30 - GLI OLMI (1)

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Lina era prona, con il viso girato a destra; la porzione di bocca che si intravedeva e l'occhio erano spalancati in quell'angosciante espressione di vuoto che, ormai da quasi tre giorni, albergava sui visi delle persone. Un braccio era abbandonato lungo il corpo, mentre l'altro poggiava sul petto di Riccardo, supino, a fianco. Nel volto di suo papà, Veronica poteva vedere l'espressione di terrore inespresso, quella sensazione di grido silenzioso, come se stesse chiedendo aiuto dopo esser stato privato della voce. La botta che ricevette allo stomaco fu tremenda e la pesantezza che aveva nel cuore, già insopportabile, aumentò a dismisura. E tutto divenne ancora più penoso, se mai fosse possibile, quando, dietro di lei, esplosero i singhiozzi di Andrea. Si voltò e lo vide tremare incontrollatamente, con le mani sul volto. Lo abbracciò, posando la testa sulla sua spalla e accarezzandogli il collo, facendolo calmare un po'.

«Mio Dio!» diceva, con voce straziante. «Fai qualcosa Veronica, ti prego, amore mio!»

Le ultime due parole la trapassarono come frecce e si sentì del tutto invasa dall'amore che Andrea provava per lei. Nel turbinio di emozioni che provava in quel momento, le pareva di essere scivolata dentro a un vortice, sballottata da una parte e dall'altra; le girava la testa, alternava brividi a vampate di calore. Strinse il ragazzo ancora più forte e fu proprio in quel momento, così terribile, così angosciante, ma carico di un'intensità che non avrebbe mai più riprovato in tutta la sua vita, che capì d'amarlo anche lei, sul serio e profondamente, senza se e senza ma, proprio come aveva detto lui.

Andrea si staccò e la guardò, con gli occhi gonfi e rossi, il naso che gocciolava e un rivolo di saliva che gli usciva dalla bocca. Si ripulì con la maglia già sporca e le prese dolcemente il viso tra le mani. «Puoi aiutarli? Con il tuo potere?»

Veronica sbarrò gli occhi. «Io... non lo so.»

«Provaci! Per favore.» La baciò. «Per favore.»

«Non so cosa devo fare.»

«Hai detto che hai bruciato la pelle di Bito perché eri arrabbiata. Prova ancora, cerca di incanalare la tristezza, la disperazione e l'amore che ti suscita tuo papà in questo momento. Se la rabbia dentro le tue mani ha provocato dolore, forse quello che provi ora, li risveglierà. Prova, ti prego.»

«Quella volta è successo all'improvviso. È venuto da solo. Io...» Gli occhi di Andrea la imploravano, molto più delle sue parole. «Va bene, ci provo.»

Si voltò e si chinò su suo padre. Non sapeva assolutamente cosa fare, né come, ma non voleva dargli una delusione; non provarci gli avrebbe fatto più male e lei non poteva sopportarlo. L'amava, e amare vuol dire anche proteggere. Lo stava scoprendo adesso, da sola, perché nessuno insegna queste cose, tantomeno a una ragazzina di undici anni a cui piaceva ancora colorare e che teneva sulla mensola della sua camera le Barbie con cui aveva smesso di giocare solo da qualche mese. "Undici anni! Ho undici anni e sono qui, chinata su mio padre, nel tentativo di riportarlo in vita. Ho perso la mia mamma, e Dalila, che mi amava come fossi la sua bambina, e mi chiedono di salvare il mondo, di sconfiggere un essere venuto da chissà dove, dotato di poteri invincibili. E ho undici anni, solo undici anni..." Le lacrime scendevano copiose, silenziose e calde, mentre le scorrevano davanti agli occhi immagini sparse della sua vita, come diapositive proiettate a casaccio, senza nessun ordine logico.

Era seduta al banco di scuola, scambiando bigliettini con la sua compagna; ora era in un letto, abbracciata a Dalila che le accarezzava i capelli; poi sull'altalena al parco, mentre sua mamma la spingeva e la faceva volare; teneva per mano suo papà mentre salivano con l'ascensore dell'ospedale; nascosta in un letto, al buio e al caldo, poi si baciava con Andrea, a fianco di un albero. 

Tutto scorreva veloce, senza darle il tempo di assaporare nemmeno uno di quei ricordi, belli e brutti, felici e dolorosi, malinconici e terribili. Aveva posato le mani sul petto di Riccardo senza accorgersene, e il ventaglio di visioni era sfumato su di lui, in una cascata di immagini del suo viso, dei suoi sorrisi, delle sue lacrime, di quando si arrabbiava e di quando faceva lo sciocco, mentre mangiava, mentre dormiva, mentre guidava, in spiaggia a fare castelli, a sciare, davanti a lei. Poi si bloccarono, di colpo, e presero a marciare a velocità normale. 

Aveva cinque anni ed era al cinema a vedere "Oceania", la Vigilia di Natale. Aveva voluto salirgli in braccio durante il film e riusciva a sentire il suo odore, quel profumo di cui non ricordava il nome, tutt'intorno a lei. C'era anche sua mamma, la sua dolce e splendida mamma e la vedeva sorridere nel buio della sala che gradualmente cambiò, diventando la penombra della loro camera da letto, illuminata appena dalla luce del corridoio, mentre lei, più piccola, giocava a nascondino con il suo papà, nascosto tra il letto e l'armadio. Quanto la faceva ridere! E ridendo si ritrovò seduta a un tavolo dell'Old Wild West, immersa nelle luci e negli odori; lui era seduto di fronte e aveva ordinato, come era solito chiamarlo, il "polletto"

Le lacrime continuavano a rigarle la faccia mentre sorrideva, ma non le sentiva, trasportata in quel viaggio di emozioni così forti. Si sentiva bene, felice, rilassata; le dita le formicolavano, in un calore avvolgente, come se indossasse un paio di guanti. 

Riviveva la giornata passata a Mirabilandia, l'estate prima, e Riccardo faceva finta di star male, dopo esser scesi dal "Katun" e lei, ridendo a crepapelle lo guardava, illuminato dal sole. La luce sbiadì e si fece più tenue su di lui, in piedi davanti al suo letto, mentre le diceva che le voleva bene e usciva spegnendo la luce, per farla dormire. Ma la luce non si era spenta e il suo letto non c'era più, ma una scomoda sedia, in una lugubre stanza traboccante dell'odore dolciastro e nauseabondo di troppi fiori. Piangeva davanti a una bara e suo papà era lì, accanto a lei, la stringeva forte e le accarezzava la testa, singhiozzando. 

Non si sentiva più felice ora, la tristezza era subentrata e sovrastava tutto, come una voce stonata in un coro. 

Lo guardava, fissava il suo papà e voleva consolarlo, ma lui non era più vicino a lei, ma con Lina, giù nel cortile. Urlava per farsi sentire, lo chiamava, ma dalla sua bocca non usciva alcun suono, mentre la sentinella planava su di loro, li imprigionava nella bolla, girandosi verso di lei con quel suo sorriso agghiacciante. Sentì il sangue ribollire nelle vene; si vide alzare le braccia verso l'uomo viola e colpirlo violentemente col raggio, sbalzandolo all'indietro, staccandogli di netto un braccio, ma mentre il corpo si scioglieva lui continuava a sorridere, a sorridere...

«VERONICA! BASTA!»

Si sentì spingere all'indietro e cadere. Aprì gli occhi. Era seduta nell'erba, sudata, a fianco di una ragazza che la fissava con sguardo vuoto. Cacciò un urlo, si alzò di scatto e si allontanò, portandosi sulla stradina. «Cosa è successo?» chiese, col respiro affannato.

Andrea si avvicinò e l'abbracciò. «Non ha funzionato.»

Si divincolò e si avvicinò al corpo di suo padre. Nel punto dove aveva posato le mani, la maglietta era bruciata e si sentiva odore di carne bruciata. «ODDIO! COSA HO FATTO?» Cominciò a piangere, chinandosi su Riccardo.

«Ho sbagliato io a chiedertelo. Andiamo via Vero, dai.»

«NOO! Fammi riprovare...»

«Lascia stare, sono morti.» disse con la voce tremante. «Torniamo alla macchina.»

«Sono i nostri genitori, non possiamo lasciarli qui, così...»

«Non possiamo fare più niente per loro.» La prese tra le braccia e la costrinse a guardarlo, cercando di calmarla. «Non possiamo più fare niente, amore. Hai tentato, sei stata coraggiosa, ma è troppo tardi. Andiamo da Marta. Lei possiamo ancora salvarla.»

Veronica lo guardò col volto rigato dalle lacrime. «Voglio levarli da qui, almeno...» sussurrò.

«E dove li vuoi mettere?»

«Dentro al portone. Il mio o il tuo, è indifferente. Ma non voglio lasciarli qui fuori.»

Andrea la fissò intensamente per un secondo, poi annuì.

Ci misero dieci minuti, trasportandoli insieme, a fatica. Li lasciarono seduti, appoggiati al muro, all'ingresso del condominio di Veronica. Lina era appoggiata alla spalla di Riccardo che, a sua volta, aveva la testa su quella della donna, in modo che nessuno dei due potesse scivolare a terra. Sembravano due innamorati che si coccolavano; in realtà si conoscevano appena. Veronica tentò di incrociare le braccia del padre sul petto per nascondere l'orrenda bruciatura che gli aveva procurato, ma non ci riuscì e affranta lasciò perdere.

Abbracciò Andrea e rimasero un minuto a guardarli. Poi si diedero un veloce bacio e s'incamminarono verso la Polo, mano nella mano.


«Alleluia! I piccioncini stan tornando.» esclamò Laura, sempre più in preda all'ansia, stringendo forte il volante e agitandosi sul sedile. Rimise in moto l'auto con l'idea di partire a razzo non appena fossero rientrati, questa volta senza nessun'ulteriore discussione. Sarebbe stata inamovibile e non avrebbe più tollerato scenate come quella di Veronica, né da lei, né da nessun altro.

Dietro di lei Camilla non stava meglio. L'effimera felicità che le aveva procurato la promessa fatta dalla voce, si polverizzò nell'istante in cui vide Andrea e Veronica tornare verso l'auto, tenendosi per mano. L'amore che sgorgava evidente tra quei due la faceva soffrire tantissimo. Camilla poteva ripetersi all'infinito che, dopotutto, l'aveva già capito; Andrea glielo aveva detto abbastanza chiaramente ai "Ginepri", e Veronica l'aveva ribadito dopo la sosta alla capanna di Bito. Ma quando si desidera ardentemente una cosa e si è disposti a tutto per averla, ci si aggrappa a ogni minima speranza, a ogni piccolo appiglio si riesca a trovare. Due frasi, buttate lì, non possono spegnere la luce. Ma gli occhi non mentono mai e quando sono loro a parlare, non ci si può fare nulla. Devi crederci per forza! E i suoi occhi, in quel momento, le stavano comunicando ciò che lei non voleva sentire; le stavano mostrando la nuda e cruda verità. E questa verità faceva malissimo, faceva soffrire, faceva piangere. E la faceva infuriare. "Tienitelo stretto più che puoi, puttanella!" pensava. Era proprio la sua voce questa volta a parlare. "Presto tornerà da me!"


La Polo ripartì con una leggera sgommata, mentre gli sportelli di Andrea e Veronica erano ancora aperti.

«Ehy! Con calma!» protestò Andrea.

«Silenzio! Non ho più intenzione di perdere tempo, adesso.»

«Tentavamo di riavere i nostri genitori... Non perdevamo tempo!» Veronica era ancora scossa per l'esperienza appena passata, e aveva gli occhi ancora umidi di lacrime; l'atteggiamento di Laura non fu d'aiuto per farla smettere.

«Senti, signorina, ho soddisfatto tutte le vostre richieste mi pare. Ora si va da Marta, dove avremmo dovuto già essere.»

Sul rettilineo che costeggiava la campagna accelerò, e Andrea rivide, con una punta di nostalgia, il retro del loro appartamento, dove, insieme a suo padre, avevano affrontato per la prima volta una sentinella. Gli mancava già il suo papà, soprattutto dopo aver avuto la dolorosa certezza che sua mamma era definitivamente perduta; nonostante tutte le raccomandazioni e le promesse che gli aveva fatto, si chiedeva se l'avrebbe mai più rivisto. Voltò la testa verso la campagna e vide Camilla che sorrideva, mentre fissava Veronica che si asciugava gli occhi. Stava quasi per chiederle cosa la divertisse tanto, ma Laura parlò nuovamente. «Da che parte?» chiese bruscamente, rivolta alla ragazzina.

Erano arrivati al piccolo incrocio dove, insieme a Dalila, Veronica aveva incontrato Bito. Il dolore per la perdita della sua nuova mamma si ripropose, affiancandosi a quello già pesante che portava nel cuore. Allungò un braccio, indicando a sinistra, senza dire niente. Da quella parte la strada si inoltrava tra la campagna, a sinistra, e un piccolo terrapieno a destra, che nascondeva un minuscolo canale quasi sempre asciutto. La via era stretta e dopo un tratto lungo circa un chilometro, curvava a destra, passando davanti alla piccola stazione del paese, per poi biforcarsi nuovamente in due: a destra riportava verso la via Emilia; nell'altra direzione, inoltrandosi ulteriormente tra i terreni, arrivava dopo un paio di chilometri, a un complesso costituito da circa una ventina di villette, chiamato gli "Olmi", un vero e proprio borghetto facente capo sempre al comune di Ozzano. Era lì che viveva Bito, come lui stesso aveva raccontato a Veronica e Dalila, ormai tre giorni prima.

«Mio papà e la mamma di Andrea sono morti, se a qualcuno interessa.» buttò fuori Veronica, trovando dentro di sé, senza alcuna fatica, un tono di distaccata e alquanto amara ironia, compagna della profonda tristezza che stava provando. Laura la guardò con la coda dell'occhio, intenerita da quella ragazzina in lacrime per la perdita del suo papà e di quella Dalila, con cui aveva capito era molto legata. Era pronta a scusarsi, quando dietro di lei la voce di Camilla, appena sussurrata, ripeté le parole di Veronica in tono canzonatorio, seguite subito da un piccolo accenno di risata, prontamente soffocata. Gli occhi di Laura si spostarono subito sullo specchietto retrovisore, cercandola, per lanciarle uno sguardo in bilico tra la severità e lo stupore. Veronica, quasi aspettandoselo, abbassò il capo, sentendo nuove lacrime sopraggiungere, lacrime diverse dalle altre, lacrime che le facevano male, ma in senso fisico, come se avesse appena ricevuto una frustata sulla schiena.

«Sei proprio una stronza, lo sai?» La voce dura e baritonale di Andrea riempì l'abitacolo ed ebbe l'effetto immediato di spegnere il sorrisetto sul volto di Camilla. Si guardarono per qualche secondo nel più assoluto silenzio.

«Scusa, Veronica.» fu tutto quello che riuscì a dire, continuando a guardare fisso il suo ex fidanzato.

«Hai ragione, cara. Dovevamo chiedervelo subito.» disse subito Laura, con sincero pentimento nella voce, cercando di stemperare il clima teso che stava montando.

«Non fa niente.» La voce di Veronica era un leggero sospiro. «Ho sperato e provato, ma non c'è niente da fare. Sono andati. Mi spiace, ma credo sia lo stesso per le tue figlie e i tuoi nipoti.» Fece una piccola pausa. «Per i tuoi genitori... e per Giò!» aggiunse, senza voltarsi. Gli occhi di Camilla luccicarono e sul suo volto Andrea rivide, per un attimo, lo sguardo sperduto che aveva quando l'avevano trovata. Ma fu solo per un secondo. Nonostante lei tentasse di sorridere, la sua espressione era diversa.

Laura sospirò, pensando alle sue figlie e ai suoi nipotini, ma aveva perso la speranza già da tempo e la notizia non la ferì, più di quanto non lo fosse già, consolata dal fatto che almeno potessero essere tutti nelle braccia del suo buon Dio. Aveva Marta a cui pensare ora, solo ed esclusivamente Marta.

Nello stesso istante in cui aveva visto la sentinella portare via tutta la sua famiglia, il dolore era arrivato, opprimente, gravoso, piombando nel suo cuore come un blocco di cemento lasciato cadere dalla cima di un alto palazzo. Inizialmente si era sentita straziata, poi era giunto uno strano torpore, una sorta di vago intontimento che aveva azzerato i suoni intorno e aveva avvolto tutto in una bolla, non arancione e brillante come quelle, terribili, che aveva intorno, ma opaca, densa, come una fitta nebbia autunnale. In quello stato, aveva incontrato Marta; piangeva, seduta su un marciapiede, e senza quasi accorgersene l'aveva presa per mano, sussurrandole parole dolci e di conforto, udendo la sua stessa voce, ma come se provenisse dalla bocca di un altro. Poi più nulla. La bolla si era accartocciata su di lei, e la nebbia era diventata oscurità; e c'era silenzio! Tanto silenzio! Non sapeva dire se fosse stata come addormentata, ma il ritorno alla realtà fu sicuramente molto simile a un risveglio. La luce, l'aria, gli odori, i rumori... tutto le era tornato addosso, come se qualcuno avesse spalancato la finestra, in una stanza buia. Si era ritrovata in bilico su una passerella di legno, con l'acqua del lago che incombeva sotto di lei. Un uomo la tratteneva e la piccola Marta piangeva, guardandola, un po' più indietro. Fu quello l'attimo in cui il grumo di dolore che aveva nel cuore si era sciolto in amore per quella piccola, e aveva capito: Dio le aveva fatte incontrare, per prendersi cura l'uno dell'altra.

«Raccontateci cosa è successo.» chiese.

Veronica alzò appena gli occhi, proprio mentre passavano davanti alla stazione deserta. «Niente. Non è successo niente. Questo è il problema. A sinistra.»

Laura non capì subito, poi vedendo la biforcazione prese la direzione indicata. Andrea non fissava più Camilla; lei aveva provato a prendergli la mano, come volesse scusarsi con Veronica tramite di lui, ma il ragazzo l'aveva subito ritratta, mettendosi a guardare fuori dal finestrino. Lei fece lo stesso, con rabbia sempre maggiore nel cuore. La voce nella testa era assillante e molto convincente. Ormai doveva ubbidire, a prescindere dal premio che le aveva promesso. Sentiva che non poteva (e non voleva) farne a meno, anche se l'euforia che aveva provato prima si era quasi del tutto attenuata, sbattuta in un angolo dalle parole e dallo sguardo di disprezzo che Andrea le aveva rivolto, ferendola e umiliandola. Ripensava continuamente all'ultima notte passata insieme, ai baci, alle carezze, alle parole dette. Avevano raggiunto l'orgasmo insieme due volte, in un vortice di passione e piacere impossibile da descrivere a parole. Mai, in quel momento, avrebbe potuto immaginare che lui pensava a Veronica in realtà. "Mi prendeva in giro, solo per scoparmi!" E adesso avrebbe pure dovuto sentirsi in colpa? No! Non poteva finire così! Non doveva finire così. "Devi solo fare quello che ti ho detto, ragazza mia, e lui tornerà da te, per sempre." La voce insisteva, e le infondeva coraggio.


«Ferma qui!» La voce di Veronica, riacquistato un pizzico della solita sicurezza, ridestò Camilla dai suoi lugubri pensieri.

Si erano fermati all'imbocco di un largo e lungo viale, con una fila di villette su entrambi i lati, intersecato da altre due strade parallele, pressoché identiche alla prima. Alla loro sinistra, dietro alla fila di case e a un piccolo parco giochi, si estendeva un vasto campo coltivato ricoperto da quelli che sembravano grossi sacchi vuoti abbandonati. Nessuno disse niente, ma tutti sapevano che erano gli abitanti di quelle case, prelevati contro il loro volere, pigiati dentro a una bolla arancione, svuotati della loro essenza e lasciati inermi sulla terra.

«Sai anche qual è la casa?» chiese Laura, distogliendo lo sguardo e ponendolo, speranzosa, su Veronica. «Sono tutte uguali queste villette.»

«Basta cercare la macchina nera. Sarà parcheggiata davanti alla casa giusta.» intervenne Camilla, senza riuscire a evitare di spruzzare col sarcasmo le sue parole.

«No!» La voce di Veronica uscì secca, neutra, priva di qualsiasi sfumatura, accentuata dal fatto che non si girò a guardare la sua rivale, a cui la risposta era diretta, ma rimase a fissare il parabrezza davanti a lei. «Bito ci ha detto che la sua casa è stata ricavata dall'unica che già esisteva. Non ci frega nulla della macchina!»

«Quindi avrà un aspetto diverso dalle altre?» s'intromise Andrea, sbirciando il risentimento di Camilla con la coda dell'occhio.

«È evidente.» Laura scrutava la strada, deserta e immobile, come se guardasse una fotografia. L'afa di metà mattina era già soffocante e l'unico suono che si udiva era l'incessante frinire delle cicale. Le case che riuscivano a scorgere erano danneggiate da grandi buchi nei muri; avevano le porte scardinate, le finestre divelte e nessuno di loro dovette ricordarne il motivo. La prima, alla loro destra, era addirittura parzialmente crollata e, tra le macerie, si poteva intravedere la carcassa di un furgoncino. Laura mise la mano sulla chiave con l'intento di ripartire, ma Veronica la bloccò.

«Non mettere in moto. Potrebbe sentire il rumore della macchina.»

«E quindi? Cosa vuoi fare?»

«Dobbiamo prima scoprire dov'è la casa, poi penseremo a come agire.» Camilla sbuffò, con lo sguardo apparentemente perso verso la campagna, ma sorrideva e scuoteva la testa. Veronica dopo un fugace sguardo di disprezzo la ignorò, e proseguì. «Vado io. Voi aspettate qui.»

«Non se ne parla neanche. È troppo pericoloso andare da sola. Vengo con te.» disse Andrea sollevandosi e aggrappandosi al poggiatesta del sedile della sua ragazza.

Camilla cominciò a ridere. «Una splendida scusa per appartarsi nella prima villetta integra disponibile!»

«La vuoi finire? Si può sapere cosa ti ho fatto per odiarmi tanto?» Veronica si era voltata di scatto ed era scoppiata nuovamente in lacrime.

Andrea batté il pugno sullo schienale del sedile. «Hai rotto veramente le palle!»

«Che mi hai fatto? Mi chiedi che mi hai fatto? Mi hai rubato il ragazzo, stronzetta!»

«Camilla, finiscila!»

«Io non ti ho rubato nessuno!» «Sono stato io che...» «Avevi detto che mi amavi e...» «Non volevo andasse così ma...» «Amo lei e non volevo prenderti...» «Prima vieni a letto con me...»

«BASTA! SMETTETELA TUTTI!» L'urlo di Laura li zittì, ricacciando la discussione nelle loro gole. Le cicale avevano smesso di cantare, come se anche loro si fossero messe ad ascoltare la becera discussione. «C'è una bambina in mano a un pazzo e voi continuate a perdere tempo su queste sciocchezze!»

Andrea chinò la testa mentre Camilla riprese a osservare il triste paesaggio. Non sembrava particolarmente turbata. Veronica tremava leggermente e con una mano si asciugò gli occhi. «Scusa, Laura.»

«Non mi servono scuse, ma azioni! Vado io, senza discussioni. Al mio ritorno voglio delle idee per riuscire a riprenderci Marta. Sono stata chiara?»

Non aspettò la risposta di nessuno. Lanciò le chiavi dell'auto sul pianale del cruscotto, uscì fuori e si avviò, sbattendo la portiera dietro di sé.


Marta si era addormentata poco prima che arrivassero. Bito l'aveva adagiata sul divano senza troppa grazia e con fatica, vista la stazza, ma la bimba non si era svegliata. Doveva essere esausta, pensò. "Per quanto ha rotto le palle!"

Aveva cominciato a dare di matto appena lasciati i "Ginepri", piangendo, strillando e cercando di scappare dalla macchina in movimento. Bito si era dovuto fermare e l'aveva schiaffeggiata sul viso, peggiorando però la situazione. Aveva aperto il vano portaoggetti trovando due rotoli di scotch da pacchi a fianco di alcuni utensili. Le aveva legato i polsi e chiuso la bocca, facendola sdraiare sui sedili di dietro e minacciandola di farle ancora più male se non si fosse calmata. Marta aveva continuato a mugolare per un po', poi era crollata.

La porta d'ingresso era stata scardinata dalla sentinella la sera prima, e ora giaceva all'interno del suo salotto. Aveva bisogno di rilassarsi un po' e non aveva intenzione di fare la guardia a quel piccolo porcello rapito. Cercando di non svegliarla le legò anche le caviglie, usando lo stesso rotolo di scotch trovato nell'auto, ma, per ulteriore sicurezza, trascinò la pesante credenza davanti all'ingresso, bloccandolo e lasciando la parte superiore della porta scoperta. La bambina era legata mani e piedi, e piuttosto grassa: non sarebbe riuscita a scavalcare il mobile, nel caso si fosse svegliata. Inoltre, dall'apertura sarebbe entrata un po' d'aria, sicuramente calda, ma che poteva essere un po' di refrigerio per la sua ospite. "Che non si dica poi che non ho buon cuore!" pensò, sogghignando. Si versò della grappa in un bicchiere e aprì la porta che dava sulla piccola veranda che aveva nel lato dell'abitazione. Il cigolio dei cardini, seppur non acutissimo, penetrò il silenzio della casa come una lama. Marta si mosse e si lamentò nel sonno. Bito restò fermo, implorando non si svegliasse, ma la bambina continuò a dormire. "È da una vita che voglio sistemarla, accidenti a me!" pensò.

Si sedette sulla poltrona che teneva sotto al piccolo pergolato, cercando di far calmare i nervi. Il male ai testicoli era quasi sparito, ma gli era rimasto un alito di dolore al basso ventre, non molto forte, ma piuttosto fastidioso. Il caldo era asfissiante ed era tutto sudato. Avrebbe voluto farsi una doccia, anzi, avrebbe dovuto, perché puzzava come un cane morto sull'asfalto, ma non c'era acqua. I rubinetti erano muti e lui raramente comprava bottiglie d'acqua da bere. Poteva fare visita a qualcuna delle case dei vicini, o andare al supermercato dove avrebbe sicuramente trovato tutto ciò che gli serviva, ma non voleva lasciare sola quella piccola rompiballe. La doccia poteva aspettare e se aveva sete... «Liquidi, in casa, ne ho!» disse, rimirando in controluce il bicchiere che aveva in mano. Si appoggiò allo schienale, con lo sguardo fisso sulla siepe che divideva il suo piccolo giardino dalla campagna, sfiorando con la mano la mazza da baseball posata a terra. Da giovane era stato un mediocre giocatore, arrivato, sempre da riserva, fino alla serie C. Aveva avuto un unico momento di gloria in tutta la sua modestissima carriera ed era successo durante la partita decisiva per non retrocedere nella categoria inferiore; chiamato a sorpresa dall'allenatore per un turno di battuta era riuscito a spedire la pallina fuori dal campo di gioco, regalando la vittoria alla sua squadra. Era stato portato in trionfo e si era sentito importante, per la prima volta in vita sua, e purtroppo, anche per l'ultima. Si era illuso che le cose potessero cambiare dopo quel fatto, ma tutto era rimasto come sempre. Non aveva nessun amico e l'unica ragazza che gli rivolse la parola, complimentandosi per la sua performance, gli sghignazzò in faccia quando lui le chiese se voleva uscire. «Una palla colpita bene da una mazza, non migliora mica il tuo aspetto! Sei sempre brutto come prima!» gli gridò, mentre si allontanava ridendo con una sua amica. Conservò la mazza che gli aveva regalato quell'unico momento di gioia, l'unico della sua vita e la usò, poco più di due anni dopo, per spaccare la testa a quella stessa ragazza, dopo averla stuprata e torturata con grande godimento: il primo dei suoi omicidi. "La mia fedele compagna di viaggio.", così la chiamava. Il contatto delle sue dita con il legno gli dava sicurezza e riusciva a tranquillizzarlo.

Cominciò a riflettere. Riviveva con la mente tutto quello che era successo in quel casolare, la gioia che aveva provato quando aveva visto quella patetica donnicciola stesa morta a terra e il senso d'impotenza, misto a paura, che l'aveva pervaso nel sentire la furia che quella ragazzina aveva provato nei suoi confronti. Gli aveva già fatto male una volta e due piccole croste sulle spalle lo testimoniavano. Stavolta era stato più pronto e più svelto, anche se quel vecchio grassone si era messo in mezzo. "Per fortuna!" pensò. "Non devi ucciderla." Doveva consegnarla al suo padrone, che però sembrava essere sparito. Dopo l'impeto di rabbia che aveva percepito mentre scappava da lassù, non lo aveva più sentito. La sua mente era libera e gli pareva che la testa galleggiasse sopra al collo, ma, allo stesso tempo, provava un forte senso di smarrimento. Aveva la bambina e di conseguenza, il coltello dalla parte del manico. Sarebbero venuti. Oh, senz'altro! Sarebbero venuti a riprendersela. La ragazzina sapeva dove abitava. Ricordava d'averlo detto quando le aveva caricate. Sarebbe venuta e si sarebbe piegata alle sue condizioni.

Stese la mano libera contro la siepe e fece partire il raggio, polverizzandone all'istante una porzione. "Bene! I poteri li ho ancora." Sorrise e chiuse gli occhi. C'era silenzio intorno a lui, un silenzio terribile, carico di morte. A Bito piaceva.

Fu in quel momento che sentì urlare. Sembrava una voce arrabbiata, come se qualcuno se la stesse prendendo con qualcun altro, e giungeva dalla sua sinistra, lontano, ma non troppo. Spalancò gli occhi, drizzò le orecchie e si sollevò, guardando in quella direzione. Dalla sua posizione vedeva solo la strada immobile, e la villetta al di là di quella che tremolava leggermente nell'afosa canicola che avvolgeva tutto. Chi poteva essere? Possibile che fossero già qui? Il rumore, secco e preciso di uno sportello d'auto che si chiudeva, interruppe di nuovo la monotonia dell'afa opprimente. Lasciò cadere il bicchiere che s'infranse sulle assi di legno della veranda, spargendo tutt'attorno l'alcool, s'alzò di scatto e corse verso l'angolo della casa, appoggiandosi al muro per sbirciare. Sembrava tutto tranquillo. La cappa di calore era densa, l'aria era pesante, le case e la strada, silenziose. Eppure, qualcuno c'era, era sicuro di non aver sognato. Tornò alla porta ed entrò in casa. La bambina era ancora sul divano e dormiva. Si diresse alla porta del seminterrato e tastò il muro in cerca dell'interruttore, ricordandosi subito che non c'era la corrente. «Accidenti anche a te!» disse, rivolto a chi ormai, era sicuro, non albergava più nella sua testa. Scese le ripide scale al buio, facendo molta attenzione, ma cercando di fare più presto che potesse. «Devo nasconderla!» Lo stanzino era basso e stretto, senza finestre e con una serie di mensole che occupavano tre delle quattro pareti. Il caldo era soffocante e impregnato dell'odore pungente di muffa e umidità. Rovistò alla cieca sul ripiano più basso e più vicino alla scala, finché non trovò quello che cercava: una vecchia lampada elettrica, di quelle che funzionavano con quattro grosse pile. L'accese, pregando funzionasse ancora. Un fascio di luce illuminò la stanza e Bito emise un sospiro di sollievo. Dirigendo la luce sulle mensole, tirò fuori da una borsa di plastica un vecchio e sporco sacco a pelo e lo srotolò sul pavimento; recuperò una corda e la buttò sopra a quello; poi, posizionata la lampada sulla mensola di fronte alla rampa, in modo che illuminasse quasi tutti i gradini, risalì, col cuore che batteva all'impazzata nel petto. Si avvicinò al divano; la piccola striscia di nastro che aveva appiccicato sulla bocca della bambina era scivolato via, vuoi per il sudore, vuoi per le lacrime o per la saliva. "Dovevo metterglielo tutt'intorno alla testa, mannaggia a me!", ma non se ne fece un grosso cruccio. La piccola pareva ancora addormentata. Le mise un braccio sotto le gambe grassocce, l'altro sotto la schiena e la sollevò. Marta aprì gli occhi e urlò, con tutta la forza che aveva in corpo. Si divincolò e lo colpì forte sul volto con le mani legate tra loro. Bito cacciò un urlo di rabbia, la lasciò ripiombare sul divano e la colpì con uno schiaffo, più forte che poteva. Poi, senza perdere tempo, si chinò nuovamente per risollevarla, mentre lei piangeva disperata, cercando in tutte le maniere di difendersi.

«Zitta! O te ne do un altro più forte!» la minacciò, col pugno sulla faccia. La sollevò e si avviò verso il seminterrato. «Se ti agiti ancora ti butto giù dalle scale, chiaro?»

La bambina annuì, mentre tirava su con il naso e continuava a piangere, sempre più disperata. Con grande fatica Bito riuscì a scendere di sotto e ad adagiarla sul sacco a pelo. Le liberò mani e piedi dallo scotch, poi, sempre sotto minaccia di nuovi schiaffi, la rilegò con la corda. Infine, le ritappò la bocca con il nastro adesivo, facendo, questa volta, due giri intorno alla testa.

Corse su, si accertò che la casa fosse tranquilla, poi chiuse la porta e ridiscese le scale.


Lasciata l'auto, Laura si diresse a sinistra, senza un particolare motivo. La casa di quell'individuo poteva trovarsi di qua o di là dalla strada, lei non poteva saperlo. Ma in quel momento a guidarla fu l'istinto. La razionalità era sepolta sotto una coltre spessa e compatta di rabbia, disperazione e stanchezza.

Attraversò il piccolo parco giochi, raggiungendo le due villette che costeggiavano la prima stradina che intersecava quella principale. Un vialetto passava in mezzo alle abitazioni, attraversava la strada camuffato da strisce pedonali e riprendeva il suo cammino dall'altra parte, passando tra le altre due case che fiancheggiavano la via e le altre subito dietro, che facevano lo stesso con la seconda strada. Sbucando qui, Laura si fermò. Di fronte a lei, al di là di quell'ultimo tratto di asfalto, c'erano le ultime due villette che chiudevano il borgo, prima che riprendesse la campagna. Quella che aveva di fronte era standard, l'altra no. Era su due piani come le altre, ma un po' più alta, più lunga, con una forma decisamente diversa. Nonostante l'avessero dipinta dello stesso colore, avessero messo gli stessi infissi e le stesse tegole sul tetto, il travestimento risultava debole. Le parve strano che il comune, generalmente molto attento all'estetica delle case costruite così vicine, ne avesse approvata una così. "Ma chi se ne frega!" pensò Laura. "L'ho trovata! E subito! Veronica aveva ragione." Dovette constatare però che anche Camilla l'aveva detta giusta: parcheggiata, nel vialetto davanti all'ingresso, c'era la SAAB nera. «Grazie Signore!» mormorò a labbra chiuse.

Stava per girarsi e tornare alla macchina quando notò una cosa strana: la porta sembrava non esserci o, meglio, pareva ce ne fosse solo un pezzo. Non vedeva perfettamente da lontano e i suoi occhiali erano rimasti su in Trentino, ma era convinta di non sbagliarsi. Fece due passi avanti, guardandosi attorno, quando un urlo le gelò il sangue nelle vene, seguito subito da un verso rauco e rabbioso. Si portò una mano sulla bocca. «Oddio! Marta!»


«Avete sentito?» Veronica, girata in quel momento verso Andrea e Camilla, nel tentativo di buttare giù uno straccio di idea che potesse soddisfare Laura, si voltò verso la strada.

«Cosa dovremmo aver sentito?» disse Camilla, con la voce e lo sguardo annoiato.

«Un urlo! Ho sentito un urlo.»

«Tu hai sentito qualcosa?» chiese Camilla ad Andrea, con lo sguardo che diceva "questa è matta!"

Il ragazzo si avvicinò al sedile davanti. «Sei sicura, Vero?»

«Sì! Veniva da là!» disse, agitata, indicando la direzione presa da Laura.

«Siamo in tre e due non hanno sentito nulla. Forse te lo sei immaginato?»

Veronica si voltò e lanciò a Camilla uno sguardo carico d'odio, senza però risponderle. Aprì lo sportello e scese dalla macchina.

«Aspetta! Dove vai?» chiese allarmato Andrea, scendendo a sua volta.

«Vado a vedere. È successo qualcosa, me lo sento.»

«Oh, lei se lo sente!»

Andrea si abbassò e fulminò Camilla. «Tu resta qui a badare all'auto! Noi torniamo subito.»

«Non devi venire anche tu per forza.» disse Veronica.

«Figurati se ti lascia andare da sola!» La voce ironica di Camilla usciva dall'auto, ma entrambi i ragazzi la ignorarono.

«Potrebbe essere pericoloso. Anzi, sicuramente lo è! Io vengo con te, è fuori discussione.» Si abbassò di nuovo. «Aspettaci qui, mi raccomando.»

Camilla fece uno stanco segno con la mano, a indicare che andava bene e si mise a braccia incrociate. Andrea prese la mano di Veronica. «Andiamo!»


Recitando mentalmente il Padre Nostro e l'Ave Maria, Laura si avvicinò alla porta. Stava correndo un pericolo enorme e rischiava seriamente di essere uccisa; aveva visto cosa era capace di fare con le mani quel Bito e come aveva ucciso Dalila e Giancarlo. Quell'uomo la terrorizzava e avrebbe avuto paura di lui anche se non avesse avuto i poteri, ma doveva fare qualcosa. Marta era sola e indifesa, nelle mani di un uomo cattivo e meschino; quel pensiero la tormentava da quando era stata portata via dai "Ginepri", e ogni secondo che passava, si faceva sempre più pesante. La piccola aveva bisogno di lei e non si poteva più perdere tempo.

Aveva visto giusto: la porta non c'era, ma l'ingresso era sbarrato da un mobile che lo bloccava a poco più di metà dell'altezza. Si acquattò e sbirciò con attenzione all'interno; vide un salotto con un divano e un tavolino. La parete adiacente al piccolo giardino, alla sua sinistra, si allargava in fondo, formando la cucina in cui una grande finestra permetteva la vista sulla campagna, per poi riprendere, passando dietro al divano, bucata da una porta che, immaginò, portava al seminterrato di cui parlava Veronica. Nell'altro lato si apriva un'ulteriore stanza, forse una prosecuzione del salotto, ma dalla sua posizione non poteva vedere bene. Addossata alla parete di destra c'era la rampa di scale che portava al piano di sopra. Marta poteva essere lassù o giù nello scantinato. Laura aveva visto quel perfido omuncolo una volta sola, ma avrebbe scommesso che la bimba era di sotto; non le sembrava proprio un uomo che adagiava le sue vittime su di un comodo letto. Ulteriormente scossa da quei pensieri notò il muro sgretolato all'altezza dei cardini e capì che una sentinella era senz'altro stata lì. Provò a spingere con la spalla la credenza, ma era molto pesante. La sentì muoversi appena, producendo un sinistro scricchiolio sul pavimento. Si fermò; faceva troppo rumore e poteva essere scoperta. Sempre che Bito non la stesse già osservando. Si guardò nuovamente intorno, ma niente era cambiato. La strada era deserta, silenziosa, così come tutte le villette che la circondavano. Si rigirò verso l'interno della casa, col terrore di ritrovarsi la faccia dell'uomo davanti, all'improvviso. Ma non c'era nessuno. Il salotto era vuoto, come prima. Le cicale ripresero a cantare e Laura sussultò. «Stai calma!» disse, per darsi coraggio. Doveva cercare un'altra entrata. Svoltò il muro alla sua sinistra e si trovò davanti il giardino con una piccola veranda; una poltrona era abbandonata lì nel mezzo. Per terra, tra vetri rotti sparsi un po' ovunque, c'era una mazza da baseball, macchiata in più punti. La raccolse. «Questa potrebbe servirmi.» L'annusò, riconoscendo l'odore di grappa. Andò alla porta; sembrava accostata e infatti si aprì, emettendo un acuto e sinistro cigolio. Strinse il collo tra le spalle, strizzando gli occhi, perforata da quello stridente suono che aveva, quasi certamente, informato Bito che qualcuno era entrato in casa. Era completamente bagnata di sudore e sapeva che non era solo per il caldo. Impugnando il bastone e tremando, entrò nella casa.

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