì. Sembrò voler aggiungere qualcosa, poi però ci ripensò e uscì in fretta. Con lui evaporò anche la mia rabbia, e mi accasciai di nuovo a terra. 

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