21 - INCONTRI IMPREVISTI (1)

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La mattina di sabato 18 giugno iniziò con un sole caldo e luminoso, appiccicato a un cielo terso completamente privo di nuvole. Tutta Italia era stretta in un'opprimente morsa di caldo record e anche nella vallata dell'FDS le temperature erano più elevate del solito. Alberto aveva dormito fino a tardi, era stato un po' al fiume, seduto sulla riva e, dopo pranzo, aveva deciso di fare una delle sue solite passeggiate fino alla radura, per cercare di distogliere i pensieri dalla sempre più gravosa mancanza che aveva di Francesca. Nell'ultimo mese era venuta alla baita appena tre volte, rimanendoci mai più di due ore e, dall'ultima visita, erano già passati dieci giorni. Riuscivano a sentirsi tutti i giorni, ma i suoi impegni in quel periodo erano veramente assillanti. «Lunedì arriva l'ultimo detenuto. Dopo avrò finalmente un po' di respiro e, direi mercoledì, massimo giovedì, possiamo andarcene a Bologna» gli aveva detto la sera prima.

Trottava di buon passo, su per il "Panoramico", immerso nei suoi pensieri. Si sentiva ormai veramente un uomo nuovo; l'amore che provava per Francesca, carnale all'inizio, ma profondo e coinvolgente adesso, la pazienza con cui sopportava la sua assenza, la nostalgia che lo prendeva, a volte in maniera quasi insopportabile, erano tutte situazioni in cui non si era mai trovato, abituato, com'era sempre stato, a ritenersi un libero battitore, sfrontato e selvaggio. "E guarda a cosa ti ha portato!" pensava, sentendo il cuore schiacciato dai sensi di colpa. L'ombra dei suoi delitti l'accompagnava sempre e quando si accorgeva di essere un uomo felice, subito s'incupiva, timoroso di non meritarlo. Ne aveva parlato con Franco, che, con sua grande gioia, migliorava ogni giorno di più.

«Non crucciarti più di tanto. In parte hai già un po' espiato e presto avrai l'occasione di epurarti del tutto.» gli disse, fissandolo da dietro le lenti dei suoi occhiali, con i suoi occhi che erano quasi tornati del loro azzurro originale. Aprì il comodino e prese un libro. «Leggi questo. È il mio preferito.» Alberto prese la copia di Delitto e castigo, guardando la copertina perplesso. «Sei un po' come Raskòlnikov, però al contrario.» Sorrise. «È il protagonista...» aggiunse poi, notando la sua faccia interrogativa. Erano passate quasi due settimane, ma ancora non l'aveva iniziato.

Erano le prime ore del pomeriggio e il sole picchiava abbastanza duro. Non c'era umidità in quella zona ma la temperatura era comunque salita a livelli inusuali e già dopo quindici minuti di cammino era tutto sudato. Non pensare a Francesca era un'impresa ardua. Ogni cosa che aveva intorno gliela ricordava; erano stati lì insieme tante volte, i primi giorni. Una volta, travolti da un'improvvisa ventata di passione, si erano inoltrati nel bosco lasciando il sentiero e avevano fatto l'amore appoggiati a un albero. Il ricordo era sensuale e dolce allo stesso tempo e l'erezione non tardò ad arrivare. Si fermò e bevve una sorsata dalla borraccia, provando a sovrapporre altri pensieri a quelli, così cari. "Ragioniamo un po' sui nove, dai!" s'impose, mentre riprendeva la marcia. Ma c'era poco da pensare. Era tutto fermo e piuttosto indefinito da un po' ormai. Aveva provato a fare altre ricerche su Gualandi e l'americana, gli unici due di cui non avevano alcuna notizia, ma invano. Gli altri erano in "standby", come solevano dire quelli smaniosi di infarcire la lingua italiana di termini inglesi. Francesca gli aveva raccontato della inaspettata telefonata di Gallo, che apriva interessanti scenari, ma tutto era rimandato alla loro visita a Bologna. Il corpo nudo della sua donna rifece quindi capolino nella sua mente, i suoi occhi azzurri, quel suo sorriso, così particolare, che spuntava dagli incisivi, più grandi della norma, il neo sul mento che tante volte aveva baciato, il collo, lungo e affusolato...

Inciampò in una radice e per poco non cadde. «Cazzo, Alby!» disse, a voce alta. Dal cespuglio a fianco un uccello sfrecciò in su, sbattendo le ali con forza. Sussultò per lo spavento e per poco non rischiò ancora di cadere. Fu travolto improvvisamente da un inquietante dejà vu, guardando il volatile sparire dietro i rami. "Che uccello sarà?" si chiese, cercando di ignorare la vocina, insinuata nel cervello, che gli sussurrava di conoscere già la risposta, pur non essendo un ornitologo esperto. Scrollò la testa mentre la parola "coturnice" rimbombava in lui, inesorabile. Si guardò attorno con uno sgradevole senso di disagio che gli stava crescendo dentro. Bevve un'altra sorsata. «Piantala! Non farti suggestionare.» si disse, senza convincersi. Riprese il cammino ma una cappa di strana irrealtà era calata su tutta la zona, mescolata al caldo che si sprigionava dalla palla gialla che tremolava, alta nel cielo. D'un tratto Alberto era riuscito a non pensare più alla sua Francesca, ma già rimpiangeva quei momenti. Un turbinio di paura mista ad ansia vorticava in lui, ma non riusciva a capire cosa lo provocasse. Sentì urgente il bisogno di arrivare alla radura, come se là potesse smorzare tutte quelle brutte sensazioni. Allungò il passo, incurante del sudore che aumentava, della fatica che lo avvolgeva. Voleva arrivare lassù, più in fretta possibile.


Franco si era appisolato, col libro appoggiato sul petto. Un raggio di sole filtrava dall'unico spazio lasciato dalla tenda tirata e tagliava la penombra della camera con una striscia luminosa che passava proprio sulle mani del vecchio. Il suo sonno era inquieto, qualcosa lo turbava, facendogli sbattere velocemente le palpebre a scatti. Si lamentava a fil di voce, e, agitandosi, fece cadere il libro. Aprì gli occhi all'improvviso. Tutto era diventato grigio, nessuna luce filtrava più dalla finestra e un brivido, vivo e strisciante come un serpente, gli corse giù per la schiena. «Monica!» chiamò, ma quasi senza emettere fiato. Si accorse di avere la gola secca e di essere terrorizzato dalla paura. «Monica!» riprovò, con più forza. «Monica! MONICA!»


Chiudere gli occhi a volte può essere rischioso. Ovviamente, se lo si fa mentre si cammina, si corre o si guida. Ma a volta anche se si è fermi immobili, perchè si sa cosa guardavano gli occhi prima, ma non si può sapere cosa ci si ritroverà a riaprirli. Ma nessuno, mai, con assoluta certezza, può avere timore a sbattere le palpebre, perché il movimento è talmente istantaneo che è sicuro al cento per cento di ritrovare la stessa, identica immagine lasciata. Per questo Alberto fu colto da vero terrore, quando a poche curve dalla radura, dopo una delle innumerevoli volte che aveva sbattuto le ciglia, più del dovuto anche a causa del sudore che gocciolava dalla fronte, non trovò più il sole e il cielo azzurro, ma grigio ovunque, sopra e intorno a lui, e una leggera ma fitta pioggerellina che appesantiva tutto. Anche il caldo sulla pelle era svanito di colpo, sostituito da un'aria fredda che, insieme al crescente stato di paura, gli rizzò i peli del braccio. E nel preciso istante in cui realizzava cosa stesse accadendo, sentì un "pop" sopra di lui, e vide una scia, formatasi all'improvviso in un punto imprecisato, solcare il cielo, cadere silenziosamente a una velocità irrealmente lenta e sparire dietro gli alberi. Era tutto, stranamente noto e il terrore lo calò in un pozzo d'irrealtà, in cui tutto era sfocato e ovattato. «No, no! Cazzo! Non ora!» Si mise a correre verso la radura, ma si arrestò poco prima di arrivarci, inchiodato al suolo da un urlo, potente, pieno di disperazione, di paura. La pelle d'oca che lo investì fu la più forte che avesse mai provato in vita sua e non fu piacevole. Sembrava che qualcuno, dietro di lui, gli avesse gettato sulle spalle un mantello pesantissimo fatto di freddo e di pioggia, senza nessuna premura. Con un'ansia sempre più crescente riprese a correre, raggiunse la radura, ma la trovò deserta. Avanzò qualche passo, guardandosi attorno; sembrava tutto tranquillo, ma era evidente non fosse così. Il tempo era cambiato all'improvviso, cosa normale in montagna, ma non in quella maniera. E quell'urlo... Aveva già vissuto tutto questo, seppur leggendo parole scritte in un libro. Era già successo, tanti anni prima, in quello stesso luogo. Solo che allora Augusto trovò una donna, venuta in pace, per avvertirli di un futuro, sconvolgente pericolo. Adesso erano alla resa dei conti! Nulla davanti ai suoi occhi confermava i suoi pensieri, ma lui lo sapeva, il suo cuore lo sapeva, la pelle d'oca costante, che dalla base del collo s'irradiava in tutto il suo corpo, lo sapeva! La radura era vuota, silenziosa, immobile sotto a quella fitta pioggerella e comunicava ad Alberto angoscia e una terribile sensazione di catastrofe imminente. Stava per girarsi e correre alla baita, quando una strana eco giunse dall'interno della grotta, un rumore sordo e leggero, quasi un ronzio di mille api tutte assieme, che aumentava a poco a poco. Alberto fece qualche passo verso l'ingresso, tenendosi comunque a una certa distanza, chiedendosi se realmente fosse lì in quel momento o se fosse solo un bruttissimo incubo che stava vivendo, addormentato nel suo letto. Il rumore era bassissimo e sembrava molto lontano; era vagamente ipnotico e portava a pensare veramente di essere in un sogno. Sennonché, emettendo lo stesso basso ronzio, qualcosa sbucò fuori dalla grotta e s'involò nel cielo. Era una grossa palla meccanica (o così pareva), grande appena più di una palla da demolizione, completamente viola, seguita da quattro pannelli, più lunghi che larghi. Alberto spalancò gli occhi e indietreggiò di colpo, inciampando e cadendo lungo disteso. Vide gli oggetti volare in alto, verso la cima delle montagne sovrastanti. Deglutendo si rialzò, guardando con terrore quelle cose arrivare lassù e fermarsi, immobili, sotto la pioggia. Poi successe qualcosa. Li vide sfrigolare in un bagliore di un arancione molto scuro, che a tratti pareva un rosso sangue, e ingrandirsi di colpo, dominando la valle con un'imponenza, terribile e magnifica allo stesso tempo. Circondati da quella luce accecante ed emettendo lo stesso brusio che li aveva annunciati all'interno della grotta, si mossero, veloci, ma non quanto ci si poteva aspettare. Completamente impietrito Alberto li fissava, consapevole che avrebbe dovuto muovere i piedi e correre alla baita ad avvertire Franco. Si mosse solo quando gli oggetti erano ormai cinque punti luminosi in lontananza. Aveva smesso di piovere ed era tornato il sole, ma Alberto, correndo come un matto giù per il sentiero, non se n'era nemmeno accorto.


«Devo andare da lei! Subito!» Alberto camminava freneticamente, sudato fradicio, avanti e indietro, all'interno della stanza nascosta sotto la sua camera, davanti a Franco e a Monica, seduta su una sedia. La donna era pallida, e aveva per il momento accantonato il suo solito sguardo sicuro.

«Calmati Alberto. Calmati, ti prego. Mi ha chiamato appena prima del messaggio. Stavano tutti bene.» cercò di consolarlo il vecchio. «Aveva detto di chiamarla appena rientravi, ma non si può più. Voleva raggiungerci entro sera, ma coi cellulari morti... Non so...»

Alberto era arrivato, angosciato e trafelato, quasi ruzzolando giù dal sentiero. Aveva aumentato il passo quando nel cielo erano comparse delle strane strisce arancioni, come le scie lasciate dagli aerei. Andavano in ogni direzione, alcune erano altissime nel cielo, altre più basse, ma chi le lasciasse, non si capiva. Monica lo aspettava nel prato davanti alla baita, con impazienza. Insieme a Franco, aveva appena finito di ascoltare lo strano, ma terribile messaggio del fratello alieno, sul cellulare del vecchio. Dopodiché tutti i dispositivi si erano spenti. L'aveva accolto con un'espressione di puro panico dipinto sulla faccia, un'espressione che la faceva quasi sembrare un'altra persona. Guardava in su, la volta ormai completamente infiammata d'arancio.

«L'ho visto...» aveva detto Alberto.

«Vieni dentro.» aveva risposto lei, con un fil di voce. L'aveva guidato in camera; la botola sotto il letto era aperta. Franco, seduto sulla sua carrozzina, li attendeva con la testa immersa tra le mani. Si era tirato su quando erano entrati. Gli occhi erano tornati grigi, velati di lacrime. «È arrivato, quindi. E noi non siamo pronti! L'hai visto alla radura, vero? Te lo leggo in faccia!» Alberto aveva annuito e aveva sentito il cuore sprofondargli fin sotto i piedi.

«Fisicamente no, ma ho visto delle macchine uscire dalla grotta.» Aveva raccontato brevemente la sua avventura. «Cosa ha fatto?» aveva chiesto, infine.

Monica piangeva mentre il viso di Franco pareva più stravolto di quando era stato a un passo dalla morte, in un letto d'ospedale. Alberto intuiva che era successo qualcosa di terribile, prima ancora che gli venisse detto cosa. Gli avevano raccontato del robot, della distruzione del centro di Bologna e delle sicure migliaia di morti che aveva provocato. Il robot che lui aveva visto uscire, scomposto, dalla grotta. Adesso lo capiva. «Che bastardo!» Gli avevano riferito poi del messaggio che aveva sparato fuori dai dispositivi, per poi zittirli tutti, subito dopo, rendendoli di fatto, sordi, ciechi e muti. Alberto si era lasciato cadere sul letto.

«Ha fatto in maniera che non si sappia più nulla di quello che sta succedendo.» aveva aggiunto Franco. «E di quello che succederà. Ha messo fuori uso tutto: telefoni, computer, tablet, radio, tutto! Tutto spento! Al momento i telefoni servono giusto per vedere l'orario. Non so come abbia fatto, ma ho intenzione di scoprirlo. Alieno o no, in qualche modo avrà lasciato qualche traccia nelle nostre reti...»

«E le telecamere? I monitor funzionano?»

Franco si era voltato e aveva acceso il pannello dietro di lui, lo stesso che aveva usato Alberto. I quattro monitor si erano illuminati, mostrando i pezzi di radura inquadrati dalle telecamere. «È un circuito interno questo.»

«E adesso? Cosa succederà?»

«Si prenderà l'energia. È venuto qua per questo. Ha detto che riceveremo la visita di qualcuno, e io credo si riferisca all'esercito citato dalla donna. Ricordi nel racconto? Prima di sparire, ha biascicato qualcosa su un esercito creato per succhiare l'energia da ognuno di noi. Entrando sempre nel mio magico mondo delle supposizioni, sospetto che il servo, una volta giunto sul fondo della grotta, ovunque gli sia stato ordinato d'andare, abbia generato in qualche modo qualcosa incaricato a questo compito. Mi dice Monica che là fuori sono un'infinità.»

«Hanno coperto del tutto l'azzurro del cielo.» Alberto continuava, meccanicamente, a lisciarsi i capelli all'indietro. «Secondo te, quindi, ognuna di quelle scie è prodotta da una delle macchine che compongono questo esercito?»

«Esattamente!»

«E il servo? Che fine ha fatto?»

Franco aveva tossito mentre ridacchiava nervosamente. «Forse lui stesso si è scisso in quei cosi, chi lo sa! Hai detto che la palla e i pannelli si sono ingranditi, una volta usciti dalla grotta. Potrebbe essere successa la stessa cosa.»

«Oddio! Siamo tutti in pericolo, allora.» Monica li aveva interrotti con la voce tremante dal panico. Si era seduta sulla sedia, bianca come un lenzuolo. «Dobbiamo scappare! Nasconderci.»

«Siamo già nascosti.» aveva detto Franco, guardandola con aria stranita. «Credo che non troveremmo un nascondiglio più sicuro di questo da nessuna parte. E qui posso anche lavorare; cercare di capire come ha annientato i nostri sistemi di comunicazione e tentare di ripristinarli, o almeno trovare qualcosa di alternativo.»

«Franco, lei deve riposare. Si ricordi cosa le ha detto il medico.»

«Riposare? Potremmo essere tutti morti entro sera e dovrei riposare!» Il tono di Franco era brusco, come raramente Alberto l'aveva sentito. Monica era rimasta zitta, a occhi bassi. L'arrivo del fratello sembrava avere spento ogni fiamma ardesse dentro di lei. E vedere quel donnone, solitamente energico, ironica, sicura di sé, seduta su quella sedia con lo sguardo dimesso, afflosciata come un sacco vuoto, faceva male al cuore e smorzava qualsiasi timida speranza avesse l'ardore di brillare.

«Ha distrutto Bologna come avvertimento e dimostrazione di ciò che è capace di fare e adesso ha scatenato i suoi soldati!» aveva continuato Franco.

«Bologna! Sempre Bologna! È una coincidenza vero? Nicolas, le guarigioni, gli scrigni... Tutto là! Adesso pure questo...»

«Non fare confusione Alberto, non più di quella che c'è già! Le guarigioni sono avvenute a Bologna, esclusivamente perché Nicolas si è trasferito lì per studiare. Se fosse andato a Milano, avremmo gli scrigni là probabilmente.»

«Va bene... Però perché l'alieno ha scelto proprio Bologna per fare la sua dimostrazione?»

«È una conseguenza della venuta della sorella, Alberto. Credo che sia arrivata su alla radura per puro caso. Poteva giungere ovunque, è arrivata qui. Ma il servo e questo tizio, no! Loro non sono venuti qui per caso. Ti ricordi nel racconto, cosa ha detto la donna? Uno degli ultimi rantoli, prima di sparire...»

Alberto aveva scosso la testa. «Perdonami, Franco, non me lo ricordo a memoria.»

«Mmm... Ha detto che sarebbero arrivati lì, proprio dov'era giunta lei, obbligati a seguire la strada che aveva tracciato. Era un concetto che avevamo già chiarito però!»

«Perdonami, Franco... Non mi ricordavo...» Alberto era un po' seccato dal tono del vecchio, reputando che il fatto di non ricordare un minuscolo passaggio del racconto non fosse di prioritaria importanza, soprattutto in quel momento.

«Nel messaggio ha detto chiaramente che cercava una città con una torre.» aveva proseguito il professore, non notando il fastidio sul viso di Alberto. «Bologna non è lontanissima da qua. Questa, forse, è una coincidenza.»

«Perché questi fantomatici soldati non sono ancora arrivati qui?»

«Questo non lo so! Non ho la risposta a tutto. A dire il vero, ne ho molto poche di risposte!»

«E Francesca?»

«Hanno modo di nascondersi anche loro, su all'abbazia.»

Qui Alberto si era alzato e aveva iniziato a marciare su e giù per la stanza.

«Non posso rimanere rintanato qui come un animale. Ho bisogno di sapere se sta bene.»

«Sicuramente! E devi anche formare la squadra. Abbiamo esitato troppo. Io ho esitato troppo.» disse Franco, battendo il pugno sul bracciolo della carrozzina. «Vai da lei, e insieme andate a cercare gli altri otto.» Gli luccicavano gli occhi, forse ancora per le lacrime che aveva versato. «Dovete trovarli, convincerli, minacciarli se serve e poi tornare qui. Non abbiamo più tempo per nulla, nemmeno per pensare a un piano. Dovete agire e basta.» Le lacrime si erano rinnovate e stavano scendendo, lentamente, sulle sue guance.

Alberto si fermò davanti a lui. «Se sono ancora vivi, e non lo sappiamo, ci vorranno settimane, mesi. Uno di loro vive all'Isola d'Elba, Franco. Una è morta e non sappiamo se e a chi ha trasmesso la sua energia. Di due non sappiamo assolutamente nulla. Niente di niente. Se Beatrix Johnson vivesse in America... come facciamo? Senza dimenticare che nel frattempo un'orda di chissà che, ci dà la caccia!»

«Dio mio!» Monica appoggiò i gomiti sulla tavola, nascondendo il viso tra le mani.

«Lo so, lo so! È tutto tremendamente impossibile. Mi chiedo ancora perché non li ho cercati io, in tutti questi anni.» Si asciugò le lacrime con un fazzoletto. Quando tirò su la testa, Alberto giurò di aver visto un luccichio azzurro negli occhi del vecchio. «Eppure, io ci credo. E anche tu devi! C'è sempre speranza. Ricordati che il tizio, quasi sicuramente, non sa che il potere della sorella è qui, custodito, anche se male, da noi.»

«Ma per quanto ne sappiamo, potrebbe recuperare la sua energia in giornata, lasciare dei cadaveri ovunque e ripartire domani. Cosa servirebbe la nostra missione a quel punto?»

«No, non credo abbia tutta questa fretta. Molti, come noi, si saranno nascosti o si nasconderanno. Lui vuole tutta l'energia del pianeta; probabilmente la maggioranza dell'intera umanità verrà catturata subito. Perdiana, sta già catturando! Poi andrà a cercare gli altri. Infine, immagino si dedicherà a piante e animali. No! Dubito che domani abbia finito. L'avidità e la superbia potrebbero essere il suo tallone d'Achille.» Sorrise. «Immagino che tu non lo ricordi, ma nel racconto di Augusto, la donna lo dice. L'ultima cosa che ha vagheggiato...»

«Ipotesi, ovviamente?» Franco rimase in silenzio, guardandolo con sguardo ferito. «Scusa Franco, mi è scappato.»

«No, no, hai ragione. Tutta questa storia è sempre stata basata solo su ipotesi. Ma quali certezze abbiamo mai avuto? Anche adesso che è arrivato, non ne abbiamo. Dobbiamo tentare, finché è qua. Se rimaniamo immobili abbiamo zero possibilità, ma provando, forse...»

«Va bene, Franco. Lo farò.» Si fissarono per qualche secondo. Poi Alberto abbassò un momento lo sguardo. «Volevo chiederti...» esitò.

«Sì. Cosa?» Franco aggrottò le sopracciglia. «Cosa vuoi chiedermi Alberto?»

«Quei cosi, giù... Quelle macchine che dovremmo guidare... Sono già pronte?»

«Da quant'è che vuoi farmi questa domanda?» Il vecchio stava sorridendo, ma Alberto non rispose. L'ultima e unica volta che avevano parlato di questo argomento, avevano discusso. «Certo che sono pronte. Già da diverso tempo. Ma non devi pensare a questo adesso, perché, quei cosi, come li chiami tu, sono solo una montagna di ferro inutile senza voi nove. Capisci?» Alberto annuì.

Voleva bene a Franco e si fidava di lui. Ma non riteneva possibile vincere nel modo in cui l'aveva pensato. Gli era parso subito ovvio, non appena aveva scoperto cosa avesse costruito; ne era ancor più convinto ora, dopo che gli avevano raccontato come l'invasore alieno aveva distrutto in pochi minuti l'intero centro di una città. Non aveva visto nessuna immagine, nessun video dell'accaduto, ma se l'era figurata nella mente, ed era sicuro, al cento per cento, che nove individui del tutto normali, che neanche si conoscevano, non potevano avere nemmeno una possibilità contro un nemico del genere. Quella era la vita reale!

La cosa che più lo sconvolgeva e lo faceva sentire in colpa è che comunque stava partendo, per iniziare quella missione impossibile. Franco gli chiedeva di crederci, di avere fiducia e lui, mentendo, lo assecondava. Aveva pensato moltissimo a tutto questo negli ultimi mesi e aveva aiutato Francesca nelle ricerche, anche con entusiasmo. Ma forse l'aveva fatto perché, in cuor suo, sperava ancora fossero tutte fantasie di un vecchio, eccentrico e solitario. Aveva avuto diverse prove della veridicità dei fatti, ma, quando devi scegliere se credere alla fine del mondo o sperare non succeda... Ma ora stava accadendo! Stava veramente accadendo! Tutte le paure si erano materializzate davanti ai suoi occhi e bisognava agire. Aveva promesso che l'avrebbe fatto, ma era terrorizzato. «Come raggiungo l'abbazia? Monica mi può accompagnare?»

La donna alzò la testa dal tavolo e guardò il suo capo. «Non penserà mica che...»

«Sì, Monica, tu.»

«Non la lascio qui da solo. Non nelle sue condizioni.»

«Io sto bene, e si tratta solo di qualche ora. Lo devi portare a casa mia e dovete partire adesso.»

Alberto guardava prima uno poi l'altra.

«Monica ti accompagnerà...»

«Franco! No...»

«... ti accompagnerà a casa mia. In garage ho una vecchia SAAB 9000. Non è una macchina moderna, ma è comoda. E ha pochi chilometri di vita. Io intanto inizierò a lavorare.»

«Non se ne parla! Il medico ha detto...»

Franco spostò la carrozzina davanti a lei, piantandole gli occhi in faccia. «È appena morta una marea di gente innocente, Monica. E chissà cosa sta succedendo adesso, con questo esercito sguinzagliato sulle nostre teste. Noi potremmo essere l'unica speranza per il mondo, l'unica!» Monica tacque. «La prego, signora, di eseguire la mia richiesta, subito.» La versione dimessa di Monica annuì con la testa. Alberto ebbe l'impressione che a quell'ordine, espresso in quel tono e con quella autorevolezza, avrebbe obbedito anche la vecchia versione.

«Seguimi, Alberto.» disse la donna, alzandosi con lo sguardo assente.

Franco bloccò Alberto per un braccio. Estrasse il mazzo di chiavi e ne tolse una, porgendogliela. «La chiave del garage. Nel parasole dell'auto trovi quelle della macchina.»

«Va bene. Mi servono le indicazioni stradali per l'abbazia. Non so arrivarci.»

«Nel vano portaoggetti troverai un foglietto di carta. Con quello arriverai facilmente.» Sorrise. «Me lo diede mia sorella, raccomandandosi di non lasciarlo mai in giro. Credo che, se avesse saputo che l'ho tenuto sempre in macchina non ne sarebbe stata felice. Ma l'ho usata talmente poco in vita mia...» Si voltò poi verso Monica. «Grazie.» le disse. «Fate attenzione. E, Alberto, non scordarti la lista.»

«Certo! È sul mio comodino. Forse sarebbe utile avere anche il video dell'arrivo del servo. Aiuterebbe quei tizi a essere meno scettici!»

«E come lo mostri? È un file e i pc non vanno. Non potrei nemmeno mettertelo su chiavetta, in questo momento.»

«Credevo che solo le connessioni fossero interrotte. I cellulari comunque si accendono.»

«Certo, certo. Ma il video dell'arrivo del servo, come tutti gli altri video della radura, non sono fisicamente nel pc dello studio. Avrebbero occupato troppo spazio. A dire il vero non ci sarebbero nemmeno stati tutti. Sono in un server, in una stanza della mia villa, a cui mi connetto. Quindi...» sorrise amaramente. «Averlo saputo! Vedi che non sono riuscito a prevedere tutto?»

«Sarebbe stato impossibile, Franco. Come potevi? A mio parere hai fatto tantissimo.»

«E per quel che conta, anche a mio parere!» intervenne Monica.

Franco tacque un istante. «Potrebbero subentrare altri problemi presto.» Alberto e Monica si guardarono spaventati. «È probabile che presto si rimanga senza acqua, elettricità e gas, se nessuno più manutiene le centrali. Ma è un'ipotesi, come tutte la altre.» disse, sorridendo e guardando Alberto. «Tienilo presente, per non essere impreparato nel caso succeda veramente.»

«Perfetto! Un'ulteriore difficoltà, visto che al momento scorre tutto liscio! Come farete tu e Monica qui, se si interrompe tutto?»

Sia il vecchio che la donna si guardarono sorridendo. «Vedi pali della luce qui intorno?» Gli occhi di Franco avevano ripreso, momentaneamente, gli antichi riflessi cerulei. Era sempre molto compiaciuto quando poteva vantarsi delle sue invenzioni. Gli porse un telefono. «Non ti preoccupare. Qui siamo a posto. Tieni. Ti prometto che presto lo sentirai squillare. È a ricarica solare, una mia invenzione. Non hai bisogno di caricabatterie. Quindi, tienilo sempre acceso. Adesso andate, presto!» Prese le mani di Alberto tra le sue, fissandolo serio. «Sono un po' pentito per quel discorso che ti ho fatto sull'egoismo. Lo ricordi?»

«Sì, me lo ricordo.»

«Era troppo presto. Non so se ci hai riflettuto in questi mesi, ma nel caso, adesso devi concentrarti esclusivamente sulle tue ricerche. Al resto penseremo dopo. Trovali, Alberto, trovali!»

«Ti prometto che farò del mio meglio.»

«Ok, bene. Il proprio meglio è sempre quello che ho preteso dai miei dipendenti. Ma se e quando ritieni di non poter fare di più di quello che hai già fatto, torna qui, senza esitazione.»

«Anche se non li ho tutti e otto?»

«Sì, anche in quel caso!»


Quando uscirono fuori dalla baita le scie stavano svanendo, e il cielo aveva l'aspetto un'enorme coperta di quello che sembrava vapore arancione, che si stava dissolvendo velocemente. Pareva di assistere a un tramonto, che occupava però l'intero cielo. Monica correva, per quello che la sua mole le consentiva, verso la rimessa del treno e Alberto la seguiva, con in mano un piccolo borsone in cui aveva infilato alla svelta i cambi di vestiti e biancheria che gli aveva procurato la donna al suo arrivo.

Il viaggio durò circa tre ore e fu relativamente tranquillo, vista la situazione. Non incontrarono, né videro nulla che facesse pensare a un esercito in caccia di essere umani. Passarono da due minuscole stazioncine vuote e da alcune zone occupate da stabilimenti, più piccoli dell'FDS; attraversarono gole e vallate e Alberto riconobbe il ponte dove, solo per pura fortuna, non aveva perso la vita. Rimase tutto il tempo nella locomotiva accanto a Monica, chiacchierando e cercando di distrarre un po' la mente dalla terribile situazione che stavano vivendo. Lei sembrava aver riacquistato un pochino del suo temperamento, anche se gli occhi trasmettevano ancora paura.

Giunsero a destinazione; il treno varcò un grande cancello, degno custode di ciò che proteggeva, sulla cui sommità, incastonata tra le punte a lancia con cui finivano i rebbi che lo componevano, svettava la scritta "VILLA GOBBI", forgiata con lo stesso ferro. La locomotiva s'arrestò in una piazzetta e Alberto e Monica scesero insieme. Si salutarono e, con sua grande sorpresa, lei lo abbracciò forte. «Stai attento, ti prego. E proteggi la mia bambina. Voglio rivedervi, tutti e due.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. Lui la baciò sulla guancia. «Ti prometto che torneremo. Abbi cura di quel vecchio testone. E grazie di tutto.» Lei sorrise, salì sul treno, girò intorno alla piazzetta e ripartì, uscendo dallo stesso cancello.

Alberto rimase un paio di minuti a contemplare la villa di Franco; era maestosa, circondata da un fitto bosco che si estendeva a perdita d'occhio. "Chissà perché non abbiamo vissuto qui!" si chiese, calcolando a spanne il numero di stanze che doveva avere. Un tratto delle rotaie, uscendo dal circolo della piazzetta, scompariva all'interno di una sorta di piccolo hangar chiuso da un portone, posto alla sua destra, in fondo al cortile, e simile a quello che ospitava i binari a riposo all'FDS. "È proprio vero allora che la linea ferroviaria è tutta di Franco!" sorrise tra sé e sé Alberto.

Il sole era già basso e la sera si stava avvicinando. «Dai Alby. Non perdere tempo che non hai.» Si diresse verso una piccola struttura che sorgeva a fianco della casa, battezzandola come il garage. La chiave aprì la piccola porta, anch'essa, come quella del capannone dell'FDS, inserita in una più grande. L'interno non era grandissimo, soprattutto per le dimensioni a cui Franco l'aveva abituato. La SAAB nera occupava un quarto dello spazio che, per il resto, era praticamente vuoto, eccezion fatta per un paio di banchi di lavoro spogli. Evidentemente quello non era un locale che Franco aveva usato molto, quando almeno risiedeva alla villa. Aprì il portone, rimuovendo i ganci dall'interno, salì in macchina, trovò le chiavi e l'accese. Conosceva quell'auto, all'avanguardia quando fu messa sul mercato, un po' vintage adesso, priva com'era di tutte le diavolerie elettroniche delle macchine moderne. Ma era silenziosa, spaziosa, una macchina con cui si poteva viaggiare comodamente. E, Alberto notò soddisfatto, aveva il pieno di benzina. Aprì lo sportellino del vano portaoggetti e sorrise. Sopra ad alcuni libri (probabilmente uno era il manuale d'istruzione dell'auto), vide una decina tra cacciaviti e pinze e due rotoli di scotch da pacchi. Non riusciva a immaginarsi cosa potessero servire in un'auto, ma riconobbe all'istante lo stile di Franco. Il foglietto era arrotolato dentro a uno dei due rotoli; lo mise sul sedile del passeggero. Le indicazioni sembravano facili. Mise in moto l'auto, uscì nel cortile, scese e chiuse portone e porta, ripose la lista degli scrigni a fianco del foglietto delle indicazioni e, senza perdere ulteriore tempo, si mise per strada.


Arrivò all'abbazia senza difficoltà, in meno di un'ora. Il sole era già tramontato e il cielo tendeva ormai al bluastro. La visibilità era ancora buona, ma a breve sarebbe stata necessaria la luce dei lampioni. Non c'era più alcun segno di quelle inquietanti scie, e durante il tragitto non aveva incontrato nulla che dimostrasse l'arrivo di forze aliene. Non si faceva grandi illusioni, avendo viaggiato pressoché sempre in strade circondate da grossi alberi, senza passare mai da centri abitati.

Aveva impiegato il tempo del tragitto a immaginare cosa avrebbe provato nel rivedere il luogo dove aveva vissuto sei mesi tra atroci fatiche e piacevoli incontri, cercando di prepararsi all'inevitabile shock che avrebbe provato, una volta giunto nello spiazzo davanti all'ingresso. Temeva un po' la reazione che avrebbero avuto le altre guardie vedendolo, ma il viaggio e la missione che aveva intrapreso prevedevano quel rischio e lui era disposto a correrlo. Soprattutto per la voglia che aveva di rivedere la sua donna. "Hanno altri problemi ora!" pensò, sapendo bene che in realtà, i loro attuali problemi erano anche i suoi. Lo shock l'ebbe, ma non per i motivi che pensava lui.

Una macchina era abbandonata di traverso nel piazzale con la portiera aperta, come se qualcuno fosse arrivato di gran carriera e corso dentro in tutta fretta. L'ingresso era spalancato, senza più il portone che giaceva, divelto, appena all'interno. Pezzi di muro intorno, erano staccati e sbriciolati al suolo. Alberto accostò la macchina e scese, bersagliato da tutti i più brutti presentimenti che potevano venirgli in quel momento. D'istinto chiuse a chiave la macchina. «Oddio! Cos'è successo?» si chiese, immaginando di sapere già la risposta. Fece timidamente capolino all'ingresso; la guardiola era vuota, il vetro infranto. Sotto al portone giaceva il corpo di un uomo, immobile. Alberto si avvicinò: era Günther. Posò due dita sul collo, più per avere la certezza di quello che sapeva già. Era morto. Non che gli dispiacesse più di tanto, ma il fatto lo turbò ulteriormente. Il salone era illuminato dalla luce bianca del grande lampadario appeso, che dondolava appena. Inevitabilmente il suo sguardo andò subito sull'amata porta, nella balconata in cima alle scale. Era spalancata! «Cazzo! FRANCESCA!» urlò, incurante di qualsiasi precauzione, mentre si precipitava su. L'ufficio era vuoto, la scrivania coperta di fogli e raccoglitori. Una tazza di tè era appoggiata nell'angolo. Si diresse in camera, dove aveva trascorso i momenti più belli della sua permanenza in quell'infernale posto e, forse, della sua intera vita. Il letto era disfatto, tipico di Francesca che, come amava definirsi, era una pessima casalinga. Prese il cuscino e se lo appoggiò sulla faccia; il suo odore era lì, fresco a avvolgente, come sempre. Le lacrime arrivarono subito; si distese e pianse. «Dove sei amore mio? Cosa ti è successo?»

Fu in quel momento che sentì qualcosa. Tirò su la testa, tendendo le orecchie per captare ogni singolo suono. Il silenzio era opprimente e, forse, se l'era solo immaginato. Ma di nuovo qualcosa giunse a lui. Sembravano voci, voci che chiedevano aiuto. Si alzò di scatto e corse fuori dall'ufficio, affacciandosi sulla balconata. Erano voci, sicuramente maschili, ovattate e lontane. E venivano dal basso. «Sono gli altri prigionieri!» disse, speranzoso di trovare qualcuno che potesse aiutarlo e che lui potesse aiutare. Si diresse verso il tunnel delle prigioni, ma le trovò tutte aperte. E vuote! Deluso e perplesso si guardò intorno, sapendo già che non c'era nessun'altra porta, in quel corridoio che conosceva molto bene. Si affacciò sulla soglia di quella che era stata la sua cella, fissando il suo loculo (l'aveva battezzato così, con una buona dose di ironia!). Rivedere il posto in cui credeva avrebbe passato il resto della sua vita lo sconvolse, più di quello che avrebbe mai creduto. Su quella pietra levigata aveva passato tante notti insonni, o quasi, mentre i suoi pensieri vorticavano in abissi profondi di disperazione, tormenti, sensi di colpa talmente pesanti, da farlo sentire spesso schiacciato contro la durezza del giaciglio su cui poggiava la sua schiena; ma aveva sofferto tanto anche a causa della speranza, quella vera, la fiammella che ti permette di vedere quale strada percorrere, quando sei immerso nell'oscurità. Ma nel suo caso illuminava solo vie sbarrate, senza uscita, il più delle volte con una figura nera che lo attendeva, brandendo un manganello, molto simile nei contorni all'odiato Masi. Sì! Aveva sperato tanto lì dentro! Aveva sperato di poter, un giorno, sentirsi libero, libero d'amare Francesca senza vincoli e sotterfugi, d'amarla con tutto l'amore che sentiva adesso, adesso che erano separati. La lontananza rafforzava i sentimenti, se n'era accorto ormai da tempo; come se, quando stavano insieme, la sua sola presenza, bastasse a riempirlo di tutto ciò che gli serviva! Chiuse gli occhi, cercando di assaporare questa libertà che era piovuta su di lui così inaspettatamente, e in cui si era tuffato senza alcun indugio. Le sue narici cercavano gli odori del sotterraneo che aveva sopportato per sei mesi, per tentare di ricreare in lui le stesse sensazioni che aveva provato e, accostate allo stato d'animo che aveva adesso, compatirle, e quasi schernirle. Ma le immagini che giunsero sotto le sue palpebre, gl'impedirono il giochino. Come diapositive fatte scorrere troppo velocemente, vide una città distrutta, migliaia di corpi carbonizzati e schiacciati sotto alle macerie, le due donne nel fosso che marcivano, un uomo che inveiva contro di lui, dentro a un tribunale, NC che moriva, soffocato dal suo stesso sangue, Fabio, mentre veniva sbranato dai lupi... I lupi! Gli occhi bianchi di quell'animale si stamparono nella sua mente! Lo osservavano, senza vita, senza calore...

Di nuovo udì le voci invocare aiuto. Aprì gli occhi. Capì di chi fossero. Gli tornarono alla mente le parole di Francesca. «Abbiamo sotterrato Masi e René. Non ci daranno più fastidio.» gli aveva detto, quando le aveva chiesto che cosa ne aveva fatto. E ora eccoli là, a implorare aiuto! Sapeva di avere poco tempo, ma doveva cercare la scala che conduceva alle loro celle e fargli sapere che era lì. Lo doveva a sé stesso. Era una piccola vendetta personale che voleva prendersi, soprattutto nei confronti di Masi. «Ma non ci perdere troppo tempo!» si ripromise. Tornò in sala e trovò la porta giusta al primo colpo, grazie alle urla dei due disperati. La scala che scendeva era molto più ripida e lunga delle altre. Sorrise ripensando alle parole di Francesca: "sotterrati", aveva detto e aveva detto giusto. Come il sotterraneo in cui aveva vissuto da prigioniero, anche lì, piccole lampade avvitate alle pareti rischiaravano sempre le scale, il corridoio e le celle: un piccolo privilegio concesso a chi di privilegi, ormai, non ne aveva più.

Si fermò, fissando con soddisfazione le due porte sbarrate, una alla sua destra, una alla sua sinistra. E ridacchiò.

«Chi c'è?» chiese Masi. Aveva una voce diversa, più acuta, più stanca, più sofferente, poesia alle orecchie di Alberto.

«Ciao bastardi!»

«Chi sei?»

«È Recatto! Lo riconosco.» disse René, dalla cella di fronte.

«Recatto? AR396?»

«Sono io, stronzo. Come si sta rinchiusi? Come si sta dove avresti sempre dovuto essere?»

Masi, incredibilmente, cominciò a piagnucolare.

«Eccolo che ricomincia! Si è rammollito da quando è lì dentro!» ridacchiò René, che aveva conservato la sua solita voce roca, marcata dalla cadenza tedesca.

«Fammi uscire, ti supplico! Perdonami per tutto, perdonami...»

«Oh ma dai!» disse Alberto, con una gioia che aumentava a ogni secondo, dipinta sulla faccia. «Senti, senti chi è che supplica. Non fai più tanto il duro, eh? Non prendi più in mano il manganello, ora, vero?» René continuava a ridacchiare. «E tu che cazzo hai da ridere?» chiese, rivolto alla porta della cella del tedesco.

«Scommetto che vuoi sapere cosa è successo alla tua ragazza!» Il cuore di Alberto ebbe un sobbalzo.

«Fammi uscire...» continuava a lamentarsi Masi.

«Silenzio! Taci un po'!» sbraitò René. «Urlavano tutti sai?» continuò, riprendendo il tono di voce sprezzante di poco prima. Alberto immaginava la sua faccia e quel sorrisetto bastardo che spuntava tra i peli grigi della barba sporca.

«Cosa dici?»

«Oh sì, urlavano! Anche lei urlava, urlava come una puttana! Forse se la stavano chiavando, perché gemeva, gemeva...» e di nuovo proruppe in una risataccia sguaiata.

«Sta zitto!» sbottò Alberto, colpendo la porta blindata con un pugno. Sapeva che non era vero quello che gli stava raccontando; da lì sotto non avevano assolutamente nessuna possibilità di sentire distintamente chi urlasse e perché. Ma un seme di dubbio e di paura si era piantato lo stesso nel suo cuore e sapeva che l'intento di René era quello. Si pentì subito d'aver perso del tempo con quei due individui. «Marcirete qui dentro, bastardi!» disse, girandosi per andarsene.

«NOOO! FAMMI USCIRE, FAMMI USCIRE!» urlava Masi.

René continuava a ridere. «Corri, corri, assassino stupratore di donne! Vai a cercare la tua troia!»

Alberto risalì le scale.

«FAMMI USCIRE, STRONZO! ME LA PAGHERAI!» le urla di Masi si sovrapponevano alla risata di René. «USCIRO' DA QUI E VERRO' A CERCARTI...»

Si richiuse la porta alle spalle, riducendo le urla di nuovo a ovattati e lontani suoni. Rimase qualche secondo immobile, a occhi chiusi nella luce bianca della sala, respirando profondamente. "Devo trovarla, ovunque sia!" pensò, ma subito la voce di Franco s'intromise e sovrastò la sua. "Hai un compito da svolgere! Ricordalo!" Riaprì gli occhi. Di nuovo sentì le lacrime bussare ai suoi occhi. In cuor suo sapeva che non poteva andare a cercarla e, ancor più dolorosamente sapeva che non lo avrebbe fatto. Sarebbe ripartito verso Bologna per adempiere all'impossibile compito che Franco gli aveva affidato, perché lo doveva fare. Faceva parte del processo di espiazione delle sue colpe, che aveva intrapreso nell'attimo esatto in cui aveva deciso di seguire Fabio e NC360 fuori da quell'abbazia, partendo proprio da lì, dove si trovava adesso. Non poteva venir meno a questo impegno, perché avrebbe voluto dire tradire tante persone, e principalmente sé stesso, che si era ripromesso già più volte di proseguire, convinto e imperterrito, sulla strada per diventare una persona nuova e migliore. Voleva smettere di sognare quei due corpi, nudi, abbandonati in quel fosso e zittire le urla dei due mariti, che spesso, la notte, gli facevano ancora compagnia. Doveva convincersi che Francesca stava bene, magari imprigionata, spaventata, ma illesa. L'avrebbe salvata una volta costituita la squadra. Onestamente faceva fatica a crederci, ma non aveva intenzione di abbandonarsi alla disperazione, non in quel momento. Doveva rimettersi subito in viaggio, perché prima lo faceva...

Qualcosa lo distolse dai suoi pensieri. Era un ringhio, roco, basso, che proveniva dalla sua destra. Ci mise un po' a emergere dalle sue fantasie e rimettere a fuoco gli occhi. La sala era deserta ma appena fuori dall'ingresso c'era qualcosa, qualcosa nell'oscurità, che lo osservava. Lo stacco tra l'illuminazione che irradiava il lampadario all'interno e il nero che ormai avvolgeva l'esterno era netto e due cerchi, bianchi e vuoti allo stesso tempo, galleggiavano nel buio, come sorretti da quel suono gutturale che continuava a riempire il vasto silenzio della sala. Aveva già capito e quando il muso del lupo emerse non ne fu sorpreso. Ma terrorizzato, sì. La scala era qualche metro davanti a lui e, lentamente, Alberto si mosse per raggiungerla. Il lupo bianco, ancora lui, entrò nel salone, calpestando i vetri rotti della guardiola, fissandolo, con lo sguardo vitreo e le zanne scoperte. Avanzava lentamente, mentre, altrettanto lentamente, Alberto si avvicinava alla scala, posando il piede sul primo gradino. Era probabile che l'animale l'avesse riconosciuto, e guardando nel profondo quegli occhi bianchi, fissi nei suoi, non ne aveva alcun dubbio. Dietro di lui stavano emergendo i musi degli altri lupi, tutti a rallentatore, pronti a sferrare l'attacco e riprendere la sfida dal punto in cui si era interrotta la prima volta. Solo che questa volta non c'era un treno ad attenderlo, ma solo una balconata che, da entrambi i lati, finiva contro una parete. "Non può finire così! Non può!" pensava, disperato. Era già sul quarto scalino, tutti saliti al contrario, senza mai perdere di vista il branco, ma in realtà con gli occhi fermi solo in quelli del capo, che si era fermato appena oltre la guardiola. Di nuovo ebbe la sensazione d'aver già visto quella bestia, al di là degli ultimi incontri che avevano avuto; la stessa sensazione avuta la prima volta, nella piana. Con la coda dell'occhio Alberto intravide la porta dell'ufficio di Francesca, spalancata, quasi lo stesse chiamando, per offrirgli un sicuro rifugio. "Amore mio! Forse puoi salvarmi di nuovo." Sfruttando il fatto che i lupi, pur continuando a braccarlo, si erano fermati (chissà perché poi), accelerò di poco l'andatura con cui stava salendo, per mettere più strada possibile tra loro, in previsione dell'imminente attacco.

Era circa a metà scalinata quando il lupo ululò e il verso, potente, preciso, salì fino al soffitto, rimbalzando in ogni angolo, amplificato dall'eco, raggiungendo le orecchie di Alberto e perforandole come pugnali nella carne. In quel mezzo secondo in cui si portò le mani alla testa, chiudendo gli occhi per il fastidio improvviso, capì lo scopo dell'ululato e, quasi meccanicamente, sentì le sue gambe girarsi e mettersi in moto, mentre un raspare di unghie sul pavimento, misto a ringhi soffocati proveniva da sotto. In un lampo fu in cima alla rampa e, abbrancando con la sinistra il pomolo del corrimano, ruotò di 360°, lanciandosi letteralmente verso la porta aperta dell'ufficio. Nello stesso istante vide con terrore che anche il lupo bianco era arrivato in cima, ma, nel fare la stessa curva, era slittato sul liscio pavimento della balconata, perdendo qualche metro. Gli mancava solo qualche falcata per prevalere una seconda volta su quegli animali, che sembravano avercela particolarmente con lui; aumentò la velocità ed entrò nell'ufficio, sentendo il sospiro di sollievo che gli saliva dalla gola. Senza esitazione afferrò la porta e, con decisa violenza, la spinse, per chiuderla. Ma proprio nell'attimo in cui la bianca luce della sala stava sparendo dalla sua vista, il muso del capobranco si interpose nel piccolo spazio rimasto, con un grugnito più simile al verso di un maiale. La sorpresa fece trasalire Alberto che, per un momento allentò la presa, permettendo al lupo di inserire quasi del tutto la testa, ringhiando furiosamente. Dalla balconata si sentiva l'affannarsi degli altri, ammassati dietro al loro capo, pronti ad azzannare e dilaniare la loro preda. Facendo leva con tutto il peso del corpo, Alberto si gettò sulla porta, schiacciando la parte di testa inserita contro lo stipite. Il lupo guaì e indietreggiò, permettendo all'uscio di chiudersi del tutto. Alberto fece prontamente scattare la serratura, poi si appoggiò di schiena, ansimante. Gli girava la testa, mentre dietro di lui imperversava il raspare di unghie e i colpi alla porta. Poteva percepire la rabbia che usciva dalle loro gole per essere riuscito a sfuggire una seconda volta. I botti aumentavano e Alberto si alzò, spostandosi e guardando la porta. "Reggerà vero?" si chiese. Era di legno, solida, ma in quel momento non era sicuro più di nulla. Corse alla scrivania e provò a spingerla. Era pesantissima, di mogano, ma riuscì, a fatica, a smuoverla e a trascinarla contro l'ingresso. Il dolore al collo tornò improvviso a farsi sentire, anche se solo per un breve istante. Sfinito contemplò il suo lavoro, soddisfatto. Si diresse in camera, chiudendosi dentro a chiave e bloccando l'entrata con il comò. Si sdraiò sul letto, sentendosi ormai al sicuro, ma, allo stesso tempo, anche in trappola. La sua idea di partire subito era naufragata. "Ma forse è meglio così. Viaggiare di notte, con quei cosi in giro che danno la caccia, è sicuramente rischioso." pensò, mentre contemplava il soffitto. Si accorse di essere stanco e piuttosto affamato, ma poteva rimediare solo alla prima cosa. Dall'ufficio non arrivavano più nè colpi, nè raspate, ma Alberto aveva ormai deciso di passare la notte in quella camera, insieme all'odore della sua Francesca, sperando che, all'arrivo delle prime luci dell'alba, i lupi desistessero dal loro intento. Si spogliò completamente e si coprì col lenzuolo che, qualche ora prima, aveva avvolto il corpo della sua ragazza. E, nonostante la paura appena provata, l'adrenalina che ancora frizzava dentro e la terribile ansia per un futuro quanto mai incerto, si addormentò di colpo.

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