29 - L'ARMADIO DEI RICORDI (1)

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Rabbia, frustrazione, disperazione. Dentro a Ismel era rimasto solo un calderone di sensazioni brutte, le sensazioni spiacevoli che fanno vedere tutto nero, a prescindere. La speranza di successo, l'esaltazione per ciò che aveva fatto, la serenità e la rilassatezza che provava mentre assorbiva l'energia... Tutto svanito. O almeno, lui non le sentiva più. La distruzione della sentinella era stata per lui, un colpo durissimo. E non solo morale, ma anche fisico. Aveva percepito il dolore, l'impotenza e qualcosa di suo che veniva strappato via, irrimediabilmente. Stava per sconfiggere l'omone e ci aveva creduto sul serio. Non sembrava poi questa gran minaccia; aveva provato a fare chissà che con le mani, ma non era successo nulla, nemmeno quando si era arrabbiato e il potere dentro di lui era cresciuto d'intensità. Ismel l'aveva sentito vibrare, come aveva vibrato il suo di risposta. Dopotutto quel potere era sua sorella o, meglio, una parte di essa; un potere enorme, a cui lui era in qualche modo legato. Ma aveva appurato che quelle persone, nonostante l'immensa forza che gli era stata donata, erano pur sempre uomini (e una ragazzina), mortali, deboli contro le sue sentinelle, molto più forti sotto ogni aspetto. I suoi soldati non riuscivano ad avvicinarsi a loro, usando l'energia, ma senza, sì. Alla "vecchia maniera", come aveva detto l'omone, e potevano essere schiacciati come insetti. E stava accadendo, anzi, poteva già essere accaduto se la sentinella avesse colpito l'omone nel modo giusto, al primo tentativo; una botta in testa, data da una delle mani dei suoi soldati, sarebbe bastata. Ma non era accaduto! Era intervenuto l'altro, il suo compare e, chissà come, aveva sprigionato l'energia, e lui aveva solo potuto assistere inerme alla sconfitta del suo soldato. Il risultato era stato che aveva perso uno dei suoi e la quantità d'energia che lo formava si era dissolta nell'aria, mentre quei due erano ancora vivi, così come la ragazzina, che, in quel momento, aveva perso di vista. Del ragazzo grasso non aveva più saputo nulla, assolutamente niente. L'unica volta che l'aveva visto era stato nella strada adiacente a quel capannone, e il fatto che l'omone e il suo compare fossero proprio lì, era un forte indizio che forse si erano incontrati. Cominciava a temere che potessero essercene degli altri e aveva il fortissimo presentimento che loro lo sapessero. Li stavano cercando? Si trovavano lì per questo? Quasi sicuramente sì, altrimenti perché separarsi dalla ragazzina? Perché scindere l'energia? Perché indebolirsi? Insieme erano molto, molto più forti. Aveva commesso un errore, ora lo capiva. Si era lasciato sopraffare dall'ingordigia, come la chiamavano su quel patetico pianeta. Aveva estratto quasi tutta l'energia dalle persone, si era rafforzato oltre le sue più rosee aspettative, eppure era ancora lì che succhiava, mentre lasciava scorrazzare serenamente gli unici individui che potevano seriamente sconfiggerlo. Aveva dato ascolto alla parte sbagliata di sé. Un'idea agghiacciante s'insinuò in lui come una lama, un'idea talmente terribile che ne sentiva il peso e gli procurava dolore: stava diventando uno di loro! Aveva subito assunto le loro sembianze, appena arrivato; era stato necessario e, fondamentalmente, non aveva avuto scelta; poi, lentamente, assorbendo l'energia, stava cominciando a pensare come loro, a provare le loro paure, a gioire come gioivano, a sbagliare, cadendo negli stessi errori che commettevano. In pratica, più si rafforzava, più s'indeboliva! Scacciò subito questa fastidiosa mosca dalla sua testa. Come poteva pensare questo? Lui non era come loro e mai lo sarebbe stato! Era più forte, li aveva svuotati del tutto, quasi tutti, e poteva prendersi l'intero mondo. Aveva fatto un errore, ma poteva rimediare. Nulla era compromesso! "E ho fatto bene a rimanere! Se me ne fossi già andato, il potere di mia sorella sarebbe rimasto libero, incontrollato. Sarebbero venuti a cercarmi un giorno, chissà. E poi?"

Intanto aveva concluso l'estrazione anche la sentinella nella bolla più grande di tutte (in Cina); aveva quindi ordinato a tutte le altre, precedentemente sguinzagliate alla ricerca di eventuali fuggiaschi, di rientrare. Era inutile perdere altro tempo; ormai disponeva del potere sufficiente per eseguire i progetti che aveva in mente. Si ripromise che, a vittoria conquistata, avrebbe valutato se andare a prendersi anche gli ultimi barlumi rimasti, nei pochi (ne era sicuro), eventuali sopravvissuti. Ora era il momento di agire in prima persona.

Uscì dalla sfera, nudo, nel corpo che si era costruito intorno. L'esercito di sentinelle, ognuna rimpicciolita più o meno alla grandezza di uno scarafaggio, copriva quasi del tutto l'area davanti a lui, racchiusa dalla grande bolla che li sovrastava. Contemplò il suo esercito con orgoglio e una punta di tristezza; non aveva più bisogno di loro, prima di quel che Ismel si era figurato. Erano stati perfetti nel compito di acciuffare e svuotare gli individui di quel pianeta, ma a quanto pareva erano inutili nel combattere il potere di sua sorella. Dopotutto, non erano stati creati per questo, un "questo" che nemmeno pensava di dover fronteggiare! Tenerle in vita voleva dire rischiare di perdere altra preziosa energia e non voleva che succedesse.

Alzò le braccia e tenne i palmi ben distesi, rivolti verso di loro: una luce, molto intensa, riempì per intero la bolla, brillò per qualche secondo, poi vorticò tutta insieme dentro a Ismel come l'acqua di una vasca a cui è stato tolto il tappo improvvisamente. Infine, si spense, lasciando una miriade di minuscoli omini viola accasciati sull'erba, inermi, ma, nonostante tutto, ancora sorridenti.


Veronica e Andrea salirono in macchina, rendendosi subito conto che il proposito di comunicare a Camilla il loro fidanzamento, era semplice da pensare, ma parecchio difficile da mettere in pratica. Soprattutto quando entrambi videro i suoi occhi e lo sguardo che aveva, mentre si sedevano.

«Non è qui.» disse subito Veronica, come a voler focalizzare tutta l'attenzione di quell'auto sul problema Bito. Ma sapeva bene, come lo sapeva Andrea, che l'unica persona a cui interessasse realmente dove si era rifugiato quel bastardo insieme alla piccola Marta, era Laura. E tutti e due si sentivano in colpa per questo.

«Oddio! Allora dove può essere?» Laura batteva i pugni sul volante, in lacrime.

«Forse è andato a casa sua.» rispose Veronica poggiando una mano sulla spalla della vecchia signora. «So dove abita.» Laura si voltò e la guardò. «Ce l'ha detto lui, quando lo incontrammo la prima volta.» La voce le tremò ripensando a Dalila. «È un piccolo borgo, circa un chilometro dietro la stazione di Ozzano. Ci ha anche descritto la casa, più o meno.» Si sentiva a disagio per il modo in cui la fissava Laura.

Non piangeva più, ma nemmeno sorrideva. La fissava senza distogliere lo sguardo, come se rimuginasse qualcosa. Poi si girò, mettendo in moto la Polo. «Ozzano! È il paese dove voleva andare Alberto inizialmente, prima che incontrassimo Roberto. Diceva che lì abitava la persona più importante. Eri tu?»

Veronica la guardò con la coda dell'occhio, sorpresa dal tono con cui le stava parlando. «Non ne ho idea.»

«Anche noi abitiamo... abitavamo a Ozzano. Forse cercava mio padre.» intervenne Andrea, mentre sorrideva a Camilla che però, aveva lo sguardo perso sul paesaggio che scorreva fuori dal finestrino.

«Quindi, per di qua?» chiese Laura, pigiando l'acceleratore. Veronica annuì. «Perché ci avete messo così tanto?» chiese poi, buttando lì la domanda, senza nessun preavviso, senza nessun giro di parole e la tensione all'interno dell'abitacolo, crebbe all'istante.

Camilla si risvegliò dal torpore che sembrava avvolgerla, girò la testa e fissò Andrea. «Io credo di saperlo.»

«Cioè?» Laura la scrutava dallo specchietto.

«Ne hanno approfittato per fare i piccioncini, non è vero?» Ora aveva gli occhi fissi su Andrea che faticava a reggere lo sguardo. «Perché è questo che siete adesso. Una coppia di piccioncini, di tortorelle. Mi sbaglio?»

«Camilla... ti prego...» Le parole uscirono dalla bocca di Andrea quasi in un sussurro.

«Ditemi che non è vero! Per favore, ditemelo!» Laura faticava a tenere gli occhi fissi sulla strada, calamitati su Veronica, poi su Andrea, a bocca aperta, incredula, ma con una bolla di rabbia nella gola, pronta a scoppiare.

«Ma no... è che...»

«Sì, è vero!» Veronica interruppe, decisa, i farfugliamenti del ragazzo, girandosi e piantando due occhi combattivi sul viso di Camilla. «Ci siamo baciati e credo di poter dire che ci siamo messi insieme. Andy?»

Andrea era rosso paonazzo e teneva la testa bassa, incapace di guardare Camilla e la maschera che aveva in quel momento sul viso; né tantomeno Laura, anche lei rossa in faccia, ma di rabbia. «Sì.» disse, quasi in un sospiro.

«Io non ci posso credere!» esordì Laura, completamente fuori di sé. «Quella povera creatura è chissà dove, rapita da quell'infame, senza Dio! Noi siamo la sua unica speranza e voi vi baciate?»

«È stata una cosa improvvisa, non programmata. Ed è durato un attimo.» cercò di giustificarsi Veronica con la voce che le tremava, travisando un po' la verità.

«Già! Talmente improvvisa che avete aspettato di essere da soli, in un punto dove nessuno poteva vedervi!» Era chiaro che Camilla stesse soffrendo quella situazione, ma il ghigno che aveva nell'accusarli, creava un terrificante contrasto di emozioni sul suo viso, deformandolo e facendolo apparire terribilmente simile a quello di una sentinella. Andrea stentava a credere che quello fosse lo stesso viso che aveva guardato e baciato negli ultimi due giorni.

«Siete due egoisti! Ecco cosa siete! Non ve ne frega nulla di Marta.» riprese Laura.

«Non è vero! Questo non è assolutamente vero!» Le lacrime avevano cominciato a rigare il viso di Veronica. «Saremmo arrivati un minuto prima. Cosa sarebbe cambiato?»

«Cosa cambia? Mi chiedi cosa cambia? Anche solo un secondo può fare la differenza in queste situazioni, ragazzina!»

Andrea voleva chiedere a Laura perché non invocasse più Dio, ora che serviva palesemente un aiuto tangibile al posto di una preghiera, ma si trattenne, sicuro che avrebbe solamente peggiorato la situazione.

Camilla lo fissava e sorrideva sempre più malevolmente. «Avete anche scopato? Magari solo una sveltina, no? Hai trovato molte differenze tra le sue tette e le mie?»

Veronica, singhiozzando, si voltò a guardarla, quasi non credendo alle proprie orecchie.

«Camilla, basta!» disse Andrea.

«E sotto com'è? Calda e accogliente, com'ero io? Eh?»

«Smettila...»

«Te l'ha fatto venire subito duro...»

«BASTA!»

Laura sobbalzò e, d'istinto, mise il piede sul freno. Stridendo la Polo sbandò appena, poi s'arrestò. A Camilla era rimasto solo il ghigno, mentre il resto della sua espressione era mutato all'improvviso, sprofondando nella più cupa tristezza velata di stupore.

«Smettiamola! Tutti! Altrimenti non concluderemo nulla.» Andrea aveva accantonato l'imbarazzo e ritrovato un po' di grinta. "Dopotutto," pensava, "non abbiamo fatto nulla di male." «Laura, ti chiediamo scusa. Ci siamo lasciati trasportare. Hai ragione, non possiamo permetterci di perdere tempo, ma non dire che non ce ne frega nulla di Marta, perché è offensivo.»

«Ci amiamo e Dio sa quanto può essere importante amare in questo momento.» aggiunse Veronica rivolta a Laura che teneva lo sguardo fisso sulla strada davanti a sé. Non rispose, ma sembrava avere lo sguardo più disteso.

«E tu... perché ti umili così?» continuò Andrea cercando la mano di Camilla, che la ritrasse. «Ti chiedo scusa per averti fatto soffrire, ho sbagliato. Credevo sul serio di voler stare con te, ma avevo solo una gran confusione dentro. Amo Veronica, ora lo so per certo, e non volevo prenderti in giro.»

La ragazza si girò e riprese a guardare fuori dal finestrino. Non sorrideva più. Sbuffò e con la mano batté sul poggiatesta di Laura. «Non avevamo fretta di andare da Marta?»

La vecchia fece sì con la testa, rimise in moto e partì.

Veronica si girò appena, con la speranza di scorgere negli occhi della ragazza una piccola scintilla di comprensione, ma trovò indifferenza e tanta, tanta tristezza. Camilla non si voltò e lei tornò a concentrarsi sulla strada. Avrebbe voluto stringere la mano del suo ragazzo, ma pensò che, per il momento, poteva bastare così.


Tornare a Ozzano fu doloroso, sia per Veronica che per Andrea. Il paese era sventrato, alcuni palazzi erano parzialmente caduti per i troppi buchi causati dalle ricerche delle sentinelle. C'erano macchine abbandonate ovunque e animali che s'aggiravano, liberi e inquieti, per le strade. Era uno spettacolo che, purtroppo, avrebbero potuto vedere ovunque, ma quella era la loro casa, il posto in cui erano cresciuti, dove erano andati a scuola, dove avevano giocato con gli amici, dove avevano scartato i regali di Natale. E dove c'erano Riccardo e Lina, o almeno, i loro corpi.

Avevano incontrato l'ultima bolla al Botteghino, in lontananza, al di là del fiume e Camilla si era messa a piangere pensando al piccolo Giò, imprigionato là dentro, e ai suoi genitori, presenti forse anche loro. Al Farneto, invece, non c'era più nulla, né la cupola arancione, né la sentinella. Solo una macabra distesa di corpi immobili, sul prato della chiesa. Andrea aveva insistito per fermarsi e andare a controllare se qualcuno, chissà, fosse ancora vivo, ma l'idea fu bocciata. «Troppo pericoloso. E non voglio più perdere tempo.» gli aveva risposto Laura.

«Deve aver concluso il suo lavoro, qui.» aveva provato a ipotizzare Veronica. «Forse è in giro in cerca di quelli che sono riusciti a nascondersi, oppure di noi. Stiamo all'erta!» Ma nessuna sentinella era comparsa. Così come le bolle: tutte sparite, almeno nella strada che avevano percorso. Solo corpi ammassati, al loro posto.

«Se ne sono andati?» chiese Laura. «È finita?»

«Ne dubito.» intervenne Camilla che, dopo la discussione avuta, aveva assunto il paesaggio fuori dal finestrino come unico e principale interesse.

La vista di quelle persone afflosciate come sacchi vuoti faceva sempre più crescere l'agitazione di Veronica che continuava a spostarsi sul sedile, in preda a un'ansia sempre più crescente. Aveva un pensiero nella testa che rimbalzava come una molla impazzita, inviando continui impulsi al cuore, che le martellava forte. Si chiese se anche per Andrea era lo stesso e fu più volte tentata di girarsi, anche solo per guardarlo negli occhi e cercare di scorgere le stesse emozioni che stava provando lei. Ma l'ansia cresceva, ogni altra cosa che poteva passarle per la mente si dissolse. In testa aveva solo l'immagine di suo padre, sdraiato per terra, davanti al loro condominio. Sperava fosse Andrea a parlare, ma dietro di lei tutto taceva.

Disse a Laura di svoltare a sinistra, nella strada che, dopo un centinaio di metri, sarebbe passata davanti alla sua casa e che portava verso la zona in cui, forse, abitava Bito. «Ci dobbiamo fermare.» buttò lì, all'improvviso.

Laura la guardò per un momento. «Dove? Siamo già arrivati? È qui che abita quell'uomo? Avevo capito dietro alla st...»

«No, ma ci abitiamo, o abitavamo io e Andrea. E nel giardino in mezzo ai nostri condomini ci sono mio papà e sua mamma. Potrebbero essere vivi, aver bisogno di noi. Ti devi fermare!» Aveva caricato la voce di tutta la grinta che riusciva a tirar fuori in quel momento, ma non era riuscita a nascondere del tutto il tremore che l'ansia e la speranza, le procuravano.

«Sono morti! Cosa credi?» disse Camilla, cinicamente.

Andrea diede un pugno contro lo sportello. «Questo non lo puoi sapere con certezza!»

«E io voglio controllare.» Veronica si era voltata, in lacrime, lanciando un'occhiata carica d'odio verso la ragazza. Laura si schiarì la voce. «Dobbiamo andare da Marta. Avevamo...»

«FERMATI! QUI! ADESSO!» Tutti sussultarono nell'auto, compreso Andrea. Veronica era esplosa come nessuno si sarebbe mai aspettato da una ragazzina di undici anni che trasmetteva una così dolce immagine di sé. La Polo s'arrestò proprio davanti alla rampa del garage da dove, solo due giorni prima, era uscita. Andrea e Veronica scesero al volo e corsero verso i pochi scalini che portavano al giardino, facendoli due alla volta. Ma arrivati in cima s'arrestarono, di colpo, a bocca aperta. Lo spettacolo davanti ai loro occhi era terribile, angosciante, quanto di più sconvolgente un occhio umano potesse sopportare di vedere. Il cortile era una distesa di esseri umani, ammassati in maniera disordinata, mortalmente immobili. Un intrico di braccia e piedi, mani e teste, schiene e gambe, aggrovigliati tra loro, come fili d'erba tagliati. Altre lacrime scesero dagli occhi di Veronica, rinnovando l'umido sulle sue guance; sentì qualcosa che la sfiorava: era la mano di Andrea, che cercava la sua. Lo guardò e vide le stesse emozioni navigare nel suo sguardo. Strinse la presa, concentrando tutto l'amore che provava per lui in quel contatto, trasmettendo tutto il bisogno d'affetto di cui aveva bisogno in quel momento. Il silenzio era totale, profondo; pareva quasi di vederlo e di poterlo toccare, come fosse una seconda bolla, opaca questa volta, che si fosse posata sulla zona. Veronica ne sentiva il rimbombo dentro alle orecchie che pulsavano procurandole dolore.

«Non c'è puzza! E nessun animale.» La voce di Andrea parve arrivare da un altro mondo e spezzò il fastidio che Veronica provava. Lo guardò senza dire nulla, cercando di dare forma e significato a quei suoni che la sua bocca aveva appena emesso. Andrea colse il suo smarrimento. «Se fossero morti si sentirebbe un qualche odore. Certo, non sappiamo da quanto la sentinella se ne è andata, però, annusa. L'aria sembra asettica, non si sente nulla.»

Veronica annuì distrattamente. Le sembrava di essersi appena risvegliata da una lunga dormita.

«E gli animali? Dove sono? Generalmente una presenza di carne umana come questa, immobile e disponibile, li attira come calamite. Ma qui non c'è nulla.» continuò il ragazzo.

«Già! Non c'è nulla.» aggiunse Veronica, a denti stretti. «Vieni.» Tenendogli la mano, s'incamminò verso sinistra, sul sentiero che faceva da perimetro al giardino. Aveva ragione lui: la zona in cui la sentinella aveva eretto la sua bolla era diventata... neutra. Nessuno odore, nessun rumore, nessun movimento, niente di niente. Anche i colori parevano sbiadire e tendere verso un anonimo e terrificante bianco e nero. Conosceva la maggior parte delle persone che scorgeva, ma anche i visi meno noti suscitavano una profonda tristezza nel suo cuore e, immaginava, pure in quello di Andrea. Scorse i due bambini che aveva visto trascinati fuori dal loro appartamento, accasciati uno di fianco all'altro, la manina del più piccino sul petto dell'altro, come se fino all'ultimo avesse cercato la sua protezione. Su tutti i visi che riusciva a vedere era rimasta la stessa espressione che avevano all'interno della bolla, ma se prima pareva lo sguardo inebetito di qualcuno privato delle proprie facoltà, ora sembravano solamente atroci grida senza voce, mozzate prima di nascere.

Quasi davanti all'ingresso del suo condominio vide Max, a faccia in giù, ai margini del sentiero. Ebbe l'impulso di fermarsi, ma proseguì, stringendo più forte la mano del suo ragazzo che tremava leggermente nella sua. Ricordava bene dove aveva visto per l'ultima volta il suo papà e Lina, finiti nella bolla e poi abbandonati su quell'erba insieme, com'erano ora insieme i loro figli, disperatamente alla loro ricerca e ingenuamente speranzosi di poter fare qualcosa per riaverli, in qualunque modo possibile. Veronica li vide quando ancora erano a dieci metri, sdraiati davanti al condominio di Giancarlo, e di colpo si fermò. Aveva riconosciuto i lunghi capelli neri di Lina che, da quella distanza, parevano uno scialle adagiato sulla schiena. A fianco riconobbe suo padre.

«Cosa c'è?» chiese Andrea.

«Sono là.»

«Te la senti?» Gli tremava la voce.

Lei lo fissò, in lacrime, e lo baciò. «Andiamo.»


Laura tamburellava nervosamente le dita sul volante, mentre allungava il collo per tentare di scorgere i due ragazzini, spariti parzialmente dalla vista una volta inoltratisi all'interno del giardino. Era rimasta un po' offesa per il modo sgarbato con cui Veronica l'aveva trattata, pur comprendendo il suo stato d'animo. Sembrava però che nessuno comprendesse quanto stesse soffrendo lei per le sorti di Marta. Continuava a pensare a quella bambina nelle grinfie di quell'individuo gretto e subito il cuore le martellava fino a farle male. Spense il motore, per non sprecare inutilmente carburante prezioso. Aveva pensato più volte a questo fatto: dove avrebbero trovato altro gasolio, quando fossero rimasti a secco? Era un grosso problema e presto avrebbero dovuto affrontarlo.

«Non li vedo più. Uff! Speriamo si sbrighino. Sapessi dove abita quello stronzo ... ops, scusa... ci andrei da sola. Sembra interessi solo a me di quella povera creatura.»

Camilla non la stava ascoltando; fissava fuori dal finestrino, senza in realtà vedere nulla. Il calore dentro di lei era aumentato e se lo sentiva scorrere in ogni fibra del corpo, come se le avessero versato acqua calda nelle vene. Ma se inizialmente aveva provato un senso di sottile disagio, ora si sentiva bene, arrivando quasi a provare piacere. E poi c'era la voce. Era comparsa più o meno alla fine della discussione che avevano avuto in auto, poco dopo il ritorno di Andrea e Veronica dalla capanna di Bito, e non si era più zittita. Non sapeva chi le stesse parlando e, forse, non le interessava. Più di una volta era stata sicura che fosse la sua stessa voce che stava sentendo, per poi essere smentita subito. Era quella di un uomo? Suo padre forse? No, era quella di Andrea. Ma era troppo acuta; sembrava la vocina di Giò, ma era diversa, troppo diversa. All'inizio si era sentita confusa, smarrita. Cosa le stava succedendo? Pensò che qualsiasi voce sentisse, chiunque le stesse parlando, era comunque un gran curioso, per tutte le domande che faceva, incessantemente. Le aveva chiesto dove fosse e con chi e lei aveva risposto. "Cosa state facendo?" Senza pensarci gli aveva detto anche quello. "Stiamo aspettando Veronica e Andrea. Stanno provando a resuscitare i loro genitori." Le era parso di sentire una risata rimbombare nella sua testa, ma non ne era sicura. Era tutto confuso, tranne la voce, ora nitida, chiara. "Dove andrete dopo?" "A salvare Marta." "La faresti una cosa per me, Camilla?" La richiesta si era stampata nella sua mente, come se qualcuno la stesse scrivendo con una macchina da scrivere. Udiva il rumore dei tasti e le dava fastidio. Quello che la voce voleva era terribile. "No! Non posso. Non ne sono capace." "Ti ricompenserò." Stavolta era un uomo che aveva parlato, un uomo che non conosceva. Aveva zittito tutte le altre voci e le aveva comunicato cosa le avrebbe dato in cambio. Camilla aveva sorriso e non aveva più smesso. Anche adesso, mentre Laura brontolava e aspettava il ritorno di Andrea e Veronica, era felice. Tutto sarebbe tornato alla normalità.


La porta dell'ascensore s'aprì e Francesca entrò nella grande e silenziosa fabbrica, illuminata dalla luce del sole che entrava dalle grandi vetrate sopra di lei. Impugnava con la destra la piccola pistola bianca e, prima di avanzare, stette un attimo immobile, ascoltando il silenzio e acuendo ogni senso, per captare ogni minimo segnale che potesse rivelare un intruso. Sapeva con certezza che Masi stava ancora vagando tra le stanze della casa, avendolo appena visto su uno dei tanti monitor dello zio, ma con quell'uomo, l'esperienza insegnava, bisognava sempre essere estremamente cauti.

Il loro piano era tanto semplice, quanto rischioso e improvvisato: Franco, seguendo gli spostamenti dell'uomo tramite i video, l'avrebbe guidata per tentare di sorprenderlo, o almeno, evitare che lo facesse lui. Ma per mettere in pratica quella strategia avevano bisogno di comunicare. Con grande disappunto il vecchio aveva appurato che il microfono e gli auricolari che aveva intenzione di usare non funzionavano, se per il blocco delle comunicazioni causato da Ismel o semplicemente per un loro malfunzionamento, non lo sapeva, e non aveva il tempo di appurarlo.

«Dobbiamo fare in un altro modo.» aveva detto. «Ti ricordi di Walky e Talky?»

Il viso di Francesca si era illuminato. «Certo che me li ricordo! Dio, adoravo quel gioco!»

Si riferivano a una coppia di walkie-talkie, o di ricetrasmittenti, come preferiva chiamarli Franco, che le aveva regalato per un Natale di tanti anni prima, opportunamente modificati alla sua maniera, e che usavano per giocare a una versione particolare di nascondino. «Li hai ancora?»

«Sicuro! Io tengo tutto. Purtroppo, però sono dentro a una scatola nell'armadio del mio ufficio, giù nella fabbrica.» disse, con lo sguardo accigliato.

«Vado a prenderli.»

«Non lo so Francy... È troppo rischioso! Il nostro amico non ci metterà molto a trovare l'accesso alla fabbrica. Mannaggia a me! Con tutto quello che ho inventato e scoperto, ci ritroviamo a dover usare due giocattoli di plastica!»

«Tranquillo zio. Sarò una scheggia, vedrai!» aveva risposto lei, afferrando la pistola e correndo all'ascensore.

Franco si voltò verso gli schermi e vide Masi che stava entrando nel suo studio. «Francy, aspetta!»

Le porte dell'ascensore si stavano aprendo e lei aveva già fatto un passo all'interno. Si bloccò. «Che c'è?»

«È troppo pericoloso. Potrebbe dirigersi verso la fabbrica all'improvviso, e io non potrei avvertirti.»

Lei tornò indietro, fissando gli schermi. «Dai. È lì che vaga a caso. Non sa nemmeno come arrivarci alla fabbrica!»

«La porta è proprio lì vicino. Non è difficile da trovare, tesoro.»

«Ok, ma quali alternative abbiamo?» Franco non rispose, continuando a fissare i monitor.

«Va bene. Allora mi piazzo davanti alla porta da dove dovrebbe uscire e gli sparo appena compare. Che dici?»

«No, no. Potrebbe uscire dalla baita e tentare di entrare in fabbrica dal portone. Non potrei avvisarti e te lo ritroveresti alle spalle.»

«Stiamo perdendo tempo prezioso, zio.»

«Hai ragione, vai. Fai presto, mi raccomando. E porta su anche una confezione di pile. Ce ne sono tante, dentro a una delle scatole.» disse, cercando di ignorare i brutti presentimenti che in un lampo l'avevano colpito.


Francesca si diresse decisa verso l'ufficio, uno spazio rettangolare di circa trenta metri quadrati, ricavato tra due pareti prefabbricate e i muri dell'angolo sinistro, sul fondo della vasta sala. A fianco riluceva il box in plexiglass contenente quella che ad Alberto era sembrata un'auto, ma che nemmeno lei, ora, sapeva cosa fosse in realtà. La nostalgia per il suo uomo la colpì in pieno, all'improvviso, come una fiocina, e tutta la determinazione che stava cercando di mettere nella missione, s'incrinò. I suoi passi echeggiavano nel silenzio, venendo amplificati dal grande vuoto sopra la sua testa e creando, almeno per le sue tese e spaventate orecchie, un rumore assordante. "Non fare la stupida adesso! Stai concentrata!" ma il viso di Alberto continuava a galleggiare davanti ai suoi occhi. Trattenendo più che poteva le lacrime all'interno degli occhi, arrivò davanti all'ingresso della stanza. L'ufficio era visibile anche dalla fabbrica, tramite una vetrata posta nella parete; era da lì, tanti anni prima, che lo zio aveva diretto il suo impero. Abbassò la maniglia e spinse in avanti: un sinistro e acuto suono perforò le sue orecchie e la coltre di vuoto che la circondava. Il cuore le sussultò mentre stringeva gli occhi e le spalle, come se potesse servire a silenziare la porta. "Bisogna oliare i cardini ogni tanto, zio!" Tastò con la mano il muro cercando l'interruttore; una vecchia e sporca plafoniera sul soffitto s'illuminò, irradiando una fioca luce. Francesca entrò, con la malinconia che ancora aleggiava nel suo cuore.


Pietro Masi uscì dalla sala della baita, entrando nel piccolo corridoio in cui s'aprivano quelle che sicuramente erano camere da letto e il bagno. Il suo obiettivo era la fabbrica, dove supponeva si fossero nascosti la donna e il vecchio; per questo aveva già adocchiato la porta in fondo all'andito, di fronte a lui. Ma non aveva fretta! Si sentiva tranquillo e voleva gustarsi il momento. Era consapevole di essere più forte delle sue prede e anche che non potevano scappare da nessuna parte, senza che lui li vedesse. Erano in trappola, sicuramente ben rintanati in qualche buco, come vili ratti, ma pur sempre in trappola. E certamente terrorizzati a morte. Amava incutere paura; avere nelle proprie mani il destino degli altri lo faceva sentire potente, e lui voleva essere potente, l'aveva sempre voluto, fin dal giorno in cui aveva deciso di smettere di essere un bambino e aveva cominciato a essere l'uomo che voleva essere. Che doveva essere! Ed era successo tutto non lontanissimo, da dove si trovava in quel momento.

Si sarebbe preso tutto il tempo che riteneva necessario, poi li avrebbe cercati, li avrebbe trovati e si sarebbe divertito un po', soprattutto con quella troia del direttore. Infine, li avrebbe spazzati via perché era questo che voleva. Francesca Fontana doveva morire! Non l'avrebbe consegnata all'alieno. Nel profondo del suo cuore aveva sempre saputo che non gliel'avrebbe mai consegnata, perché il desiderio che ardeva in lui e che lo tormentava, era di scoparsela, alla sua maniera, poi di ucciderla, facendola soffrire. E lui soddisfava sempre i suoi desideri. Sempre! Quel tale venuto da chissà dove non lo controllava più, ora ne era sicuro. Non lo sentiva più nella sua testa, non gli parlava più e non gli dava più ordini assurdi che lui, inizialmente, aveva solo fatto finta di eseguire, ingannando per lo più sé stesso.

Ispezionò ognuna delle stanze (due camere da letto, un bagno e un apparente studio, in disordine e ricolmo di libri, fogli e quant'altro) con distaccato interesse, tranne che per una minuscola curiosità che voleva soddisfare: la presenza in ogni locale di una piccola telecamera, installata in uno degli angoli del soffitto. Esattamente come aveva notato nella sala e nel corridoio, dove era stata posizionata proprio al di sopra della porta che, secondo lui, portava alla fabbrica. La curiosità fu soddisfatta. Ogni stanza era controllata, e sapeva molto bene che dall'altro lato di quei minuscoli dispositivi, c'era il vecchio che lo teneva d'occhio, ignorando però che anche il buon vecchio Masi stava tenendo d'occhio lui. Giocò un po', facendo finta di perlustrare le stanze, soprattutto lo studio, dove, vista la confusione, era più facile far credere di cercare qualcosa; sentiva quasi in bocca il sapore della loro paura, della loro tensione che cresceva e un rivolo di bava gli scese sul mento. Si asciugò con la manica, sorridendo.

Quando ritenne di essersi divertito abbastanza, tornò nel corridoio, si fermò davanti all'ultima porta e senza esitazione distrusse la telecamera, usando il raggio che gli usciva dalle mani, senza sapere bene il motivo per cui lo facesse. Abbassò la maniglia, ma l'accesso era chiuso a chiave. Con un mezzo sorriso sulle labbra usò nuovamente il suo potere, concentrando il raggio sulla serratura e sciogliendola in un attimo. La porta si aprì appena. Masi la spinse con la mano rivelando un corto passaggio, chiuso all'altra estremità da una seconda entrata che, al contrario della prima, si aprì subito.

La vastità della fabbrica colpì il suo sguardo e, anche se solo per un breve momento, riuscì a stupirlo. Rimase immobile per un minuto, riflettendo su come agire. Doveva scovare quei due, ma, sicuro lo stessero osservando, doveva prima di tutto mettere fuori uso le telecamere. Alzò lo sguardo, mirando l'altissimo soffitto pieno di vetrate e, seguendo un percorso a caso, girò la testa, scrutando il muro dietro di lui. Ed eccola lì, proprio sopra la porta da cui era appena entrato. "La prima di molte, immagino." pensò, considerando la grandezza di quel posto. Alzò le mani, facendo il ditaculo a chiunque lo stesse fissando, poi si concentrò per sparare nuovamente il raggio distruttore. Ma proprio in quel momento udì qualcosa rimbombare nel silenzio del capannone. Erano piccoli e secchi rumori ripetuti, amplificati dall'eco che abitava tra quei muri. Erano passi, affrettati, di chi sembrava andare da qualche parte con una certa urgenza. Masi s'irrigidì, cercando di capire da dove provenissero, guardandosi intorno, pronto a scattare se qualcuno fosse sbucato alla sua vista. Poi, d'improvviso, cessarono, seguiti subito da un suono acuto che lo trafisse come una lama, facendolo sussultare. Veniva dal lato della fabbrica opposto a dove si trovava, ma non poteva vedere cosa l'avesse prodotto, a causa dell'enorme quantità di oggetti che si frapponevano nel mezzo. Con attenzione si avviò quindi in quella direzione, addentrandosi tra quelli che potevano essere macchinari, la maggior parte coperta da lenzuoli bianchi, studiando il campo ogni volta che ne superava uno, finché non scorse, a circa venti metri da lui, un ufficio appena illuminato. All'interno c'era qualcuno, intento a rovistare in quello che sembrava essere un armadio. Masi si avvicinò un altro po', raggiungendo una larga colonna che si trovava a meno di dieci metri dal suo obiettivo, appiattendosi contro e scrutando l'ufficio con attenzione. La persona indietreggiò, tenendo qualcosa tra le mani che posò su una scrivania, poi sparì nuovamente dietro all'anta aperta. Improvvisamente il suo cuore ebbe un sobbalzo e gli disegnò in faccia uno dei sorrisi più radiosi della sua intera vita. Non credeva sarebbe stato così facile, ma, a quanto pareva, la fortuna o chissà cosa, gli aveva consegnato Francesca Fontana su un piatto d'argento.


Appena le porte dell'ascensore si richiusero, Franco controllò l'ora, non perché gli interessasse, ma per pura abitudine. Erano le 11.30 e lo stomaco cominciava giustamente a reclamare; ma non era quello il momento di pensare al cibo. Con aria distratta tornò a fissare i monitor di destra (che mostravano le varie stanze della baita), guardando Masi frugare tra le mensole del suo studio (dove, fortunatamente, non aveva lasciato nulla di importante), ma in realtà con la mente concentrata sui possibili motivi per cui il microfono e gli auricolari non funzionassero, cosa che gli procurava un grande fastidio. I video a sinistra, invece, mostravano tutte le zone principali della fabbrica, le varie entrate, il suo e gli altri uffici, la zona delle consolle e il grosso cilindro con la porta dell'ascensore che portava nella stanza dove si trovava adesso. Il suo sguardo si era incantato su quest'ultimo monitor, in attesa di veder comparire sua nipote e non vide Masi uscire dallo studio e stendere un braccio in avanti. Tutti i video che mostravano l'interno della baita, si oscurarono contemporaneamente e questo richiamò la sua attenzione, facendogli perdere il momento in cui Francesca entrava nella fabbrica.

«No! No! Non adesso!» Provò a girare la manopola che regolava il segnale delle telecamere, ma non successe niente. Aprì il cassetto alla sua sinistra, estraendo una piccola tastiera che collegò velocemente alla consolle tramite una presa USB, posta al di sotto dei monitor. Digitò una password, e sul monitor in alto a destra apparvero una serie di righe di codice che terminavano con un cursore lampeggiante. Scrivendo più velocemente che poteva lanciò una serie di comandi che spensero del tutto i monitor fuori uso, riavviandoli all'istante. Ma, con suo grande sgomento, l'immagine che restituirono era sempre quella di una pagina completamente nera. Capì che il problema non era risolvibile da lì, perché, molto probabilmente, c'era stato un malfunzionamento in una delle telecamere della baita, disattivando in cascata tutte le altre. Tornò con lo sguardo sugli schermi a sinistra: uno mostrava Masi sbucare nella fabbrica, un altro Francesca, davanti alle porte dell'ascensore, che si guardava attorno, ignara di avere quella sgradita compagnia. La vide incamminarsi, mentre l'uomo si era girato verso la telecamera, probabilmente con l'intento di distruggerla, bloccandosi però di colpo mentre faceva un gestaccio. L'aveva sentita o così supponeva Franco (le telecamere non avevano l'audio), perché lo vide inoltrarsi all'interno della FDS, sparendo dal monitor, ma comparendo in quello subito sotto, mentre sua nipote entrava nell'ufficio, passando in un altro monitor che la riprendeva, di spalle, fermarsi davanti all'armadio. Capendo, in quel momento, il perché le telecamere si erano disattivate all'improvviso, Franco indietreggiò con la carrozzella, si avvicinò al tavolo rotondo, ritornò alla consolle, poi si diresse verso l'ascensore. «Lo sapevo! Lo sapevo! Cosa faccio adesso?» disse, in lacrime, mentre ritornava nuovamente alla consolle, in preda al panico più totale. Il terrore che potesse succedere qualcosa a sua nipote andava di pari passo con il senso d'impotenza che raramente aveva provato nella sua vita. Sapeva che mandarla giù senza la possibilità di comunicare era pericoloso, ma si era affidato all'assurda speranza che Masi fosse rimasto più tempo nella baita. L'aveva dato per scontato, e Franco de Simone mai, e poi mai, dava per scontato qualcosa! Tutte le decisioni prese nella sua vita erano state frutto di approfonditi studi e complessi ragionamenti. Usare dei walkie-talkie di plastica? "Sei proprio diventato vecchio!" pensò. Ebbe l'impulso di andare all'ascensore per cercare di raggiungerla, ma sapeva che sarebbe arrivato prima Masi e che, sicuramente, avrebbe ucciso anche lui. Pensò ad Alberto, a quello che doveva fare, anzi, a quello che lui gli aveva detto di fare; ma soprattutto pensava alla sua creazione, giù nei sotterranei. Si fermò, disperato dal sacrificio che doveva sopportare per la salvezza dell'umanità, o di quello che ne restava. Odiò sé stesso in quel momento! Sé stesso, com'era e come pensava. "Tua nipote rischia di essere uccisa, vecchio scemo! E tu stai a pensare a quell'assurdo piano? Ti preoccupi per il resto del mondo? Per gente che nemmeno conosci?" Si prese la testa tra le mani e cominciò a singhiozzare, perché sapeva già che non avrebbe fatto nulla. Poteva raccontarsela come voleva, tirare in ballo tutto l'amore che provava per Francesca, eccetera, eccetera... Non si sarebbe mosso di un millimetro! Perché sapeva benissimo che, se fosse successo qualcosa a lui, se fosse morto o se in qualche maniera non fosse più stato in grado di essere fisicamente o mentalmente presente, il mondo non avrebbe avuto più alcuna speranza. "Smettila di tormentarti! Cosa potresti mai fare? Un vecchio in carrozzella che speranze può mai avere contro un uomo come quello?" "Potrei avvertirla in tempo. Lui rimarrebbe qualche secondo sorpreso e lei farebbe in tempo a sparare!" "E se la pistola non funziona?" "Potrei andare alla 09 a prendere un'arma..." "Non faresti in tempo e rischieresti di farti scoprire."

Si sentiva quasi scisso in due parti, ma era ancora immobile, nello stesso identico punto. Ricordò il discorso che aveva fatto ad Alberto, di come il piano non avrebbe funzionato se tutti i componenti della squadra non avessero imparato a ragionare per gli altri, prima che per sé stessi, dimenticando la parola "io". Non poteva essere lui il primo a cedere e mandare tutto per aria. Se moriva, chi avrebbe fatto funzionare il piano? Era un pragmatico, lo era sempre stato. Un sognatore, certo! Un innovatore, uno che aveva sempre guardato avanti con gli occhi pieni di meraviglia! Ma con i piedi ben piantati per terra. Quante probabilità avevano? L'1%? Forse meno, ma non poteva essere lui a cancellare anche la residua speranza di vittoria.

«Mi spiace, tesoro! Dovrai cavartela da sola.» disse, infine. Guardò nuovamente gli schermi: Francesca sembrava tenere in mano una bambola che, anche se seminascosta, lui conosceva bene. La posò e raccolse qualcos'altro. Si girò e mise sulla scrivania i walkie-talkie. Poi si voltò nuovamente e tornò all'armadio senza accorgersi che Masi era sulla porta dell'ufficio.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro