21 - INCONTRI IMPREVISTI (2)

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Il sonno era inquieto.

Sentiva un pulsare, ritmico e caldo provenire dalle gambe e un respiro caldo che sapeva di marcio, riempirgli le narici. Era sudato. Voleva muoversi ma scoprì di non potere; qualcosa lo bloccava. Un suono roco disturbava la quiete della stanza, gli penetrava nel cervello e gli faceva male. Voleva disperatamente aprire gli occhi, ma sentiva una forza invisibile premere sulle palpebre, come ci fosse qualcosa che gliele tenesse chiuse. Il suono aumentava, ora mischiato a qualcos'altro, una specie di lamento, pietoso e sommesso; sembrava una richiesta d'aiuto. Con uno sforzo sovrumano riuscì ad aprire appena gli occhi e si ritrovò faccia a faccia con un paio di pupille, bianche e vuote, che lo fissavano, mentre da una fila di zanne scoperte, appena sotto, usciva il ringhio, continuo, rauco, mefitico. C'era qualcosa in mezzo ai denti affilati, grondanti sangue; sembrava un dito morto, completamente rosso. Capì subito cos'era, con orrore. Riuscì a sollevare di poco la testa e scorse la sua pancia, sotto il ventre dell'animale, e più giù, in mezzo alle sue gambe... solo sangue, e nient'altro. Il lupo teneva in bocca il suo pene, reciso con un morso mentre dormiva. Stranamente non sentiva dolore, ma solo vergogna. Quell'animale lo fissava ringhiando e pareva sorridere; pareva gli stesse dicendo: "Hai visto? Alla fine, ho vinto io!" Con la coda dell'occhio percepì del movimento a fianco del letto e vide gli altri lupi, seduti come normali cani da casa che mangiavano. Ma cosa? Cos'è che sbranavano con tanta avidità? Con terrore crescente si accorse che si cibavano di un cadavere umano, nudo, una donna. Uno dei lupi stava rosicchiando la testa, staccata dal corpo; la girò tra le zampe e Alberto intravide due occhi azzurri e spenti e una bocca dalla quale sporgevano quattro incisivi appena più grandi del normale. Urlò e cercò di scacciare il lupo, ma quello gli bloccava le spalle con gli artigli e ululò, imitato subito da tutti gli altri. Alberto chiuse gli occhi, sommerso dal dolore che quel suono penetrante gli procurava, poi spalancò nuovamente gli occhi...

Era disteso sul letto, nudo, fradicio di sudore. Il lenzuolo era scivolato a terra. Si guardò attorno per un minuto prima di accettare che era stato solo un terribile e disgustoso incubo. Aveva il cuore che batteva all'impazzata e gli ci volle almeno un minuto per calmarsi. Dalla finestra, lasciata aperta, entrava una pallida luce e una frizzante aria mattutina. Inspirò a pieni polmoni e una leggera pelle d'oca gli fece rizzare i peli delle braccia e delle gambe; si chiedeva se fosse l'effetto dell'aria fredda sulla pelle sudata o i residui di terrore incussi dall'incubo, terribilmente reale. Aveva ancora nel naso quel nauseabondo odore di putrefazione, si sentiva ancora addosso l'alito caldo della bestia e il senso di vergogna albergava ancora nei suoi sensi. Sollevò la testa e si guardò in mezzo alle gambe constatando che era tutto a posto (aveva la vescica che stava scoppiando, quindi l'aveva già capito!), ma, senza motivo, aveva recuperato il lenzuolo, coprendosi e sentendosi subito più a suo agio. Aveva assoluto bisogno di un bagno, sia per fare una doccia, sia per fare pipì. Inoltre, gli serviva assolutamente un orologio! Si ricordò che Francesca ne teneva uno nel comodino, regalo dello zio per la prima Comunione. Lo trovò, funzionante, che indicava le 6.25. Se lo infilò, ricordandosi solo in quel momento che aveva anche il cellulare datogli da Franco. «Si può solo leggere l'orario!» aveva detto. Con l'orologio al polso le sensazioni di disagio si attenuarono subito, come risucchiate via dal contatto reale con qualcosa appartenuto a Francesca. Alberto sapeva che era solo una semplice ma potente suggestione, ma gli piaceva credere ci fosse anche un pizzico di irrealtà in tutta quella situazione, come se quell'orologio fosse imbevuto dell'amore che entrambi provavano reciprocamente e riuscisse, come un amuleto, a scacciare via i pensieri cattivi. Sorrise, consapevole però che, dopotutto, l'amore è una potente magia.

Si alzò, tendendo l'orecchio verso l'ufficio. Tutto taceva. Con l'orecchio poggiato alla porta, lo sguardo cadde sul muro sopra il letto, dove c'era appesa una grande stampa raffigurante un branco di lupi che correva in mezzo alla neve. Fu come se ricevesse una delle bastonate di Masi; fissava intensamente il lupo che correva davanti a tutti e il terrore s'insinuò in ogni sua fibra. Per quale assurdo motivo Francesca aveva la fotografia di quelle bestiacce, che già tre volte avevano tentato di ucciderlo, appesa al muro sopra al suo letto? Avrebbe dovuto provare curiosità in quel momento, ma si accorse di provare solo semplice e pura paura. Finalmente aveva capito da dove veniva la sensazione di dejà vu che provava tutte le volte che vedeva quella bestiaccia!

Spostò il comò e aprì la porta; la stanza era deserta, la scrivania ancora addossata alla porta. "Dove poteva mai essere?" si disse. Attraversando la stanza, un po' scosso, si ricordò, non senza un certo senso di disagio, la prima volta che era stato nudo, com'era ora, tra quelle pareti, la sera del suo arrivo. Pareva una vita fa! Si avvicinò alla scrivania. Il bagno personale di Francesca era a fianco dell'ufficio, passando però dalla balconata, ma se i lupi pattugliavano la sala, tutti i piani che si stava costruendo nella mente sarebbero scoppiati come bolle di sapone. Cercando di trattenere la pipì e sperando che lo sforzo non lo costringesse a mollarla indecorosamente sul pavimento, spinse la scrivania di lato. Riuscì nel suo intento, a fatica, stringendo sempre più le cosce. Non ce la faceva più! Piano, piano, fece scattare la serratura, mentre si esibiva nel più ridicolo dei balletti; abbassò la maniglia, quasi al rallentatore, e socchiuse appena la porta, sbirciando fuori. Davanti all'uscio, nulla. Mise fuori la testa, guardando a destra e a sinistra. Nulla. Il lato opposto della balconata, di là dalla scala, era deserto, così come la sala, sotto di lui. Tutto era avvolto nel più assoluto silenzio. Anche dai sotterranei non proveniva alcun suono, segno che i due prigionieri dormivano o erano morti. O, solamente, si erano rassegnati. Qualunque motivo fosse, scoprì che non gliene importava un fico secco! Piano, piano, per quanto lo consentisse l'urgenza fisiologica, uscì e si diresse alla porta a fianco. Il bagno si materializzò meravigliosamente davanti a suoi occhi. Chiuse a chiave e si fiondò sotto la doccia, aprendo l'acqua e rilasciando finalmente i muscoli pelvici, sentendo il liquido caldo bagnargli i piedi. Dopo mezz'ora si sentiva decisamente meglio, lavato, vestito e pronto a ripartire. Aveva una fame da lupi (non si accorse della sottile ironia), ma cercare cibo nell'abbazia, era troppo rischioso. Si sarebbe fermato per strada, da qualche parte. Il problema più urgente, adesso, era raggiungere l'auto, fuori nel piazzale dove regnava lo stesso cupo silenzio che c'era all'interno. Sembrava proprio che gli animali se ne fossero andati, ma doveva essere cauto, perché avevano già dato dimostrazione di essere particolarmente intelligenti e tenaci, soprattutto il loro capo. Si affacciò sulla rampa di scale, e simulò con i piedi il rumore di passi che scendevano, restando, di fatto, fermo sul posto. Poi aspettò. Non successe nulla. Prendendo un profondo respiro, cominciò allora a scendere veramente e lentamente. Giunto in fondo, si scoprì a tendere involontariamente l'orecchio in direzione delle scale che portavano alle celle di Masi e René. Presto sarebbero morti e non senza sofferenze, privati di acqua e cibo. D'un tratto un pensiero lo colpì: stava, indirettamente, ma forse neanche poi tanto, per commettere due nuovi omicidi? Il percorso verso il suo completo cambiamento ne avrebbe risentito? Poteva definirsi "un uomo nuovo", se poi lasciava due esseri umani morire di stenti dentro a un buco? Di nuovo sopraggiunse la voce di Franco: "Sono due persone cattive, e lo meritano. Lo sai benissimo. Se li liberi sbatteranno te là dentro o, peggio, ti uccideranno e la nostra missione fallirà, condannando tutto il mondo!" Era tutto vero e, in fondo, l'idea di liberarli non c'era mai stata in lui. Ma quanti dubbi, quante indecisioni. Il cammino verso la redenzione, o qualunque cosa fosse ciò che doveva raggiungere per sentirsi un po' più in pace con sé stesso, era di una difficoltà estrema! Lo stava capendo sempre di più, giorno dopo giorno, prova dopo prova.

Giunse all'ingresso, passando a fianco del portone divelto, abbandonato sul pavimento. Qualunque cosa avesse distrutto quella porta doveva possedere una forza sovrumana, pensò. Sbirciò fuori, controllando tutte le direzioni. I lupi potevano essere benissimo nascosti tra gli alberi, in agguato e, se così fosse stato, non sarebbe mai riuscito a coprire i pochi metri che lo separavano dalla SAAB. «Non risolvi niente però standotene qui fermo!» disse. «O la va o la spacca!» Preparò le chiavi dell'auto in mano, trasse un respiro profondo e si lanciò di corsa verso l'obiettivo, che raggiunse in pochi secondi; armeggiò velocemente con la chiave, aprì la portiera e si tuffò dentro, chiudendola all'istante. Nessun lupo era sbucato fuori dal bosco; il piazzale continuava a essere deserto e silenzioso, come la sera prima. «Perché cazzo ho chiuso a chiave, ieri sera?» sbraitò, contro sé stesso. Mise in moto e partì, sperando di non dover tornare mai più in quel posto, se non per ritrovare la sua ragazza scomparsa.


S'imbatté nella prima bolla dopo una ventina di minuti.

Cercava di raggiungere l'autostrada, ma scoprì di sentirsi abbastanza perso senza il navigatore. Trovò una cartina nel vano portaoggetti e cercò di orientarsi con quella, aiutandosi anche con le indicazioni stradali. Era tornato indietro di quasi trent'anni, quando viaggiava con i suoi genitori, e suo padre, spesso, faceva ricorso a quei mezzi per orientarsi.

Dopo i primi chilometri, interamente percorsi circondato da alti alberi che delimitavano il bosco, senza incontrare anima viva, giunse a un paesino, tipico di montagna, adagiato sul fianco di un alto colle. La strada, dopo un lungo rettilineo, svoltava secca a destra, attraversandolo e tagliandolo a metà. Erano le 7.30 di mattino, ma in giro non c'era nessuno. Sembrava un paese fantasma e, con un'inquietudine crescente, notò diverse abitazioni con porte divelte e finestre rotte. Si guardò attorno, impaurito; qualcuno era andato a caccia di essere umani, lì come all'abbazia, e come, probabilmente, ovunque. Poteva essere in serio pericolo anche lui, ma nulla si muoveva nei paraggi, né in terra, né in cielo. Passando davanti a un negozio di alimentari, decise di fermarsi per mangiare qualcosa, fare un po' di scorte per il viaggio, bisognoso anche di rivisitare un bagno. Le porte erano spalancate e l'interno era deserto; un paio di scaffali erano spezzati e sul pavimento erano sparsi, un po' ovunque, vetri rotti, barattoli e scatole di prodotti. Alberto trovò nel retro l'angusto bagnetto e dopo aver espletato i suoi bisogni, recuperò alcune sporte dal bancone e le riempì un po' a casaccio di cibarie dolci e salate, e di bevande, soprattutto acqua. Ignorò la frutta, la verdura e in generale i prodotti che andavano conservati in frigorifero, ignorando quanto sarebbe dovuto rimanere in viaggio. Stette tutto il tempo col fiato sospeso, aspettandosi, da un momento all'altro, di veder sbucare qualcosa che lo portasse via. Ma non successe nulla. Le strade continuavano a essere deserte, il silenzio, totale.

Giunto alla fine del paese, le case alla sua sinistra lasciarono posto a un esteso prato che terminava alle pendici dell'alta montagna e fu lì, con lo stomaco che si contrasse e il cuore che accelerò i battiti, che i suoi occhi videro per la prima volta con cosa il genere umano si era, improvvisamente, imbattuto. Quasi l'intero spiazzo era occupato da un'enorme cupola arancione, non altissima, ma sufficientemente larga per contenere, a occhio e croce, una folla di trecento persone, tutte immobili, diritte, in piedi, le mani abbandonate lungo i fianchi, la testa reclinata all'indietro. Ciò che disturbò di più Alberto era lo sguardo delle persone, vitreo, perso nel nulla che parevano contemplare, a bocca aperta, dalla quale usciva quello che sembrava un sottile filo di fumo rosso, che andava arrotolandosi e a formare una grossa palla sopra di loro. La scena era straziante e curiosa insieme; pareva che ognuna di quelle persone tenesse in aria quella sfera tramite il proprio filo, come tanti bambini che giocavano con lo stesso palloncino. Dalla sommità di quello strano gomitolo partiva poi, un'unica striscia rossastra che percorreva la base superiore dell'interno della bolla e s'insinuava all'interno di uno strano essere completamente viola, con una faccia innaturalmente tonda e un'espressione di terrificante contentezza. Alberto rallentò, quasi si fermò per vedere meglio, senza pensare a quello che faceva; non era abbastanza vicino per vedere distintamente, ma era sicuro di quello che i suoi occhi gli stavano mostrando. Quella faccia era uno SMILE, identico a quello che si vedevano negli adesivi, nei disegni, sulle magliette, eccezion fatta per il colore. Ecco, quindi, da cosa era formato l'esercito dell'alieno: uomini viola con uno SMILE al posto della faccia, una versione ridotta del robot che aveva distrutto Bologna, stando al racconto di Franco. E adesso stava succhiando fuori... cosa? L'energia, ma forse anche la vita, da quelle persone. Si rese conto di essere completamente allo scoperto, in bella vista davanti a quella specie di uomo. Poteva voltarsi, all'improvviso, vederlo e farlo finire là sotto insieme agli altri. Ma non si muoveva. Nella stessa posizione dei suoi prigionieri, si cibava di quel potere rosso con una lentezza esasperante. Alberto guardò nuovamente la palla. «Se deve assorbirla tutto ci metterà una vita!» notò. E dopo? Cosa avrebbe fatto? Avrebbe cercato quelli che si erano nascosti? Il viso di Francesca lampeggiò nella sua mente. Se era stata catturata, e aveva pochi dubbi al riguardo, adesso si trovava dentro a una di quelle bolle? Provò a scrutare la folla, cercando di isolare ogni singolo viso, cosa non facile, ma non la scorse. «Devo avvicinarmi di più.» e accostò la macchina sul ciglio della strada, quando la solita voce di Franco echeggiò nella sua mente.

"Potrebbe catturarti! Hai una missione, ricorda!"

"Ma potrebbe morire!" Stringeva forte il volante con le mani, mentre combatteva con sé stesso e con i propri pensieri che gli si proponevano con la voce del vecchio, forse per renderli più credibili rispetto che sentirli con la propria.

"Non puoi saperlo! Fai quello che devi fare e potresti anche salvarla. Se ti catturano, invece, è tutto finito!"

Aveva chinato il capo, con gli occhi pieni di lacrime. Il discorso era sempre quello, ripetuto ormai tante e tante volte. Si sentiva scisso in due parti, due diverse entità di sé stesso che combattevano una battaglia fondamentalmente inutile e che lo rallentava. Aveva sempre dato retta a quella più riflessiva, quella che parlava con la voce di Franco, quella che era tentato continuamente a non seguire. Ma che ascoltò anche quella volta, e senza più guardare la bolla, ripartì.


La bella notizia fu che era sulla strada giusta. Dopo aver percorso circa dieci chilometri, una volta lasciato il paesino, trovò le indicazioni per l'autostrada e il suo umore, piuttosto basso, migliorò appena. Le scene che incontrò nei successivi paesi, però, assolutamente identiche alla prima, lo affossarono ancor di più.

Il primo centro piuttosto grosso che attraversò, dominato da un grande lago che rifletteva la cresta delle montagne che gli facevano da corona, era pieno di bolle, come se fosse affetto da un'infezione purulenta. Ce n'erano di piccole e di molto grandi, e in ognuna era presente un uomo viola che raccoglieva la sua parte di bottino, compito che, a quanto pareva, non gli permetteva di fare nient'altro. Era una buona notizia, l'unica in quel miasma in cui si trovava; poteva passare indisturbato, senza rischiare di essere braccato o inseguito. Iniziò a farsi un'idea del modus operandi dell'alieno: a seconda della grandezza del paese o della città, aveva inviato un certo numero di quei cosi, ognuno, credeva, responsabile della zona assegnatagli; avevano rastrellato gli abitanti e adesso li stavano svuotando. Si chiese quanti ce ne dovevano essere in città come New York o Rio, ma soprattutto quanti erano in totale, e rabbrividì. Tra i tanti dubbi che ancora lo tormentavano, due erano quelli più assillanti: perché l'estrazione era così lenta e cosa sarebbe successo dopo. Di quest'ultima domanda pensava di avere la risposta; sarebbe iniziato un secondo rastrellamento per scovare quelli scampati al primo, tipo lui, Franco e Monica. Ma se quei pupazzoni viola erano momentaneamente inoffensivi, perché in giro non c'era nessuno? Anche in quel paese, che contava circa tra i millecinquecento e i duemila abitanti, le strade erano deserte, il silenzio irreale, l'atmosfera spettrale. Possibile che tutti gli abitanti fossero stati catturati?

Il grande lago era adagiato alla sua destra e, avvicinandosi alla fine del paese, lambiva la strada, separato da piccoli moli a cui erano attraccate alcune barche turistiche. Alberto divideva la sua concentrazione tra l'acqua e la strada, ignorando volutamente il lato alla sua sinistra dove, non appena si apriva uno spiazzo tra le case, si scorgeva inesorabile una bolla. La strada era perlopiù sgombra, ma in certi tratti si era imbattuto in macchine incidentate o solo abbandonate che la ostruivano parzialmente. Solo una volta era dovuto salire sul marciapiede, per superare il blocco creato da un'auto schiantata contro un furgoncino. In nessun caso però, aveva trovato cadaveri o anche solo segni che ce ne fossero stati, come se quei veicoli non fossero stati guidati da nessuno. "Oppure l'autista è stato prelevato a forza, in corsa!" pensò, immaginando col solito senso di disagio, di non essere molto lontano dalla verità. Quegli ostacoli sulla strada gli avevano fatto sorgere parecchi dubbi sulla decisione di usare l'autostrada, dove il pericolo di trovare sbarramenti molto più imponenti, e potenzialmente insuperabili, era molto reale. Ma aveva comunque deciso di rischiare; a quel punto, una volta in viaggio, aveva fretta di arrivare alla meta e l'idea di farlo, percorrendo strade secondarie, lunghe e scomode fino a Bologna, non l'allettava per niente.

Aveva distolto momentaneamente lo sguardo dalla strada per prendere la bottiglietta d'acqua appoggiata sul sedile di fianco quando, tornato con gli occhi in avanti, si era trovato una donna in mezzo alla via, intenta ad attraversarla. Aveva inchiodato di colpo e, con un forte stridore di freni, si era fermato a pochi centimetri da una signora anziana, con lunghi capelli bianchi che ricadevano su di una t-shirt rossa. Indossava un paio di jeans scoloriti e scarpe da tennis. Fisicamente poteva tranquillamente dimostrare non più di trent'anni, ma le rughe sul viso esprimevano un'età certamente sopra i settanta. Vedendo la macchina venirle contro si era fermata, per nulla spaventata, guardandolo con occhi spenti che sembravano infilati a forza dentro a due profondissime occhiaie nere. Teneva nella mano sinistra, la destra di una grassa bambina (non doveva avere più di sette anni), con un voluminoso e ingarbugliato cespuglio di ricci per capelli. Indossava una maglietta troppo corta che le lasciava scoperta la parte finale di una prominente pancia, con rotolini di grasso che ricadevano sul risvolto di un paio di pantaloncini, decisamente troppo stretti per lei. Aveva gli occhi gonfi e rossi, sintomo di un recente pianto e il naso incrostato di sporco. In quello sguardo Alberto scorse il terrore più puro e immaginò cosa dovesse provare un bambino di fronte a tutta questa situazione, quando lui stesso, adulto, provava smarrimento e un assoluto senso di impotenza. Quanti piccoli in quel momento, erano rimasti soli, magari nascosti dai genitori durante la caccia? Che fine poteva mai fare uno di loro, grande come quella ferma davanti alla sua macchina, o addirittura più piccolo, senza nessuno che se ne prendesse cura? Non aveva pensato a quest'altro aspetto, terribile, che si inseriva in una lista già opprimente. Quella bambina non era sola, almeno. Era mano nella mano con la nonna, forse, o una zia, o anche solo una persona che l'aveva trovata. Ma i suoi occhi esprimevano tutta l'angoscia e il nero più nero di una realtà impossibile da accettare. E Alberto ne provò pietà.

La vecchia proseguì, tirando la bambina per la mano, come se quell'auto fosse solo un'ombra comparsa improvvisamente sulla sua strada. Sembravano dirigersi verso uno dei moli più vicini. Alberto mise in folle e aprì la portiera. «Ehy!» gridò. «Signora!" Non ebbe nessuna risposta. Le due figure continuavano a camminare verso il lago, anche se la piccola, che sembrava tirata a forza, si era voltato a fissarlo. Le seguì e quando misero i piedi sulla prima asse di legno della banchina, la bambina cominciò a piangere, impuntandosi. «NOOO! NON VOGLIO!» urlava, disperata. «VOGLIO LA MIA MAMMA!» La vecchia prese a trascinarla, senza degnarla di uno sguardo e Alberto, d'un tratto capì.

«COSA FA? SI FERMI!» Iniziò a correre, mentre gli strilli della bambina aumentavano. Si lanciò sul molo mentre la donna giungeva all'altro capo, dove si fermò. Si voltò e lo guardò con occhi ancora più spenti, perdendo la presa con la mano della piccola che scappò urlando, verso di lui. Le si avvinghiò intorno, tremando come una foglia. Alberto ricambiò l'abbraccio ma aveva lo sguardo fisso sulla vecchia che stava contemplando l'acqua. «Aspettami qui cara. Torno subito. Non ti muovere.» le disse. «Signora, venga con me.» Era ormai a pochi metri, quando vide che stava per buttarsi nel lago. Riuscì a bloccarla appena in tempo, afferrandola per le spalle. Lei provò a divincolarsi ma la sua presa era più forte. «La smetta! Venga con me. Starete al sicuro, glielo prometto.»

Lei sembrò svegliarsi dal torpore. «Nessuno è al sicuro! Le forze di Satana sono state sguinzagliate! Ci prosciugheranno tutti e quando avranno finito se ne andranno, lasciando solamente una distesa di gusci vuoti!»


Il primo tratto di autostrada filò liscio. La donna e la bambina dormivano profondamente sui sedili posteriori, accoccolate una accanto all'altra. La vecchia, di cui Alberto non aveva ancora saputo il nome, era ricaduta subito nel suo torpore e, accompagnata quasi a forza alla macchina, si era messa subito a fissare fuori dal finestrino, fino a scivolare nel sonno. Aveva estrapolato qualche informazione da Marta, la piccola, che, un po' piangendo, un po' sgranando gli occhi pieni di paura, aveva detto di avere otto anni e aveva raccontato di aver visto un mostro viola portar via i suoi genitori mentre era chiusa nell'armadio. «Esci solo quando non c'è più nessuno in giro, come Giosuè.» le aveva detto il suo papà, dandole un bacio. Alberto le chiese chi fosse Giosuè. «Il bambino di Benigni!» aveva risposto, un po' indignata. Poi si era rimessa a piangere. Le aveva chiesto se la signora fosse sua nonna. «No, l'ho trovata in strada.» rispose, tirando su con il naso. «Mi ha preso la mano e mi ha detto che dovevamo scappare nel lago prima che tornassero a prenderci.» Alberto si accorse che tremava mentre parlava. Le disse che poteva mangiare e bere quello che voleva se ne aveva voglia. Aprì un sacchetto di patatine, ma era ancora pieno a metà quando anche lei si addormentò.

Dopo circa cinquanta chilometri avvistò la prima bolla; era enorme e copriva quasi interamente la zona di campagna, intorno ad alcune aziende agricole, che costeggiava l'autostrada. Ne aveva viste un numero imprecisato ormai e si era, per così dire, abituato, ma rimaneva comunque sempre uno spettacolo pietoso a cui assistere. Era stipata di persone ed era facile intuire fossero stati tutti prelevati dalle loro auto, abbandonate in mezzo o sul ciglio della carreggiata. Ne avevano incontrate e superate già alcune, ma Alberto sapeva che sarebbero presto aumentate di numero. Infatti, dopo poco, cominciò a scorgere in lontananza le prime vetture in colonna, ferme. In una normale giornata di una qualsiasi normale vita, avrebbe bestemmiato, inserendo le quattro frecce per segnalare l'imminente rallentamento. Ma quel giorno di normale non c'era nulla.

«Ci hai salvate solo per portarci in bocca al leone?» La voce della vecchia arrivò, gracchiante, all'improvviso. Alberto trasalì nel vederla fissarlo dallo specchietto retrovisore, quando ancora credeva dormisse. I suoi occhi, verdi e bellissimi, continuavano a essere spenti e privi di qualsiasi vitalità.

«Non ci cagano mentre fanno... quella cosa!» le rispose, incurante del linguaggio.

Lei cominciò a piangere. «Hanno preso le mie figlie e miei nipoti.» Singhiozzava. «Perché non mi hai permesso di raggiungerli? Era quella la volontà di Dio Padre!»

«Perché non deve lasciarsi andare.» rispose Alberto, aggrottando la fronte. «E perché non sono morti.»

Lei lo guardò stupita, asciugandosi le lacrime, poi rivolse nuovamente lo sguardo alla bolla. «Non sembrano vive quelle persone.»

«Non sono morte. E forse possiamo ancora salvare tutti.»

La donna si appoggiò allo schienale. «Solo il Signore può salvarci.» Abbassò la testa e cominciò a mormorare parole a bassa voce. Stava pregando. Alberto sospirò. "Ci mancava solo una fanatica!" pensò. Aveva sempre avuto un pessimo rapporto con la religione e tutto quello che gli girava intorno. In generale non sopportava l'eccessiva ostentazione delle idee: si poteva credere, per carità; si poteva andare a messa, anche se l'aveva sempre considerata una perdita di tempo; ma andava in bestia quando gli veniva spiattellata in faccia, con l'arroganza di chi è convinto che le proprie idee siano sempre quelle giuste e perfette, la presenza di una qualsiasi forma di dio, dotato di poteri fantasmagorici, capace di risolvere qualsiasi problema. Per quel che aveva potuto constatare nessun dio si era mai palesato quando veniva invocato. Se veramente c'era, perché non era sceso a fermarlo, quella maledetta sera in cui la sua vita aveva sterzato, decisa, verso l'inferno? "Perché Dio non interferisce con il libero arbitrio!" era una delle frasi più gettonate che un credente usava per giustificare e giustificarsi.

"L'unico dio reale è quello che è arrivato ieri!" avrebbe voluto dire Alberto, per interrompere quel fastidioso sussurro che la donna emetteva. Ma tacque.

«Mamma! Dov'è la mia mamma?» Marta si era svegliata, ricominciando a piangere. La vecchia, tirata su la testa, le accarezzò i capelli e piano, piano riuscì a calmarla. La bambina riprese il sacchetto di patatine che aveva lasciato e in un attimo lo svuotò. «Dove andiamo?» chiese.

«A cercare delle persone.» rispose Alberto. «Se le troviamo potremmo salvare la tua mamma e il tuo papà.» Marta sorrise, con la bocca piena di residui di patatina.

«Non devi promettere queste cose, se non sei sicuro di mantenerle!» sussurrò la donna con lo sguardo stanco.

«Ma io sono sicuro, signora! La fiducia e la speranza sono le uniche armi che possono farci andare avanti, in questo momento.» Non che lo pensasse veramente, ma non voleva mostrarsi remissivo davanti a quella donna. «Forse dovrebbe provarci anche lei.» aggiunse, sentendosi un po' Franco de Simone.

«Io ho fiducia e speranza. Nel nostro Signore, Dio Padre. Lui veglia su di noi e il suo sguardo d'amore ci proteggerà sempre.»

«Lo vada a dire alle persone nelle bolle!» Non era riuscito a frenare la lingua in tempo. Sapeva bene come finivano le discussioni con gente come quella donna.

«Sei un blasfemo! Non è certo colpa di Dio se veniamo puniti per i nostri peccati!»

«Quindi, secondo lei, quel mostro è qui per punirci? E che colpe avrebbe questa bambina, per essere stata privata dei suoi genitori? Me lo spiega? O gli stessi bambini che sono dentro le bolle! Cos'hanno fatto di così tremendo per meritare tutto questo?»

«Pagano le colpe di noi adulti! Dio Padre ci ha detto...»

«Aah! Lasci perdere, su!»

Lei lo fissò con occhi colmi di rabbia. «Sei un piccolo uomo senza Dio!»

«Va bene, come vuole lei.»

Erano intanto arrivati allo sbarramento; la maggioranza delle auto erano ferme in colonna, a formare una coda che pareva più ordinata del normale; alcune avevano tamponato quella davanti, altre avevano sbandato, finendo contro il guardrail che divideva le due corsie e ne vide una decina capottate nel campo. Dovette ridurre di parecchio l'andatura, ma sfruttando la corsia d'emergenza, riuscì a procedere. In alcuni casi trovò sbarrata anche quella, ma l'auto che la bloccava, mancava dal centro della strada e, in qualche maniera, riusciva a passare. Proseguirono in questa maniera per alcuni chilometri, poi la strada tornò sgombra, in prossimità della fine della grande bolla nei campi.


Il viaggio proseguì abbastanza agevolmente, senza grandissimi intoppi. Ogni tanto incappavano in una nuova bolla con il conseguente sbarramento di macchine nelle corsie, a volte piccolo e veloce, altre volte più intricato. Solo in una occasione trovò la strada bloccata da tre vetture che si erano fermate di traverso; appoggiando il paraurti della SAAB a una di queste e spingendo, dando gas, era riuscito ad aprirsi un varco. Probabilmente la macchina di Franco aveva riportato alcuni segni, ma immaginava che il vecchio non si sarebbe lamentato della cosa, soprattutto se fosse riuscito a portargli il gruppo di persone che lui voleva. Si fermarono un paio di volte a espletare i bisogni fisiologici e per un po' chiacchierò con Marta, riuscendo a distrarla e a farla ridere. La donna non spiccicò quasi parola per tutto il tempo, nemmeno quando lui, cercando di smorzare la tensione creatasi, le chiese il nome. Non poteva sapere che tipo di persona fosse prima dell'arrivo dell'alieno, ma la donna che vedeva adesso pareva sull'orlo di un precipizio, lo stesso da cui lui l'aveva salvata. Solo fisicamente però. Doveva tenerla d'occhio.


L'orologio di Francesca segnava le 14.30 quando Alberto imboccò lo svincolo per San Lazzaro di Savena. Era stanchissimo e sudato, nonostante l'aria condizionata provasse a rinfrescare l'abitacolo. L'aveva accesa quando da fuori aveva cominciato a entrare aria umida e appiccicaticcia. Facendo la gimkana tra le macchine ferme superò il casello, poi si fermò. Marta e la vecchia si erano nuovamente assopite, ma l'arresto destò la donna. «Che succede?»

«Siamo arrivati a San Lazzaro. Ora devo capire come arrivare a Ozzano.»

«Chi speri di trovare in questa Ozzano?»

«La persona più importante!» rispose, mentre prendeva in mano la cartina. Aveva scelto di cominciare la sua personale caccia da lì, seguendo la sensazione indotta dal commento scritto da Franco a fianco del nome di Erika Bucci. "Ultima guarita, parte più potente di energia?" La sensazione era che trovare prima lei avrebbe reso più facile la ricerca degli altri. "Ma forse è solo una stronzata!" pensava.

Rimpiangendo ancora la mancanza di un navigatore satellitare, ripartì, tenendo la mappa aperta sul cruscotto. Aveva, più o meno, individuato il percorso da fare, anche se non ne era del tutto sicuro. «Non dovrebbe essere così difficile da trovare sto paesino!» La donna lo osservava stancamente ed era difficile capire se fosse realmente interessata a tutto quello che stava capitando. «Comunque è di là!» continuò Alberto, indicando con la mano alla sua destra.

Uscì al primo svincolo della tangenziale; non avrebbero avuto altra scelta, visto che lo sbarramento di auto, da lì, sembrava invalicabile, come aveva avuto modo di notare già in autostrada che, nell'ultimo tratto percorso, costeggiava proprio la tangenziale. Giunti a una rotonda, prese il secondo svincolo, da dove si dipanava un lungo rettilineo. Le strade sembravano abbastanza sgombre e, fortunatamente, in quel punto, non si scorgevano bolle.

Imboccò l'uscita proprio mentre, nel senso di marcia opposta, un'altra macchina entrava in rotonda. Lì per lì Alberto credette quasi a un miraggio, ma quando la Polo argentata suonò il clacson e sentì udire la donna gridare: «Una macchina!» ebbe un sobbalzo al cuore e di colpo, frenò. La vecchia lo guardò di traverso, mentre con la mano bloccava in tempo Marta che, ancora addormentata, stava per essere sbalzata in avanti. Senza indugio scese dall'auto e vide la Polo ferma sul ciglio opposto. Un uomo era in piedi, a fianco, un uomo alto e grosso. «Che omone!» sentì squittire dietro di lui. Marta e la donna erano scese e la piccola si stava stropicciando gli occhi, ancora un po' impastati dal sonno.

«Non ci credo!» disse l'uomo, venendogli incontro. «Non potete immaginare la gioia di incontrare delle persone in questa landa desolata. Qualcun altro che è scampato a quelle dannate bolle!» E senza alcun preavviso abbracciò Alberto che, dopo un momento iniziale d'imbarazzo, ricambiò goffamente. Qualcosa ribollì appena dentro di lui.

«Siete di queste parti? Come vi chiamate?» chiese l'uomo, porgendogli la mano.

«Alberto.» rispose, stringendola. «La piccola, Marta, e la signora...»

«Laura!» intervenne la donna. I suoi occhi avevano ripreso vitalità, mentre, affascinata, contemplava quella figura magicamente comparsa davanti a loro.

«Non siamo della zona, veniamo dalle montagne. Siamo in cerca di alcune persone.»

«Una l'avete trovata! Molto lieto. Sul serio, molto, molto lieto.» Stava stringendo calorosamente la mano di Alberto con entrambe le sue e aveva gli occhi lucidi. «Mi chiamo Roberto Nani, ma per tutti sono Edicola. Voi, però, per favore, chiamatemi solo Roberto.»

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