29 - L'ARMADIO DEI RICORDI (2)

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Francesca, posata la pistola su una delle mensole dell'armadio, aveva aperto la scatola con il suo nome, venendo travolta all'istante da un flusso di emozioni, tanto intenso quanto improvviso. Suo zio aveva conservato i giocattoli, i disegni e qualsiasi altro oggetto avesse caratterizzato la sua infanzia passata con lui, tra la FDS e la villa. Si mise una mano sulla bocca per soffocare un singhiozzo che sentiva salirle rapidamente la gola, mentre due grosse lacrime scendevano dagli occhi. Improvvisamente ricordi, sensazioni, persino odori la circondarono, facendole salire una nostalgia quasi difficile da sopportare. "Non hai tempo adesso, scema!" pensò, asciugandosi il viso e riponendo in fretta il Cicciobello con il quale si era addormentata tante e tante sere. Fortunatamente Walky e Talky erano lì a fianco, così non dovette compiere la sicuramente dolorosa operazione di svuotare quel contenitore e immergersi ancora di più nei suoi bei ricordi. Li appoggiò sulla scrivania dietro di lei e tornò all'armadio per cercare le pile. Nella fretta e nei dubbi che lo zio aveva sollevato, si era dimenticata di chiedere dove fossero e lui di dirglielo e, lì dentro, c'erano almeno una ventina tra scatole e contenitori vari, disposti sulle cinque mensole che componevano il mobile. Ne aprì una piccola, a caso, piena però solo di varie prese elettriche, di forme diverse. In un'altra trovò vecchi fogli ingialliti zeppi di quelli che sembravano strani e complicati calcoli matematici. Sospirò, la richiuse e ne aprì una terza, lunga e rettangolare. "Perché non hai scritto il contenuto anche sulle altre scatole, caro zio, oltre che sulla mia?"

«Ciao troia!»

Il cuore di Francesca si bloccò e rimase per qualche secondo immobile, con il coperchio in mano, incapace persino di respirare. Poi, lentamente, andò indietro con la testa, fino a scorgere da dietro l'anta aperta, la provenienza di quelle parole. Masi era fermo sulla porta e la fissava, sorridendo beffardamente. Francesca lanciò una furtiva occhiata all'interno dell'armadio, poi si mostrò interamente all'uomo, cercando di non far trasparire sul volto l'ansia, spruzzata di vero terrore, che le si stava attorcigliando attorno allo stomaco. «Ciao Masi.»

«Oh, quindi adesso ci diamo del tu. Stiamo diventando amici? Bene!» disse lui, entrando di qualche passo nell'ufficio. «Ti confesso che ci sono rimasto male per come te ne sei andata ieri. Non mi hai nemmeno salutato. Non si fa così!» Fece altri due passi verso di lei, con il sorriso maligno sempre più allargato. «Volevo riprendere il discorso dallo stesso identico punto in cui la tua defunta lupa ci ha interrotto! Ricordi? Direi di sì, visto che ti ho lasciato sulla faccia dei souvenir interessanti!»

«Sì, va bene.»

«Cosa?» Masi si fermò a qualche metro da lei, visibilmente stupito dalla risposta e dall'apparente tranquillità che mostrava la donna. Francesca abbozzò un sorriso e si tolse la maglietta, lanciandola sulla scrivania proprio sopra i due walkie-talkie.

«Vuoi fare la furba con me?» disse lui, riacquistando in parte la sua solita espressione, sporcata, però, da un lieve imbarazzo, assolutamente stonato su quel viso. «Se credi che...»

«Togliti i pantaloni!» lo interruppe, slacciandosi il reggiseno e lasciandolo cadere a terra.

Masi deglutì, colto completamente alla sprovvista. L'aveva già vista nuda, proprio il giorno prima, completamente nuda, stesa sul letto. Ma stava scoprendo in quel momento che c'era differenza tra sorprendere una donna senza vestiti o assistere mentre se li toglieva di sua spontanea volontà. Non sapeva se fosse così per tutti, ma per lui la differenza era enorme, come le dimensioni che stavano assumendo le sue parti basse.

«Allora? Cosa stai aspettando?» insisté lei, slacciandosi i pantaloni e calandoli fino al ginocchio. Da sotto le mutandine di pizzo che indossava, s'intravedeva appena il nero dei peli. A quella vista il sorriso di Masi si riaccese, meno maligno e decisamente più lascivo di prima. Slacciò il bottone e abbassò i calzoni. Indossava ancora la tenuta da prigioniero con la quale era stato ingabbiato nelle segrete dell'abbazia.

«Toglili e siediti sul divano.»

Usando i relativi tacchi l'uomo si tolse le scarpe, poi abbassò lo sguardo alzando il piede destro per sfilare l'indumento. Veloce come un mamba Francesca afferrò la pistola sulla mensola dell'armadio e la puntò su Masi che, vedendo il movimento improvviso della donna stava risollevando gli occhi su di lei, in bilico su un piede solo. L'arma sparò. L'intero ufficio si riempì di luce arancione, viva e intensa, mentre il raggio colpiva Masi che non ebbe il tempo nemmeno di sorprendersi. Fu sbalzato con violenza all'indietro, infrangendo la vetrata e atterrando di schiena sul pavimento della fabbrica, dove rimase immobile.

Tutta la tensione che Francesca era riuscita a trattenere in quei pochi minuti, esplose di colpo in un pianto sfrenato; si lasciò cadere sulla poltrona della scrivania che era stata dello zio, e si sfogò. Quando si fu un po' tranquillizzata, si ritirò su i pantaloni e si infilò la maglietta, mettendosi il reggiseno in tasca. Impugnando la pistola si avvicinò al corpo, inerme fuori dall'ufficio e si chinò su di lui, ancora scossa da qualche leggero tremore. Gli occhi di Masi erano chiusi e le labbra erano serrate in un ghigno di rabbia, impresso nel momento in cui era stato colpito. Sul suo corpo Francesca non riusciva a scorgere alcun segno di bruciatura o altro e la cosa la insospettì.

«E dire che l'ho colpito in pieno petto.» disse a mezza voce. «Che ne faccio adesso di te, pezzo di merda?» disse con rabbia, pensando che doveva subito correre su dallo zio e decidere cosa fare insieme a lui, sicura che avesse visto tutto attraverso le telecamere.

Non vide partire la mano finché non sentì un forte dolore allo zigomo sinistro, dove era stata già colpita, ritrovandosi distesa a terra. La pistola scivolò sul pavimento, la vista le si appannò per il dolore e davanti ai suoi occhi una figura nera e imponente si sollevò.

«Cagna bastarda!» le sputò in faccia Masi, colpendola nuovamente. La ferita sul labbro si riaprì, cominciando a sanguinare. Sfilati del tutto i pantaloni, si era inginocchiato su di lei, con le gambe a imprigionarle il corpo e le braccia. Le afferrò i capelli tirandoli all'indietro, costringendola a tenere la testa dritta. Francesca urlò di dolore. Provò a divincolarsi ma il peso dell'uomo poggiava tutto su di lei, costringendola alla più completa immobilità. Masi avvicinò la faccia, ridendo mentre guardava il viso terrorizzato e sanguinante della sua prigioniera. «Voglio che tu sappia che dopo che ti avrò scopata, picchiata e uccisa, cercherò e troverò quel paralitico di tuo zio e gli spezzerò ogni singolo osso del suo inutile corpo, gustandomi a pieno tutte le sue urla!» L'alito caldo e stantio le s'infilò nelle narici. Masi le mollò i capelli e la colpì una terza volta, lasciandola quasi inerme, anche se ancora cosciente. Si alzò, abbastanza per scivolare un po' indietro, le sbottonò i pantaloni e glieli abbassò con uno strattone, poi, afferrato il lembo davanti delle mutandine, le strappò con violenza. Si sbottonò la patta con la mano destra, mentre con l'altra esplorava, senza il minimo garbo, le parti più intime di Francesca che emetteva dei deboli e flebili lamenti. Il suo viso era una maschera di sangue e il dolore le pulsava partendo dai punti in cui era stata colpita, irradiandosi tutt'intorno. Doveva reagire in qualche modo, ma lo stordimento causato dai colpi e dallo shock improvviso, le stava intorpidendo i muscoli e i pensieri. Percepiva fastidio giungerle dal basso ventre e tentò di alzare la testa; venne perforata all'istante da una lancinante fitta alle tempie che le procurò un conato di vomito. Tossì forte, e uno spasmo le fece sussultare tutto il corpo. Masi la schiaffeggiò. «Ferma!» le ordinò. Quindi la penetrò con violenza. Francesca urlò e cominciò a piangere cercando con fatica di ribellarsi. Lui si chinò in avanti, su di lei, bloccando le spalle con le mani, tenendo inizialmente un ritmo lento, cadenzato e ansimando. Il torpore abbandonò del tutto Francesca, come un mantello colpito da una folata di vento, lasciandola esposta al dolore, al terrore, al disgusto di quella situazione. Masi aumentò sempre più la velocità e la ferocia dei colpi, gemendo a voce alta, finché non rallentò di colpo emettendo un rauco mugolio di piacere, respirando a bocca aperta mentre un rivolo di bava gli usciva fuori dall'angolo della bocca, gocciolando sul viso di Francesca. Raggiunto l'orgasmo Masi le si sdraiò sopra, assaporando gli ultimi strascichi di piacere che percorrevano il suo corpo, incurante del peso con cui stava schiacciando Francesca che si sentiva quasi soffocare sotto di lui. Poi cominciò a ridere, sempre più forte. Si sollevò in ginocchio, guardandola divertito mentre riprendeva fiato. Smise di ridere e la colpì con un pugno, secco, sulle labbra, spaccandole anche quello inferiore. Francesca gemette.

«Iniziamo la seconda parte del divertimento, puttana. Che ne dici?» E la colpì nuovamente, sul naso, sentendo il piccolo e delicato setto rompersi sotto le sue nocche. Si alzò in piedi grugnendo, e si guardò l'enorme erezione che aveva in mezzo alle gambe. Non era procurata dalla donna, dal fatto che fosse mezza nuda, o dal sesso. No! Era il potere che aveva su di lei, il fatto che fosse inerme, sotto di lui, esposta a qualsiasi cosa gli venisse in mente di fare, completamente in sua balia. Si sentiva onnipotente, invincibile, come quando bastonava a morte un malcapitato ergastolano o quando ne lasciava qualcuno legato a un albero, offrendolo alle zanne dei lupi. Ricordò con enorme piacere la prima volta che aveva provato quelle sensazioni, in quel bosco, non lontano da lì, quando aveva preso pieno controllo della vita della sua intera famiglia. L'euforia che aveva sentito scorrere in lui era stata qualcosa di indescrivibile. E mentre guardava, ora, la sua preda quasi incosciente a terra, con la faccia piena di sangue, sentiva l'eccitazione salire a livelli altissimi e la bocca riempirsi di saliva calda. Un brivido di piacere gli partì dal collo e si gettò a capofitto giù per la schiena, facendolo vibrare appena.

«Mmh! Qualcuno qui ha ancora voglia di divertirsi...» Le sfilò del tutto pantaloni e mutandine, la prese per un fianco e la voltò di schiena sgarbatamente. Francesca era ricaduta nel torpore iniziale, più profondo, molto prossimo allo svenimento. Eppure, qualcosa dentro di lei, assolutamente inconscio, continuava a tenerla disperatamente vigile, per non abbandonarsi completamente alle angherie di quell'uomo.

«Cambiamo accesso stavolta, però.» ringhiò Masi, col volto deformato dalla lussuria, dal furore e comandato ormai solo dai più puri istinti animali.

Del tutto perso nella sua follia, mentre si apprestava a violentare nuovamente Francesca, non si era accorto dell'uomo che arrivava barcollando dietro di lui, brandendo quello che sembrava un bastone da passeggio di legno. Glielo calò con forza sul fianco della testa, facendolo stramazzare al suolo con la stessa espressione di incredulità che aveva avuto solo poco prima, dopo che il raggio sparato da Francesca l'aveva colpito. Masi non fece in tempo a ripararsi con le mani e un secondo colpo, più violento del primo, lo colpì nuovamente sulla fronte, squarciandola e facendo zampillare il sangue tutt'attorno.

«Tu...» disse.

La sua mente cadde in un vortice improvviso, un vortice con le pareti luminose; in fondo c'era l'abisso e, prima di cadervi, Masi vide una grossa palla vibrare leggermente di luce... Una voce parlò. Poche parole... Poi perse i sensi.

René lasciò cadere il bastone, si piegò sulle ginocchia e vomitò. Percepì un movimento davanti a lui e vide quel vecchio stronzo sulla sedia a rotelle che l'aveva fatto imprigionare mesi prima. Era a fianco della donna e piangeva. Si fissarono un secondo, poi, anche per lui, calò il buio più totale.


Vedere un uomo grande e grosso come Roberto singhiozzare in quel modo, fu molto doloroso per il cuore di Alberto. Aiutato dall'unico superstite del gruppo di Mario e Liliana, un ragazzo piuttosto grasso, riuscì a trascinarlo con molta fatica all'interno della fabbrica, togliendolo dalla vista terribile della madre maciullata a terra, insieme alle altre persone che erano con lei nella bolla. Una volta dentro, aveva avuto una crisi isterica, in cui se l'era presa con uno sventurato banco da lavoro e con gli attrezzi che si trovavano sopra, urlando e imprecando parole terribili. Alberto lo conosceva da poco, ma se l'era già idealizzato come uomo tranquillo e pacato e vederlo in quello stato l'aveva destabilizzato alquanto. Inevitabilmente il pensiero era andato ai mariti delle due donne che aveva ucciso e si era chiesto se anche loro avessero avuto una reazione simile appena saputa la notizia. Certo che sì! Con tutta probabilità le parole pronunciate erano state molto simili a quelle di Roberto e quasi certamente, erano state tutte rivolte a lui, come era giusto che fosse. Chissà dov'erano in quel momento? Si erano salvati o erano stati presi e "svuotati" anche loro? Quest'ultima opzione la riteneva la più plausibile. Era giusto questo? Loro morti, o in qualsiasi modo si rimanesse dopo essere stati ospiti nella bolla e lui sano e incolume. "Beh, io devo salvare il mondo!" Il pensiero era arrivato quasi inconsciamente. "Bella giustificazione!" si era risposto. "Sì, ma io ho pagato il mio debito. Almeno in parte!" «Non a loro, Alby! Non a loro!» L'ultima frase doveva averla pronunciata ad alta voce, senza accorgersene, perché aveva visto il ragazzo guardarlo stranito. Si sentiva terribilmente in colpa per essere fuggito come un vigliacco, appena era comparsa la sentinella. Non riusciva a spiegarsi il perché, ma quell'improvvisa apparizione l'aveva sconvolto e colpito come un pugno nello stomaco. Fino a quel momento le aveva sempre viste immobili dentro ai loro rifugi arancioni, e trovarsene una davanti, a pochi metri da lui, gli aveva molto semplicemente fatto paura e senza ragionarci nemmeno un secondo, se l'era filata. Si era catapultato nella fabbrica, nascondendosi dentro a un ufficio dove, una volta calmatosi, si era ricordato di essere uno scrigno. Se Franco aveva ragione, se i racconti di Roberto e Veronica erano reali, allora anche lui doveva essere dotato di un qualche tipo di potere. Ma era vero? "Se continui a restare rintanato qui come una donnicciola, non lo scoprirai mai, imbecille!" Aveva fatto due profondi respiri ed era tornato sul campo di battaglia, appena in tempo per vedere Roberto lanciarsi molto coraggiosamente sulla sentinella, per salvare la mamma. L'ardore e l'amore che emanavano dal suo compagno di viaggio, lo avevano investito in pieno, e quel po' di coraggio che era riuscito a raschiare dal fondo del suo barile, si era amplificato. Aveva sentito il proprio corpo scaldarsi, improvvisamente e velocemente e quando aveva visto Roberto a terra, colpito dallo stronzo viola, istintivamente aveva alzato il braccio e l'aveva fulminato, senza sapere cosa stesse facendo. Aveva salvato il suo amico, ma non aveva avuto il tempo di gioire. Si erano spostati appena in tempo, prima di essere colpiti dalla più orribile e terrificante pioggia a cui avessero mai assistito. Molte persone erano morte, compresa la signora Gina. Sapeva che non poteva essere solo colpa sua, ma il rimorso e la vergogna lo tormentavano.

«Voglio stare un po' da solo.» disse Roberto, improvvisamente calmatosi. E prima che chiunque potesse aprire bocca, si stava già dirigendo verso l'angolo più lontano della fabbrica, portandosi dietro uno sgabello di legno sul quale si sedette, a testa china e braccia incrociate. Alberto, pur rispettando l'agghiacciante lutto che aveva colpito il suo amico, lasciandogli il tempo che riteneva adatto per elaborare il suo dolore, aveva fretta di rimettersi in viaggio e soprattutto di discutere con lui del "caso Vertani". C'era la serissima possibilità che avessero perso uno scrigno, forse definitivamente. Impiegò l'attesa raccontando a grandi linee lo scopo del viaggio al ragazzo grasso; gli chiese se conoscesse qualcuno con quel cognome, ma il ragazzo scosse la testa, ribadendogli quello che già Alberto aveva saputo da Liliana e Mario: in quei pochi giorni di convivenza avevano usato solo i nomi di battesimo.

«Io sono Alberto.» Gli tese la mano.

L'altro la strinse piuttosto mollemente. «Enrico.» disse una vocina acuta. Unita al faccione rubicondo, le gote di un rosso molto vivo e i capelli neri come la notte, completava un quadro nell'insieme abbastanza ridicolo.

Alberto dovette sforzarsi per non ridere. «Molto piacere!» Lo fissò per un attimo, notando che il ragazzo distoglieva subito lo sguardo, prediligendo la visione delle sue scarpe. Per uno come lui che, nonostante tutto, aveva guardato fisso negli occhi uno degli uomini a cui aveva ucciso la moglie, quell'atteggiamento era piuttosto fastidioso. Era semplicemente timido o aveva qualcosa da nascondere? A vederlo non si poteva dubitare che fosse la prima ipotesi, ma aveva imparato ormai da tempo di non fidarsi mai della prima impressione, quando doveva o voleva inquadrare chi gli si parava davanti. «Mi dispiace per i tuoi amici.»

Enrico alzò gli occhi, solo per un attimo. «Non erano amici miei.»

Aveva risposto a bassa voce e il tono, pur mantenendo una leggera sfumatura acuta, era risultato un po' più grave e, se vogliamo, ancora più grottesco. Alberto lo osservò in silenzio sforzandosi di trovare qualcos'altro da dire, ma non gli venne in mente nulla. Trovava assai difficile conversare con una persona che guardava da un'altra parte.

Gli venne in soccorso Roberto, comparso all'improvviso alle sue spalle. Aveva gli occhi gonfi e rossi, la maglietta bagnata di sudore (ma forse anche di lacrime) e i capelli, lunghi fino alle spalle, scompigliati e trasandati; mostravano l'inizio di una calvizie, forse ancora lontana, ma inevitabilmente incombente. Si era isolato per mezz'ora, forse qualcosa di meno, ma l'uomo in piedi davanti ad Alberto in quel momento, sembrava una persona diversa, invecchiata di dieci anni, colpito molto duramente nell'animo, ma con evidenti riflessi esterni. Interruppe quell'imbarazzante silenzio con una richiesta, terribile, ma assolutamente giustificata, nel suo caso. «Potreste bruciare il corpo di mia mamma, per favore?»

La voce gli uscì gracchiando, quasi in un sussurro, aumentando il disagio che Alberto provava nel vederlo così.

«Dovremmo bruciarli tutti.» gli disse col tono di voce più dolce che riuscisse a produrre.

Roberto annuì e si sedette al suo fianco. «Non credo di riuscire ad aiutarvi.»

«Non preoccuparti, Roby.» Alberto gli aveva posato la mano su una spalla. «Mi aiuterà Enrico, vero?» Il ragazzo sbuffò ma acconsentì con un impercettibile cenno della testa, mentre Roberto, col viso tra le mani, aveva ricominciato a piangere.


La colonna di fumo saliva impetuosa in cielo, levandosi dalle punte delle fiamme che frustavano l'aria con violenza, mentre l'odore acre e pungente di carne bruciata si spandeva tutt'intorno. Andrea ed Enrico avevano accatastato i corpi nel prato adiacente al cortile davanti alla fabbrica, un pezzo di terra senz'erba occupato solo da una sgangherata baracca in lamiera posta nell'angolo più vicino alla strada. Era stato un lavoro faticoso e non solo fisicamente. Avevano impiegato quasi un'ora per spostare i ventuno corpi straziati e posizionarli in modo ordinato sulla terra e, per tutto il tempo, ad Alberto era parso di vivere un incubo. Aveva dovuto guardare teste spaccate, pose innaturali di braccia e gambe spezzate, ma la cosa che più lo aveva disturbato e che probabilmente avrebbe continuato a tormentarlo per il resto dei suoi giorni, era l'espressione di terrore che era rimasta incollata su quei visi, negli ultimi istanti della loro vita, mentre vedevano l'asfalto avvicinarsi sempre più velocemente, sempre più inesorabilmente. Spesso, la notte, il rimorso per le sue efferate azioni, veniva a tormentarlo sotto forma di incubi, a volte piuttosto spaventosi; si chiedeva se sarebbe stato così anche per quelle povere anime che aveva dovuto raccattare, nel vero senso della parola, e bruciare; si chiedeva se la visione del corpicino di Patrick, accartocciato su sé stesso, con un braccio e una gamba girati al contrario e la bocca piena di sangue, non l'avesse accompagnato per tutte le notti che sarebbero seguite. Ad aumentare il senso di disagio che provava, c'era poi riuscito Enrico, che aveva svolto quel compito come se stesse tagliando l'erba nel giardino di casa, senza mai spiccicare la più corta delle sillabe se non per informarlo della presenza di alcune taniche di benzina dentro alla baracca, dopo che Alberto aveva chiesto, più a sé stesso, con cosa avrebbero potuto appiccare il fuoco. Una volta che aveva attecchito, erano tornati subito all'interno della fabbrica per non essere avvolti dalla puzza che comunque, sapevano bene, sarebbe riuscita a penetrare anche all'interno.

«Dobbiamo andarcene da qui. Riprendere la nostra missione. Roby, come ti senti?» Enrico era andato in bagno e Alberto ne aveva approfittato per parlare con il suo amico.

«Sto bene.» mentì Roberto. «Grazie Alby! Per avermi salvato la vita e per esserti occupato del... di mia mamma.»

«Non dirlo neanche!» Esitò un momento, poi si girò in modo da guardarlo dritto negli occhi. «Mi dispiace per essere scappato quando è arrivata la sentinella.» Chinò la testa. «Ho avuto paura.»

Sul volto di Roberto comparve un sorriso, anche se sembrava più una smorfia appoggiata per caso sotto il naso. «È normale, dai. Siamo solo uomini in fondo, trascinati a forza in questa merda. Siamo spaventati e non sappiamo cosa fare. Non siamo in un film, questa è la vita reale.»

«È che continuo a pensare che se non me ne fossi andato, forse... tua mamma...»

«Non pensarci. Ho interrotto io il collegamento tra la sentinella e la bolla, ma come potevo saperlo?» Le lacrime ricominciarono a rigargli la faccia. «Se fossi stato più attento, più pronto, quando l'ha presa e l'ha trascinata via...»

Alberto non trovò più parole da dire per alleviare il dolore dell'amico, così, senza pensarci troppo, l'abbracciò, lasciando che le lacrime di Roberto gli bagnassero la maglia.

«Grazie Alberto! Sono contento di essere con te.»

«Vale anche per me! Pensare che ci siamo conosciuti solo ieri!»

«Già!»

Ad Alberto tornò subito in mente l'abbraccio avuto con Franco, accompagnato dal rimpianto di non averlo conosciuto prima. Era lo stesso adesso, con Roberto. Pensò a Monica e alla donna eccezionale che era e, ovviamente, a Francesca, il suo amore, colei che l'aveva letteralmente trasformato in un altro uomo. Continuava a pensare che se li avesse conosciuti prima, tutti o anche solo qualcuno di loro, probabilmente (lui ne era sicuro!) non avrebbe commesso quello che aveva commesso. Ma se erano comparsi sul suo cammino, era una conseguenza diretta delle sue terribili azioni! Se non avesse ucciso quelle due donne non si sarebbe innamorato di Francesca, non sarebbe diventato uno scrigno e uno di quelli in grado (forse!) di salvare il mondo. Avrebbe continuato a vivere la vita piatta e solitaria che conduceva, ed era molto probabile che adesso sarebbe stato dentro a una di quelle bolle. Chi tirava i fili delle loro vite? Dio? Il fato? Secondo gli ultimi avvenimenti, sembrava essere un potere simile a un'energia rossa. Chiunque o qualunque cosa fosse, era dotata di una certa, sottile, ma decisamente subdola ironia!

«Appena torna il nostro amico ce ne andiamo.» proseguì, dopo che si staccarono, entrambi visibilmente commossi. «Ci sono delle taniche di benzina nel capanno qui fuori. Il serbatoio della Ford è quasi a secco... siamo fortunati, almeno in questo.»

«Cosa intendi?»

Alberto si sedette. «Mi riferisco alla Vertani. La casa è vuota, nessuno qui la conosceva. Non sappiamo nemmeno se quando è morta fosse presente qualcuno. Dobbiamo trovare una persona che non sappiamo chi è, e che forse nemmeno esiste. Quindi si può tranquillamente dire che abbiamo perso uno scrigno.»

Roberto si pulì gli occhi con le dita. Stavolta sul suo volto si disegnò un vero sorriso. «Assolutamente falso!»

Alberto lo guardò con aria interrogativa mentre l'altro si avvicinò accostando le labbra al suo orecchio. «Il nostro grasso amico, che sta arrivando in questo momento... Lui, è lo scrigno!»


Erano andati in bagno anche loro, usando una tanica d'acqua per liberare il water, proprio come facevano ai "Ginepri". Alberto aveva chiesto a Enrico di riempire tre sporte, saccheggiando la dispensa di Liliana e Mario, costituita prevalentemente da prodotti confezionati e in scatola. L'operazione era senz'altro utile, ma il suo scopo era di farlo allontanare nuovamente, per poter chiedere a Roberto come potesse essere così sicuro che quel ragazzo fosse uno scrigno. Si beccarono sulla porta del bagno e Roberto gli riferì velocemente le parole che gli aveva detto sua mamma.

«Non è possibile che abbiamo un culo simile!» aveva detto Alberto, incredulo. «Ieri ho trovato te e Veronica, in una botta sola. Oggi lui...»

«Caterina vende il pesce in re maggiore!»

«Cosa?» Alberto aggrottò la fronte, mentre Roberto sorrideva, seppur il sorriso fosse una condizione che faceva ancora fatica a rimanere appesa su quella faccia, così stanca e provata.

«Non farci caso! Lo dicevamo sempre io e Lina, quando ci imbattevamo in una coincidenza abbastanza assurda. E un aneddoto legato a Faber, Fabrizio de André. Lo adoravamo!»

«Oh! Anche Franco sai? Siete tutti patiti di quest'uomo!»

«Beh... È stato solo il più grande cantautore italiano, e per me, uno dei migliori del mondo!»

«Capisco. Ma, siamo sicuri che questo Enrico sia veramente uno scrigno?» chiese Alberto, tornando sull'argomento di cui voleva convincersi, prima che il ragazzo tornasse.

«Te l'ho detto! La sentinella non è riuscita ad acchiapparlo, esattamente come con me. Stando alle parole che la mia povera mamma ha sentito.»

«E se le ha sentite da qualcuno che stava scherzando? O mentendo? Chi lo sa!»

«E a che scopo, dai? Le parole che ha sentito descrivevano, pari, pari, quello che è successo a me!»

«Allora perché mi ha mentito quando gli ho chiesto se conoscesse qualcuno che si chiama Vertani?»

«Glielo chiederemo.»

«Andiamoci cauti con quel ragazzo. È un po' strano, e troppo taciturno per i miei gusti.» concluse Alberto, vedendolo arrivare e abbassando la voce. Lanciò un'ultima occhiata furtiva a Roberto ed entrò in bagno.


Avevano recuperato le chiavi del cancello, che pendevano da un chiodo appeso al muro, poi, tenendo con una mano una borsa ciascuno e con l'altra coprendosi naso e bocca con un fazzoletto, erano usciti. La puzza, penetrata ormai anche all'interno della fabbrica, era quasi insopportabile e le fiamme si stavano via, via trasformando in fumo grigio. Avevano raggiunto la macchina, rimasta davanti alla casa della Vertani, e con quella erano tornati a recuperare le quattro taniche di benzina rimaste nel capanno, nell'angolo del prato. Le avevano messe nel grande bagagliaio della Ford Taunus, controllando che fossero chiuse bene. Roberto stimò che avessero ciascuna una capacità di trenta litri, anche se sulla plastica non c'era scritto niente.

«Sei sicuro?» aveva chiesto Alberto.

«Sì. Ne ho, anzi, avevo un paio anch'io in garage. Abbiamo circa centoventi litri di benzina a disposizione. Non è che per caso sapete quanto consuma questo cassone? Ci vorrebbe Giancarlo...» aggiunse Roberto, con una punta di malinconia che gli pizzicava il cuore.

Alberto scosse la testa. «Non ci ho mai capito un acca con le macchine. Ho sempre...»

«Consuma nove litri ogni cento chilometri, se non ricordo male. O forse dieci.» intervenne Enrico, serio, sempre con l'espressione di chi avrebbe voluto essere da un'altra parte.

«Dici davvero?»

«Ce l'aveva mio nonno. Mi portava in giro facendomi stare nel bagagliaio. Era un appassionato di auto e me l'ha attaccata un po' anche a me.»

«Bene! Allora dovremmo avere un'autonomia più o meno di milleduecento chilometri.» Roberto chiuse il portellone e si diresse verso il posto di guida. Avviò il motore e controllò l'indicatore del carburante. «Siamo a un quarto. Proporrei di riempire il serbatoio adesso.»

«Ci servirà un imbuto.» disse Alberto, salendo a fianco di Roberto. Enrico si sistemò dietro.

«Fermiamoci all'officina. Ne ho uno.»

I due uomini si fissarono con un vago sorriso, poi, contemporaneamente, quasi si fossero messi d'accordo, si voltarono.

«Lavori lì? Sei un meccanico?» Il ragazzo annuì. «E scommetto che abiti sopra, giusto?» Di nuovo fece sì con la testa. Sembrava aver esaurito il numero di parole che poteva spiccicare in una giornata. «Perché mi hai detto che non conoscevi la Vertani allora? Lei era tua nonna!» Alberto si stava arrabbiando. Roberto gli posò una mano sulla gamba, dicendogli con lo sguardo di stare calmo.

Il ragazzo li fissò a turno, poi sospirò. «La odiavo!» disse, in un sussurro. Di nuovo Alberto notò come la sua voce diventasse ancora più grottesca quando l'abbassava; sentì una risata che gli si formava sulle labbra, ma il nervoso che provava in quel momento riuscì a soffocarla.

«La odiavi?» chiese Roberto.

«Esatto! E la odio ancora, anche se è morta da dodici anni ormai.»

«Eri tu al telefono vero?» Alberto lo fissava, senza quasi sbattere le palpebre. «Qualche mese fa, io e la mia ragazza abbiamo chiamato, cercando notizie su Marisa Vertani. Ha risposto una voce maschile che ci ha sbattuto il telefono in faccia. Eri tu?» Era stata Francesca a parlarci. Se fosse stato lui, probabilmente avrebbe riconosciuto la vocina di Enrico già quando si erano presentati nella fabbrica.

Enrico sospirò, poi riabbassò la testa senza rispondere.

«Si può sapere perché odi tua nonna? Che ti ha fatto?» incalzò Alberto, esasperato dal mutismo di quel ragazzo.

Enrico alzò leggermente un sopracciglio e lo fissò per un attimo. «Non mi va di parlarne.»

«Senti, cocco! Dovremo passare parecchio tempo insieme e fare cose piuttosto importanti. Forse è meglio che cominci a fidarti di noi!»

«Per piacere, Alby!» Roberto gli lanciò un'occhiataccia che significava "da che pulpito viene la predica". Alberto capì subito d'aver esagerato.

«Quali cose importanti dobbiamo fare?» chiese Enrico, alzando del tutto la testa verso i suoi due interlocutori.

«Ti racconteremo tutto. Ma adesso dobbiamo assolutamente essere sicuri di una cosa.» insistette Roberto. «Ti prego, raccontaci la tua storia.»

Enrico si rimise a fissare i tappetini sotto i sedili. Tossì, e cominciò a parlare. «Ha fatto soffrire il nonno. Ecco perché la odiavo. Lui era tutto per me, il mio vero padre.» Gli occhi del ragazzo cominciarono ad arrossarsi e due lacrime spuntarono alla base. La sua voce pareva essere ancora più acuta, per quanto possibile. «L'amava disperatamente e quando lei s'ammalò, rinunciò a tutto per starle vicino. Poi, per miracolo, guarì, grazie a quel tizio... Non so se ricordate lastoria del guaritore?»

Roberto e Alberto si guardarono, sorridendo. «La ricordiamo, sì!»

«Beh, io avevo quattro anni. Ero piccolo, ma mi raccontò tutto il nonno. La nonna guarì e sapete cosa fece? Dopo qualche anno, lo lasciò per uno più giovane!» Si asciugò gli occhi col braccio.

"Gli abbiamo sbloccato la lingua!" pensò Alberto, mentre ascoltava in silenzio.

«Il nonno era distrutto. Piangeva tutti i giorni e io mi sentivo una merda, perché non sapevo come aiutarlo.» Tirò su col naso. «Poi, all'improvviso, è tornata, bella come il sole. E solo perché il suo toy-boy l'aveva lasciata! Non sapeva dove sbattere la testa, e quindi è tornata da lui. Era il 2004, se non ricordo male.»

«E tuo nonno l'ha ripresa in casa?»

«Certo! Lui era troppo buono e l'amava davvero. Mia mamma era furiosa! Litigò con lui e credo che le urla si siano sentite anche dentro al bowling! Anche lei gli voleva molto bene, ma non riusciva ad accettare la sua remissività.»

«Sì, ma noi vogliamo sapere...» Aveva iniziato a dire Alberto, ma Roberto lo zittì con un gesto della mano. «Continua.» disse al ragazzo.

«C'è poco da aggiungere. Il nonno fu irremovibile, lei tornò, ma né io, né mia mamma gli rivolgevamo la parola. Mio padre ovviamente se ne sbatteva, come ha sempre fatto con tutto, per tutta la sua vita.» Guardò fuori dal finestrino per un attimo. «Il nonno ha sofferto per colpa di quella donna e si è ammalato. È morto dopo un anno.» La voce gli s'incrinò sulle ultime parole e pianse, per circa un minuto. «Se ne è andato per colpa sua! Non la perdonerò mai! Mai! Anche se è morta.» Roberto e Alberto rimasero in silenzio, rispettando il momento di sfogo che il ragazzo si stava prendendo. «Mia mamma é riuscita a perdonarla negli ultimi anni, ma credo più per non avere sensi di colpa.» continuò, una volta ripresosi, «Io sono diverso e non ce l'ho fatta. Spero sia chiaro, adesso, il motivo perché ti ho detto che non la conoscevo. Parlare di lei mi costa una grande fatica.» disse rivolto ad Alberto.

«È vero che la sentinella non è riuscita a catturarti?» Roberto buttò lì la domanda, quasi a tradimento. Lo sguardo di Enrico rimase per un attimo neutro. Poi, quasi impercettibilmente, annuì.

«E sai com'è successo?» incalzò Alberto.

«No. Ero con mio padre; ci siamo nascosti nel ripostiglio appena abbiamo visto arrivare quei... cosi. Siamo rimasti nascosti un paio d'ore, poi sono uscito e dalla finestra ho visto un gruppo di persone che correva in questa direzione. Ho pensato ci fosse un nascondiglio più sicuro, così siamo usciti. Ho fatto in tempo a vedere l'ultimo di loro entrare da questo cancello, ma mentre cercavamo di raggiungerlo, è arrivata. Ha preso subito mio padre, l'ha messo dentro alla bolla. Io mi sono buttato a terra, terrorizzato. Ma da quella mano non è uscito niente, e se ne è andata.»

Roberto e Alberto si guardarono. «Eri al capezzale di tua nonna quando è morta?»

Enrico li scrutò dubbioso. «No! Ve l'ho detto che avevo rotto del tutto con lei.»

«E chi c'era con lei allora? Quando è morta, intendo?» Il cuore di Roberto batteva forte.

Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. «Perché volete saperlo? Non capisco la domanda?»

«La capirai, promesso. Ora, per favore, rispondi.»

«C'era mia mamma.» disse infine.

«E tua mamma? Dov'è?» s'intromise Alberto.

«È morta due anni fa.» La voce di Enrico s'incrinò nuovamente. «Ha avuto un attacco di cuore improvviso, mentre guardavamo "Forrest Gump" sul divano.»


Avevano fatto rifornimento nell'officina di Enrico, usando l'imbuto e cercando di non rovesciare nemmeno una goccia del preziosissimo liquido che avevano trovato. Dopodiché erano partiti, con Roberto al volante, passando davanti al parcheggio del bowling, dove sapevano era presente una grossa bolla. Ma la cupola non c'era più, e nemmeno la sentinella. "Probabilmente era quella che ho distrutto!" pensò Alberto. Erano rimasti solo i corpi, distesi sull'asfalto. Il pensiero di Roberto andò inevitabilmente alla sua Lina e la immaginò sdraiata, inerme, nel giardino del loro condominio. Una fitta di dolore gli trapassò il cuore, già sofferente per la recente e terribile perdita della mamma. Pensò poi a suo figlio, al fatto che non potevano comunicare e che non avrebbe avuto modo di sapere se fosse al sicuro o no. Un'ondata di preoccupazione lo investì, facendo probabilmente capolino anche sul suo viso. Alberto lo stava fissando. «Che c'è?» gli chiese.

«Mia mamma, mia moglie, mio figlio. È dura Alby, è dura.» Pensò a quanto peso poteva sopportare un cuore umano e si rese conto che era, in effetti, tanto. Almeno il suo, visto che, in quel preciso momento, il dolore che gravava in lui era quasi insostenibile.

«Potrei sapere dove andiamo adesso?» chiese Enrico.

«Castenaso! La prossima tappa.» rispose Alberto, nonostante tutto, abbastanza allegro.

«E perché Castenaso? Cosa c'è là?»

«È meglio se gli racconti per bene tutto quanto, Alby. Altrimenti non capirà mai.»

«Hai ragione.» Voltandosi ogni tanto verso di lui, ma tenendo per la maggior parte gli occhi sulla strada per non farsi venire il mal d'auto, gli disse della donna caduta dal cielo, dell'energia, di Nicolas, degli scrigni, di Franco de Simone, della squadra, cercando di rendere il racconto meno complicato possibile. Enrico ascoltò senza interrompere e senza cambiare mai espressione. «Credi d'aver capito?» disse infine Alberto.

«E questa squadra dovrà sconfiggere quell'Ismel?»

«Già.»

«Come?»

«Questo ce lo spiegherà Franco, a tempo debito. Adesso il nostro unico compito è trovare tutti.»

«E a Castenaso ce n'è un altro?»

«Addirittura due. Marito e moglie. Se siamo fortunati li troveremo entrambi. E devo dire che, almeno in questa ricerca, la fortuna ci sta assistendo parecchio.»

«E poi? Gli altri dove sono?»

Alberto proruppe in una sonora risata. «Guardi avanti tu, eh? Dopo è una passeggiata. Ne abbiamo uno a... aspetta...» prese il foglietto e lesse, «... Casalecchio di Reno. Tale Alessandro. So che non è lontano da qui.»

«Dall'altre parte della città.» rispose Enrico.

«Appunto. Dopodiché è praticamente fatta.» Alberto fece l'occhiolino a Roberto che gli aveva lanciato uno sguardo a metà tra il rimprovero e il divertito. «Basta trovare un traghetto per l'Isola d'Elba dove ci attende Franco e infine un comodo aereo che ci porti in America (non mi chiedere dove perché non lo sappiamo, ma fortunatamente l'America non è grandissima!) dove, sono sicuro, troveremo subito Beatrix. A quel punto siamo a cavallo.»

«Mi prendi in giro?»

«Vorrei purtroppo, vorrei. Ma è la cruda verità. Per adesso abbiamo avuto tanta fortuna e comunque, insomma, te, lui, Veronica, questi due...» riguardò il foglietto, «... Eleonora e Rodolfo, l'altro di Casalecchio... abitate tutti nella stessa città. Sono venuto qui per questo e per adesso mi è andata più che bene. Poi verrà il difficile. Di questi due e di Alessandro conosciamo il paese, ma non l'indirizzo. Qualcosa ci inventeremo. Ma per gli ultimi due...»

«L'Elba non è grandissima!»

«Lo so, e sappiamo anche dove vive Franco. Ha un ristorante. Ma come ci arriviamo sull'isola? A nuoto? Sempre che poi lui non si sia spostato.» Sospirò.

«O che non sia morto!» aggiunse il ragazzo.

«Non fare l'uccello del malaugurio! Non ce n'è bisogno, vista la situazione!» Tacque un attimo, poi riprese. «Per l'americana invece... la vedo dura, anzi, proprio impossibile!»

«Siamo arrivati!» esclamò Roberto, mentre passavano a fianco del cartello che indicava l'inizio del paese. Fino a quel momento aveva taciuto, guidato e osservato con occhi sempre più tristi le distese di corpi rimasti al posto delle bolle. «Allora, dove vado?» chiese.

«In municipio, dove possiamo trovare l'indirizzo che ci serve. Sai dov'è?»

Roberto annuì. «Castenaso si sviluppa praticamente tutta su via Tosarelli, che è la strada che stiamo percorrendo.»

«Ah, bene.» disse Alberto, ripiegando in tasca il foglietto, mentre la Ford avanzava con cautela tra case, palazzi e negozi sventrati.

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