Capitolo 3

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Sto leggendo sulla poltrona accanto al letto di Anastasia, dopo un lungo turno in corsia. Amo il mio lavoro: riuscire ad aiutare le persone rende più leggeri e sapere che sono nelle mie mani mi fa sentire invincibile come se fossi padrona del loro destino anche se, ora, ogni volta che giro per le stanze dei pazienti, sono costretta a reprimere un senso di nausea che pervade ogni singola cellula del mio corpo.
Ero un'infermiera piena di entusiasmo che sapeva rassicurare e regalare un sorriso a chiunque incrociasse sul suo cammino, adesso mi trascino lungo i corridoi con lo sguardo vacuo e spento limitandomi a fare il mio lavoro.
Ho dovuto spegnere le emozioni per evitare di annegare nel buio totale. Fingo che tutto vada bene, ma lo sguardo di compassione dei colleghi e degli amici mi fa capire che non sono brava a mentire.
Metto il libro sul comodino, accantono quei pensieri, prendo il cellulare e scrivo a mio cugino: "Sai se ci sono delle corse stasera?"
La risposta arriva quasi immediatamente: "Torni di nuovo a correre? Sai che non aspettavano altro! Alle 00.00 al Bar Anna!"
"Sì, torno a correre. Ci vediamo stasera!"
Quando sono rimasta incinta con Marco avevamo deciso di usare le moto solo per viaggiare o semplicemente per farci un giro e non partecipare più alle gare clandestine. Avevamo fatto un patto: nessuno dei due avrebbe messo in pericolo la propria vita.
Sospiro e mi lasco andare contro lo schienale della poltrona. Non mi importa di infrangere quella promessa, non mi importa più di nulla.
Saluto Anastasia con un bacio sulla fronte e mi avvio verso l'uscita.

Sono in garage da una decina di minuti e sto fissando il telo bianco che ricopre le nostre moto. Ho le braccia incrociate al petto come se quel gesto potesse attenuare il nodo che si è formato alla bocca dello stomaco.
«Oh, al diavolo! Non sei qui e non mi farei sentire in colpa!»
Mi avvicino alla mia Honda e alla sua Yamaha, tolgo il lenzuolo che le nasconde. Un alone di polvere si alza e inizio a tossire. Le osservo, accarezzo la sella della mia, ci salgo, ma quando mi volto verso la Yamaha è come se mi richiamasse. Ho deciso: stasera correrò con la sua.
Mi metto il casco e salgo sulla moto di Marco, poi parto lasciandomi alle spalle la porta del garage che si chiude.
Aumento la velocità, l'adrenalina mi accende e sono di nuovo libera, spensierata.

Prima di arrivare al Bar Anna decido di fare un giro dell'isolato per provare la moto: ne testo la tenuta di strada accelerando e decelerando. Poco prima della curva ne appuro la staccata, poi la inclino, un po' troppo e quasi assaggio l'asfalto. Per un attimo trattengo il respiro e sudo freddo. Rimetto in linea la moto prima di trovarmi a fare un dritto o meglio trovarmi con il sedere per terra.
Aumento la velocità e verifico la trazione: è leggermente diversa dalla mia Honda, che essendo più leggera scivola meglio.
Per prendere confidenza con le curve e allenarmi a inclinare la moto decido di percorrere la strada verso San Luca.
Faccio la prima curva, tremo un po' ma riprendo subito il controllo.
Un'altra ancora: questa volta eseguo una piega perfetta così decido di aumentare la velocità. Più acquisto sicurezza, più giro la manopola dell'acceleratore. Dopo vari tornanti arrivo in cima. Mi fermo ad ammirare il sole che sparisce dietro i colli bolognesi tingendo di rosso e viola il cielo azzurro. Bologna vista da quell'altezza è magica e si rivela una bellezza tinta di rosso.
Soddisfatta mi dirigo verso il punto di ritrovo che raggiungo poco dopo.
Brando vedendomi arrivare si avvicina. «Guarda chi si rivede! Finalmente sei tornata, Fiamma!»
Mi tolgo il casco e gli sorrido spavalda. «Pronto a mangiare la polvere?»
Ride. «Non credi di essere un po' arrugginita? È molto tempo che non corri.»
«Lo credi tu che sia arrugginita. Vedremo chi ha ragione o torto.»
Vedo Federico e gli faccio un cenno con la mano, lui colma la distanza che ci separa e mi avvolge tra le sue braccia. «Ben tornata, Fiamma!»
Cerco tra la gente Anna, ma non la vedo. «Anna?» chiedo a mio cugino.
«A casa, i sui genitori non hanno potuto tenere Grace.»
«Peccato... allora sta volta di che si tratta?»
«Siamo tutti contro tutti, niente squadre. Dieci kilometri, un solo giro.»
«Afferrato! Che vinca il migliore, anche se sappiamo che sono io.»
Alza gli occhi al cielo e stringe la mano che gli avevo teso. «Staremo a vedere.»
Mi posiziono, mentre una ragazza vestita con una minigonna in pelle e un top bianco sventola una bandiera.
«Tre...»
Abbasso la visiera del casco.
«Due...»
Le dita accarezzano il manubrio.
«Uno...»
I motori iniziano a rombare.
«Via!»
Accelero e parto. Sta volta cambio strategia: gli farò credere di potermi battere, ma poi aumenterò la velocità sul rettilineo.
Osservo la strada quasi annoiata. Ecco la prima curva, inclino corpo e moto come se fossimo un'unica cosa. Il ginocchio sfiora l'asfalto e scariche elettriche invadono ogni muscolo. Mi sento viva. Un'altra curva, ripeto i movimenti di pochi secondi prima ed eccolo che si staglia davanti a me il rettilineo finale. Porto la moto al massimo della velocità. Il vento sferza ogni parte del corpo. Una figura si staglia davanti a me. Inizialmente non lo riconosco, ma mano a mano che mi avvicino i suoi lineamenti diventano sempre più definiti. È Marco. Ha il suo casco in mano e mi guarda assottigliando lo sguardo.
«Lo avevi promesso, Fiamma.»
La sua voce è nitida e un brivido percorre la schiena.
«Fottiti! Non ci sei!»
Aumento la velocità, mentre le lacrime appanno la vista.
Mi avvicino sempre di più a lui e noto solo ora che abbiamo lo stesso giubbotto di pelle: il suo preferito con un lupo sulla parte dietro.
Urlo: «Spostati, idiota!»
Sto per investirlo. Allungo una mano per afferrarlo, poi sterzo e per un istante perdo il controllo della moto e lui si volatilizza nel nulla.
Gli altri approfittano di quel momento per superarmi, ormai al traguardo manca poco.
"Nessuno batte Fiamma."
Ritorno a osservare la strada, cerco di recuperare il distacco che mi separa dagli altri, non ci riesco. Ho perso, ma non mi importa. Sgommo e vado via.

Le lacrime scendono copiose, percorro le strade bolognesi senza una meta reale fin quando non fermo la moto e mi accorgo di essere arrivata nel nostro posto preferito. Il luogo dove venivamo sempre dopo una gara.
È un grande prato da cui si può vedere San Luca che si staglia sopra Bologna come a volerla proteggere in un abbraccio. La città lentamente si sta spegnendo preparandosi ad essere avvolta dal torpore notturno.
Scendo dalla Yamaha, apro la sella con la chiave e prendo la coperta che Marco teneva sempre lì dentro, la sistemo sul prato e mi ci sdraio sopra osservando il cielo.
È tutto avvolto nel silenzio, quasi assordante e non posso far altro che ascoltare il rumore dei miei pensieri.
Mi asciugo malamente le lacrime, poi chiudo gli occhi e quasi mi sembra di sentire le dita di Marco sfiorarmi il braccio e improvvisamente vengo catapultata a quella prima volta in cui mi ha portato in questo posto.

Ho la stesa appoggiata sul petto di Marco, mentre un suo braccio mi circonda il collo.
Le nostre dita sono intrecciate.
«Comunque vada con me» dice con tono leggero, quasi un soffio.
Io alzo leggermente il viso senza staccarmi da lui e lo guardo frastornata.
Mi bacia con veemenza, in modo quasi famelico come se avesse paura che sparissi da un momento all'altro.

"Pensavi che me ne sarai andata, ma invece lo hai fatto tu e ora mi ritrovo a fare i conti con un vortice di vuoto nel petto."

Ci stacchiamo per riprendere fiato. «Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che comunque andrà la nostra relazione, porterò sempre una parte di te con me.»
Mi alzo di scatto. «Cos'è un modo carino per lasciarmi?»
Scuote la testa e mi prende il viso tra le mani. «No, scema, vuol dire che sarai sempre con me. Non sono uno che crede nell'amore eterno perciò qualunque cosa accadrà sarai sempre con me.»
Sospiro e lo bacio appassionatamente, non avrei mai ricevuto un'altra dichiarazione bella come quella.
«Marco Guglielmi anche io ti porterò sempre con me, comunque vada.» Mi tocco il petto all'altezza del cuore. «Proprio qui.»
Mi prende la mano. «Promettimelo...»
Annuisco e lui fonde le mie labbra con le sue a suggellamento di quel patto.

«Quante volte abbiamo ripetuto quella frase, eh Marco?» dico alle stelle.
Dal quel giorno se non la sussurravo io, era lui a farlo come se entrambi volessimo imprimerla sulla pelle dell'altro.
In risposta alla mia domanda il vento si alza e accarezza ogni parte del mio corpo facendomi rabbrividire perché quel tocco è così simile al suo. Chiudo gli occhi.
"Sì, ti sei portato con te una parte di me, la migliore."

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