30 - GLI OLMI (2)

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Qualcuno era entrato. Il cigolio della porta era un rumore inequivocabile. Bito aveva spento la lampada e minacciato ulteriormente Marta di non provare nemmeno a emettere un mugolio, anche se era sicuro che non ci sarebbe riuscita, visto come le aveva tappato la bocca.

Chi poteva essere? "È sicuramente la ragazzina. Chi sennò?" Si accorse di tremare nel buio, esattamente come stava tremando la bambina. Si vergognò di sé stesso e delle lacrime che si accorse di avere alla base degli occhi. "Hai paura di una ragazzina! Che uomo sei? Vai su e affrontala. Sei più forte!" Ma non ne era così sicuro e non si mosse. La realtà era che non voleva rivelare il nascondiglio e, se qualcuno avesse spalancato la porta dello scantinato, avrebbe sparato il raggio, a tradimento. Codardo e vigliacco. D'istinto si chinò per cercare la sua mazza, ricordando subito dove l'aveva lasciata. Ne aveva bisogno! Non tanto per essere armato, ma per il coraggio che il contatto con quel legno riusciva a infondergli. Tese le orecchie per poter captare ogni singolo rumore venisse da su e capire dove stesse andando il suo sgradito ospite. Gli parve di sentire dei passi e, forse, il rumore di qualcosa che veniva strisciato, forse una sedia. Passarono due, forse tre minuti, ma a lui sembrarono ore. Sentiva la bambina respirare ed emettere microscopici lamenti; le sue minacce avevano avuto effetto. Sopra di lui tutto era silenzioso; chiunque fosse pareva in attesa, sicuramente di una sua mossa, di un suo errore. Ma Bito era perfettamente immobile, non gli pareva nemmeno di respirare. "È tutto un gioco di nervi!" pensò, "Chi li ha più saldi, vince!" Poi, inaspettatamente, il silenzio fu sgretolato dal cigolio della porta, che lo fece sussultare. Se n'era andato? O andata? Chiunque fosse era uscito di casa. Sentì la tensione alleggerirsi. "Sono stato troppo superficiale, e mi son fatto trovare impreparato. La prossima volta, non accadrà." pensò, con un misto di euforia e sicurezza che sentiva riformarsi dentro di lui. Si concesse altri cinque minuti in cui stette in assoluto silenzio, cercando di affinare al massimo ogni senso, per poter percepire il minimo alito di rumore che un intruso potesse provocare. Tutto continuava a tacere. Udiva solo il frinire delle cicale, ovattato ma costante. Riaccese la lampada. Gli occhi della bambina lo fissavano, pieni di terrore, di stanchezza e di una sorta di pietà, richiesta senza speranza. Bito gli fece il segno del silenzio accostando l'indice alle labbra, seguito da quello più brutale del taglio della gola, poi salì cautamente le scale. Arrivato in cima accostò l'orecchio, ma il canto degli insetti continuava a essere l'unica cosa udibile. Aprì la porta così lentamente da sentire quasi formicolare il braccio, finché l'uscio non fu interamente spalancato e la visione del salotto, completa davanti ai suoi occhi. Era vuoto. Fece un passo avanti e guardò a destra, verso la porta cigolante e la veranda di fuori. Era spalancata, ma non c'era nessuno. Si voltò a sinistra, in tempo per vedere qualcosa sfrecciare verso la sua faccia. Prima di capire cosa fosse, gli esplose un dolore sordo al naso e alla bocca, e una sensazione terribile di vuoto dietro di sé lo circondò. Annaspò con le mani, senza rendersi conto di farlo, credendo di volare, e nell'esatto istante in cui il panico l'assalì, sentì un colpo secco alla schiena. Per una frazione di secondo, che a lui sembrò lunghissima, gli parve di avere un mantello fatto di liquido bollente adagiato delicatamente sulle spalle, coprirlo dal collo al sedere; vide, con orrore inesprimibile, tutti i cadaveri delle ragazze che aveva torturato, stuprato e ucciso, chinarsi su di lui per baciarlo, o morderlo, piene di vermi, in putrefazione, col tanfo del marcio che gli entrava nelle narici, nella bocca. Stava per urlare, ma piombò d'un tratto nel nero più assoluto e non sentì più nulla.


Laura ansimava. La scarica di adrenalina che l'aveva trafitta mentre colpiva la faccia di Bito con la mazza da baseball, poteva anche risultare fatale per una donna della sua età. L'aveva guardato mentre volava giù dalle scale, all'indietro, e aveva sentito il rumore sordo e secco della schiena che si spezzava, quando era atterrato. Le era parso di vederlo muoversi per un secondo, ma non ne fu sicura. Era immobile, assolutamente immobile e questo la confortava. Si mise la mano destra sul seno sinistro e sentì il battito che rallentava. Aveva appena ucciso un uomo, infrangendo il quinto comandamento, ma non sentiva nessuna colpa in lei, nessuna vergogna o pentimento, nessuna paura di essere giudicata dallo sguardo di Dio. Anzi, non gliene importava nulla. Per la prima volta nella vita, non sentiva il bisogno di cercare il Suo conforto o il Suo perdono. E ciò accadeva proprio dopo aver appena compiuto l'atto che Dio considerava il più terribile: uccidere un essere umano, un proprio simile; uccidere uno dei Suoi figli. Ma poteva un uomo come quello essere figlio di Dio, creato a Sua immagine e somiglianza? Poteva il respiro dell'Onnipotente, soffiare all'interno di un tale, putrido ammasso di carne senziente? E soprattutto, perché Dio permetteva tutto questo? Perché lasciava una bambina, sola, spaventata, innocente, in balia di un uomo del genere, senza intervenire? "Perché non c'è nessun Dio, cara!" La sua voce le rimbombò in testa come il rintocco di una campana da morto. E comprese chiaramente, in quel preciso istante, che in lei era germogliato il seme del principale antagonista della fede: il dubbio. Era spaventata, ma anche incuriosita. Aveva sempre fatto affidamento alla preghiera nei momenti bui della sua vita; sarebbe riuscita a farne a meno? "Se ne sentirai la mancanza, puoi sempre ricominciare..." La soluzione era tanto semplice da dire, quanto complessa da eseguire. Intanto però, vedeva le cose da un'altra prospettiva: la realtà. Le preghiere erano solo parole, la fede solo un'idea. Ma il corpo morto di quell'uomo era vero ed era laggiù, davanti a i suoi occhi. Marta era vera, ed era là anche lei, che aspettava d'essere salvata. Adesso solo questo contava per Laura e l'aveva capito nell'esatto momento in cui la mazza aveva colpito la faccia di Bito.

Due braccia la cinsero da dietro, facendola sussultare e risvegliandola dal breve torpore in cui era caduta.

«Sei stata bravissima.» disse Veronica.

«Un colpo da campione!» aggiunse Andrea.

«Aver giocato nella nazionale di softball è servito a qualcosa, anche se è stato nel giurassico!» sorrise. «Marta? Dove sei?»

Dal fondo del seminterrato giunse un mugolio, disperato e potente. Laura si affrettò a scendere, attenta a non scivolare su quegli stretti e ripidi scalini, appena illuminati, e a non fare la stessa fine di Bito. Il cuore le batteva forte. Andrea e Veronica le andarono dietro. Giunta in fondo girò la lampada verso lo stanzino, illuminando la povera bambina che piangeva, legata come un salame.

«Tesoro mio!» Anche Laura scoppiò in lacrime mentre l'abbracciava e la liberava. «Mi dispiace, mi dispiace così tanto!»

I due ragazzi, visibilmente commossi, l'aiutarono e, a turno, abbracciarono Marta anche loro.

«Ti ha fatto del male? Ti ha picchiata?» chiese Laura, una volta che le aveva tolto ogni impedimento.

«Mi ha dato degli schiaffi e mi ha fatto tanta paura.»

«Bastardo!» Si alzò e fece per dirigersi minacciosa verso il corpo inerme, ma Veronica la bloccò.

«Lascia perdere. Se esiste un inferno sta già pagando per le atrocità che ha commesso.»

«Non ne vale la pena, ormai.» disse Andrea, mentre scompigliava il cespuglio di capelli di Marta. «Che ne dite di andarcene da qui? Non so voi, ma comincio a pensare a quella casa in Trentino come a un paradiso.»

«Avete ragione. E poi sono stanca.» Laura riabbracciò la bambina che si stringeva a lei più forte che poteva. «Farò in maniera che non ti succeda più nulla, te lo prometto.» le disse.

«Che facciamo di lui?» Veronica indicava Bito. «Siamo sicuri che sia morto, vero? Sapete cosa succede sempre nei film... il cattivo sembra che muoia, poi, quando tutti sono rilassati, si sveglia di soprassalto e combina altri casini.»

Laura si alzò. «È morto! Con una caduta del genere è inevitabile, e ho sentito chiaramente rumore di ossa che si spezzavano! Ma per sicurezza...» Si chinò sul corpo e mise due dita sul collo. «Morto!»

«Lo lasciamo qui?»

«Certo, Veronica. Un uomo del genere non merita sepoltura, ma di marcire su questo pavimento, al buio, mangiato dai ratti.» Si sorprese, ancora una volta, sentendosi dire e pensare quelle cose. Ma si sentiva stranamente bene e leggermente euforica.

Andrea e Veronica la guardarono, si guardarono e annuirono.

«Voglio andare via di qui, per favore.» La vocina di Marta, sicuramente rinfrancata, ma ancora carica di paura e angoscia, li spronò del tutto.

«Ce ne andiamo subito.» Laura tornò da lei e la prese per mano, mentre i due ragazzi stavano già salendo in fila indiana, Veronica davanti ad Andrea. Giunsero in cima, ma una volta fatto un passo fuori dalla porta dello scantinato si fermarono, bloccando l'accesso.

«Ehy! Ci fate uscire anche a noi?» protestò Laura. Veronica, bianca in volto, si girò senza dire nulla. Si fece di lato per farla passare e fu allora che la vecchia vide Camilla, in piedi in mezzo al salotto. Aveva in mano il fucile e lo puntava contro di loro.


«Tesoro, cosa fai?» Andrea aveva fatto un passo verso di lei, con le mani aperte in avanti.

«Fermo lì! Adesso sono tornata a essere il tuo tesoro?» Il volto della ragazza sembrava diverso, trasmutato, trasfigurato, ancora di più di quello che Andrea aveva già notato, come se davanti a loro ci fosse la brutta copia di Camilla. «Sei di nuovo innamorato di me? Noto con piacere che il pezzo di ferro che tengo in mano è un potente filtro d'amore, giusto?» sogghignò, facendo assumere al suo viso un aspetto quasi diabolico.

Laura strinse forte a sé Marta. «Ti prego cara, metti giù quel...»

«Silenzio! Sta zitta! Tu e il porcello spostatevi, e mettetevi contro il muro. E anche tu, amore mio!» Calcò la voce sulle ultime due parole, dosandole di un'ironia piuttosto inquietante.

«Camilla...»

«Spostati! Voglio che lasciate questa puttanella sola, davanti a me. Andrai a far compagnia a quel pezzo di merda laggiù, lo sai?»

A quelle parole, la paura che Andrea provava in quel momento, si gonfiò, riempiendolo totalmente, velandosi di una patina di acuta tristezza. Quel turpiloquio non le apparteneva, tanto quanto quell'espressione da bestia, feroce e senza controllo, che aveva appiccicata sul volto. Non era lei, non poteva essere lei. Gli venne l'assurdo pensiero che fosse posseduta da... Ismel! Ma, come poteva essere possibile?

Veronica, intanto, rimasta zitta fino a quel momento, la fissava, cercando di non far trasparire tutto il terrore che stava provando. Cercò di assumere un atteggiamento sicuro, sprezzante, forse per indurla a desistere, ma in realtà, non sapeva cosa fare.

«E cosa pensi di ottenere uccidendomi? Andrea ti odierà e ti disprezzerà dopo.»

Camilla la guardava con odio, poi fissò Andrea che si era spostato nei pressi della scala che saliva di sopra. «È qui che ti sbagli! Lui mi ha detto che se ti faccio fuori, farà in maniera che torni da me, per sempre.»

«Lui?» Veronica aggrottò la fronte.

«Lui chi?» chiese Laura. Lei e la bimba si erano messe davanti all'apertura della cucina.

«Ismel, vero?» disse Andrea, capendo d'aver avuto un'intuizione corretta, e senza distogliere lo sguardo dal dito di Camilla appoggiato sul grilletto. «Ti ha parlato? Ti ha fatto delle promesse? Tu gli credi?»

«Certo che gli credo! Era sincero e io lo so.»

«Lui vuole solo eliminarmi, perché sono uno scrigno. Non gliene frega nulla di te, di Andrea, di nessuno. Non ti darà niente e tu rimarrai ancora più sola.»

«STA ZITTA! Cosa vuoi saperne tu dell'essere sola? Io non ho più nessuno. Avevo trovato lui e tu me l'hai portato via. E io adesso me lo riprendo.» Piangeva, ma lacrime rabbiose, rancorose, caricate di tutto l'astio e il disprezzo che Andrea riusciva a intravedere negli occhi della ragazza. Ricordava come lo guardassero, la sera del dondolo, e anche tutte le volte che li aveva fissati intensamente, mentre facevano l'amore. No! Quella non era Camilla! Quella vera doveva per forza essere seduta ancora in macchina. Voleva crederlo, con tutto il suo cuore! «Se la uccidi, Camilla, non mi vedrai mai più. Te lo giuro su mia mamma e mio papà.» disse, con un fil di voce.

«Lui ti costringerà a stare con me. Non avrai scelta.»

Laura si appoggiò al muro; teneva Marta per mano, al suo fianco. «E tu vorresti che lui stia con te solo perché costretto?»

«Nessuno mi costringerà!» Andrea continuava a fissare il grilletto. Il cuore martellava talmente forte che se lo sentiva quasi alla base della gola. Veronica continuava a rimanere ferma sulla soglia dello scantinato; dietro di lei, la ripida scala e il corpo di Bito in fondo, spezzato. Aveva l'inquietante sensazione che avesse sollevato la testa e che la stesse fissando, sorridendo. Da un momento all'altro avrebbe sentito la sua voce. «Stronzetta! Dai che ti aspetto! Fatti ammazzare così starai insieme a me e a quella puzzolente cagna che ti eri scelta per madre!» Poteva fermare Camilla con i suoi poteri? Con Bito aveva funzionato, almeno la prima volta, ma adesso era diverso. Se avesse fatto un passo in avanti, lei avrebbe sparato. Se avesse sollevato le braccia, lei avrebbe sparato. Glielo leggeva in faccia, glielo leggeva negli occhi: era fuori controllo o, per meglio dire, era sotto il controllo di Ismel, completamente. Notò che il calore che solitamente accompagnava lo sprigionarsi di quella strana forza, questa volta non era venuto. C'era solo un fucile puntato su di lei, e tanta paura. «Anch'io sono sola! Ho perso mia mamma anni fa e adesso mio papà.» provò a dire. «Tutti siamo soli!»

«Smettila di dire cazzate e basta parlare.» Si posizionò con i piedi e alzò il fucile, mirando dritto alla testa di Veronica. «È ora di agire. Amore mio, di addio alla tua ragazzina senza tette!» E premette il grilletto.


Andrea non aveva ascoltato le ultime parole della sua ex ragazza. Appena l'aveva vista alzare il fucile si era lanciato su di lei e sulle sue braccia, colpendola nello stesso preciso istante in cui sentì partire il colpo.

Passarono forse due secondi, in cui l'unico suono all'interno della casa fu l'eco dello sparo, che sembrava voler continuare a rimbalzare tra quelle pareti all'infinito. Poi arrivò l'urlo, disperato. Era Laura. Andrea e Camilla avevano entrambi perso l'equilibrio per lo slancio; il ragazzo aveva agito d'impulso, spinto dalla paura, dall'adrenalina, e quei pochi secondi che passarono tra il momento in cui si era scagliato contro di lei e il grido che echeggiò nella sala, li visse completamente al buio, manovrato solo da quell'istinto primordiale che ci governa quando la razionalità, per qualsivoglia motivo, si spegne. Si ritrovò per terra, parzialmente sopra Camilla, con la mano sinistra sopra al suo grosso seno destro. Girò la testa, e vide Laura china su Marta, sdraiata a terra in una pozza di sangue. La donna si voltò verso di loro con lo sguardo disperato e furioso allo stesso tempo; Andrea non l'avrebbe dimenticato più. «BASTARDA!» cominciò a urlare. «L'HAI AMMAZZATA! BASTARDA! BASTARDA!» Poi si ributtò sul corpicino, stringendolo a sé con grida strazianti.

Veronica sembrava imbambolata, bianca come un lenzuolo. Aveva visto un fucile puntato contro di lei fare fuoco e, forse nei recessi più profondi della sua mente, credeva di essere morta e di vedere il suo corpo stramazzato di sotto, giacere a fianco di quello di Bito, senza più una parte di cranio, con i suoi meravigliosi capelli non più color rame, ma imbrattati dal freddo e scuro grigio del suo cervello. Era il suo spirito ora, la sua anima o qualsiasi cosa restasse una volta morti, che stava lì, in piedi davanti a tutti, invisibile, a fissare impotente quella straziante scena. Vide i suoi piedi muoversi verso Laura e il corpicino inerme di Marta, vide le sue ginocchia piegarsi su di loro e vide la donna, in lacrime, gettarle le braccia intorno al collo e abbracciarla forte, forte, mentre il suo pianto le bagnava la spalla.

«Cos'ho fatto? Oddio, cos'ho fatto?» Camilla si era messa seduta, con le mani sul volto. Si sentiva come quando ci si risveglia sul divano, dopo essersi appisolati solo per qualche minuto, e il film che si stava guardando è andato avanti di qualche scena. Aveva visto Andrea e Veronica allontanarsi dall'auto, mano nella mano; ricordava la voce dentro di lei che diceva che era il momento di agire; aveva aperto il baule della Polo e aveva preso il fucile; vagamente ricordava di aver camminato, di aver scorto una casa diversa dalle altre e, forse, di aver visto i due ragazzi entrarci. Poi più nulla fino a quel momento, in cui si era ritrovata stesa a terra, il fucile fumante di fianco e il ragazzo che amava perdutamente, sopra di lei. Non ricordava com'era finita lì, eppure sapeva quel che aveva fatto, ed era terribile. Nella sua testa echeggiava la voce, ma era sempre più lontana e rimbombante. Sembrava dicesse "Finisci il lavoro! Finisci il lavoro!" ma stava sparendo, progressivamente. E più la sentiva sparire, più le pareva che fosse furiosa. Marta era immobile, sanguinante, strapazzata da Laura e dal suo dolore; Veronica era inginocchiata vicino a loro, raggiunta da Andrea che la fissava con uno sguardo quasi impietosito, incredulo, uno sguardo che faceva male. «Cos'ho fatto?» continuava a ripetere. Raccolse il fucile e si alzò; la testa le girava come una trottola. Barcollando e prima che qualcuno la fermasse, corse fuori dalla porta, scese dalla veranda e scappò via. Andrea fu colto alla sprovvista e si trovò sospeso tra l'impulso di seguirla o restare lì, a fissare impotente il sangue di Marta che macchiava il pavimento. Accarezzava i capelli di Veronica mentre lei confortava Laura. La donna aveva sollevato il corpo di Marta e lo dondolava tra le braccia, stringendolo.

All'improvviso la bambina tossì e si mise a piangere. Tutti sussultarono, come se si fosse materializzato davanti a loro un fantasma. «Sei viva? Tesoro mio, sei viva!» Laura la stringeva, se possibile, ancora più forte, in preda alla gioia più bella e più incontenibile: quella che arriva, improvvisa, appena dopo un grande dolore, quando nessuno se lo aspetta. Veronica, in lacrime abbracciò Andrea, che ricambiò, lanciando preoccupate occhiate alla porta della veranda.

«BRUCIA, BRUCIA!» urlava la bambina.

Laura la ristese a terra e le sollevò la maglietta intrisa di sangue. Aveva dei forellini sul fianco sinistro, più o meno all'altezza della milza, che sanguinavano copiosamente. Guardò il muro davanti a lei e vide altri fori che avevano scalfito la scagliola. «Perché non le ho controllato subito il battito? Stupida che sono!»

«È molto grave?» Veronica si era chinata nuovamente e guardava preoccupata.

«L'ha presa di striscio, ma alcuni pallini l'hanno centrata. Sta perdendo molto sangue e bisogna operarla per estrarli, prima che facciano infezione. Portatemi qualcosa, uno straccio o della garza se la trovate. Dobbiamo tamponare la ferita. Sì cara, adesso ti passa. Ci penso io.»

«Fa male! Fa male!» Marta continuava a contorcersi mentre Andrea e Veronica si erano alzati per soddisfare la richiesta di Laura.

«Ci sarà una cassetta del pronto soccorso in questa maledetta casa!» aggiunse, mentre con la mano premeva il buco sanguinante. «Muovetevi!»

Veronica corse su per le scale mentre Andrea cominciò ad aprire a caso gli sportelli della cucina. Non avrebbe voluto, ma il suo pensiero era totalmente rivolto a Camilla e all'espressione che aveva, mentre scappava via col fucile in mano. Aveva un brutto presentimento, ma non riusciva a decidersi di seguirla.

«Cosa fai? Cerchi le medicine in cucina?» La voce stridula di Laura lo riportò alla realtà.

«Trovato!» Veronica stava correndo giù per le scale con una scatola in mano. Quasi la lanciò a Laura mentre si inginocchiava. Andrea le raggiunse, sentendosi completamente inutile. Laura l'aprì ma sbuffò subito. La scatola era quasi vuota, ma, fortunatamente c'era un rotolo di garza. «Portatemi dell'acqua. Non ha nemmeno del disinfettante quello stronzo!» Sfilò con attenzione la maglietta a Marta aiutata da Veronica, mentre la bimba urlava dal dolore. Andrea aprì il frigorifero, controllò in ogni sportello, ma non trovò nessuna bottiglia.

«Sbrigati!» Urlò la donna.

«Non c'è acqua! Solo alcolici.»

«Dal rubinetto! Prendi quella del...» Si interruppe, ricordandosi che dal rubinetto non usciva nulla. Pensò alle bottiglie che avevano portato dai "Ginepri", chiuse nel bagagliaio della Polo. «Merda! Portami l'alcool. Grappa se ce n'è.»

Andrea le porse la bottiglia. «Ti brucerà amore. Resisti piccola. Tenetela ferma.»

Le versò il liquido trasparente sulla ferita. Marta urlò e si divincolò. I due ragazzi la immobilizzarono con enorme fatica; la bambina aveva una forza incredibile. In lacrime, Laura fasciò la ferita più stretta che poteva.

«Dobbiamo portarla in un ospedale.» disse.

«Non troveremo mai un dottore.» aggiunse Veronica, madida di sudore.

«Io sono un dottore. Bisogna togliere i pallini, disinfettare la ferita e pulirla. S'infetterà se non agiamo subito. E ha bisogno di antibiotici e antidolorifici, al più presto.»

Un urlo risuonò da fuori, agghiacciante. Poi uno sparo che squarciò l'assurdo silenzio che li circondava, facendoli trasalire.

«Dio mio! Camilla!» Andrea si guardò intorno, poi si precipitò fuori dalla porta.

«Andrea!» Veronica fece per andargli dietro ma Laura la fermò.

«Ho bisogno di te! Dove vai?» La ragazzina si fermò, guardando l'ingresso rimasto spalancato. «È una sua scelta! Tu non centri in questo caso. Dobbiamo salvare Marta e da sola non ce la posso fare.» Deglutì. «Ti supplico. Non abbandonarci.»

Il cuore di Veronica batteva forte e a ogni colpo spruzzava dolore dentro di lei. Non poteva credere che il suo ragazzo fosse corso dietro a colei che stava per ammazzarla a sangue freddo e che, a ogni modo, aveva sparato a una bambina di sette anni, quasi uccidendola. Voleva raggiungerlo e chiedergli il perché, solo ed esclusivamente perché. Ma lo sguardo di Laura valeva più di mille parole e le urla e le sofferenze di Marta non potevano essere ignorate. Si girò e tornò da loro.

«Grazie, grazie cara.» le disse Laura mentre grossi lacrimoni le rigavano il viso. «Portiamola in macchina, dai.»

La sollevarono dolcemente e, facendo il giro dal giardino, raggiunsero la SAAB parcheggiata nel vialetto. La trovarono aperta e con le chiavi sul cruscotto. La adagiarono sul sedile posteriore. «Mettiti qui con lei per favore, e tienile su la testa.» Si mise al volante. «Qual è l'ospedale più vicino.»

Veronica rifletté un momento. «Il Bellaria, a San Lazzaro. Circa venti minuti, anche meno visto che non c'è traffico.» rispose, con una stanca malinconia.

«Bene! Prima però ci serve una farmacia. Dobbiamo calmarle il dolore, almeno.» Mise in moto l'auto. «Guidami! E non farla addormentare.»

Veronica annuì. L'auto uscì in retromarcia dal vialetto e raddrizzatasi sulla strada partì, mentre la ragazzina fissava fuori dal finestrino con occhi tristi, cercando Andrea, senza però scorgerlo da nessuna parte.


Uscita di casa, Camilla era corsa verso la campagna, passando da un buco che c'era nella siepe del giardino di Bito. Sulla destra c'era un sentiero di terra battuta che costeggiava l'ultimo tratto dell'abitazione, per poi inoltrarsi in mezzo al campo, fiancheggiando un fosso che correva diritto e che pareva finire contro un casolare, lontano circa trecento metri, circondato da alcuni alberi. Dietro, più lontana, s'intravedeva l'autostrada.

Camilla correva come una pazza, senza sapere dove stesse andando. Davanti agli occhi vedeva solo il corpo di Marta a terra, sanguinante, e lo sguardo di Andrea fisso su di lei. «Che ho fatto? Che ho fatto?» continuava a ripetere.

Si fermò di colpo, senza sapere per quanto avesse corso. Il casolare era più vicino e intorno a lei c'era solo terra. Si lasciò cadere, singhiozzando disperata. Nella mano teneva stretta il fucile in cui, sapeva, c'era ancora una cartuccia; altre due le aveva in tasca, su consiglio della maledetta voce.

La disperazione si era impossessata completamente di lei. Aveva ucciso una bambina e nessuno, nessuno mai l'avrebbe più perdonata, soprattutto Andrea. Aveva visto incredulità nei suoi occhi, ma anche disprezzo e forse odio. Avrebbe dovuto vivere il resto della sua vita in quel mondo ormai azzoppato, per sempre da sola, senza i suoi genitori, senza l'amore del suo ragazzo, vagando chissà dove, in compagnia solo dei suoi tormenti, dei suoi sensi di colpa, della sua gelosia. Vedeva Veronica, nuda, abbracciata a lui, pure nudo, accarezzarsi, baciarsi appassionatamente. Vide le loro lingue attorcigliate tra di loro come serpenti, anzi, erano proprio serpenti che uscivano dalle loro bocche, mentre la fissavano con facce deformate, facce di demoni che la indicavano e ridevano e ringhiavano verso di lei, allungando artigli per brandirla, graffiarla, strapparle via la carne. Camilla urlò, terrorizzata. Si ritrasse, cercando di scappare dalla presa di quei mostri immaginari. Poi aprì gli occhi. Il sole bollente picchiava duro e intorno a lei tutto era immobile e silenzioso. Da uno degli alberi lontani che circondavano il casolare, un uccello spiccò il volo. Afferrò il fucile e se lo infilò in bocca. Esitò, deglutì. Poi lo sfilò e sparò in aria. Dallo stesso gruppo di alberi, volarono via molti più uccelli. «Vigliacca!» disse. Estrasse le due cartucce dalla tasca, aprì il fucile e le infilò. Lo richiuse e rimase alcuni istanti a fissarlo. Voleva veramente farlo? "Che alternative ho?" pensò. Lo puntò alla fronte, mise il dito sul grilletto e chiuse gli occhi. Ma ancora una volta esitò, restando ferma in quella posizione. Di nuovo giunse l'immagine di Andrea e Veronica, ma stavolta erano belli, normali, senza l'aspetto di alcun demone. Erano vestiti e non nudi; non si baciavano, ma si tenevano per mano e camminavano, guardandosi e sorridendo. L'immagine era ancora più dolorosa dell'altra e Camilla sentì un conato di vomito salirle per la gola, fermarsi alla base della lingua e ricadere giù, lasciando però il coraggio che le era mancato fino a quel momento. Accarezzò il grilletto, finalmente decisa. «Addio amore mio!» disse. Due mani forti la bloccarono, sfilandole il fucile. Aprì gli occhi e ritrovò quelli di Andrea davanti al volto: la guardava in lacrime. «Credevo fosse tardi!»

Lei non disse nulla. Scoppiò a piangere e l'abbracciò. «Mi dispiace, mi dispiace tanto!»

Lui restituì l'abbraccio, stringendola forte e accarezzandole i capelli. «Marta è viva.» disse.

Lei alzò la testa. «Cosa?»

«È viva! L'hai presa di striscio. Credo di aver capito che è ferita abbastanza seriamente, ma è viva. Piangeva quando sono uscito.»

«Oddio! Sia ringraziato Gesù!» e rituffò la testa tra le sue braccia.

«Vieni dai. Torniamo...» Andrea si stava alzando, cercando di tirarla su.

«No! No! Mi vergogno troppo! Non vorranno più vedermi...»

«Non eri in te. Io lo so e tu lo sai. E lo capiranno anche loro.»

Di nuovo cercò di issarla, senza riuscirci. «Non posso credere che... stavi per farlo. Perché?»

Lei non rispose. Era ancora seduta e Andrea si era inginocchiato davanti a lei. Fissava la terra e l'imbarazzo stava piano, piano prendendo il posto della disperazione. Sollevò lo sguardo su di lui. «Non posso vivere senza di te! Io ti amo! Ecco perché.» E d'improvviso gli mise le braccia intorno al collo e lo baciò. Lui rimase sorpreso ma restituì il bacio, casto inizialmente, accendendosi via, via di passione. Lei cominciò ad accarezzarlo in mezzo alle gambe, poi cominciò a sbottonare. «No Camilla!» provò a dire, ma lei continuò e quando glielo prese in mano, Andrea cedette. Si sdraiò mentre lei gli sfilava i pantaloni e le mutande. La sua erezione era già al massimo e lei sorrideva mentre si spogliava. In un attimo gli fu sopra cominciando a muoversi lentamente e a mugolare. Prese le sue mani e se le mise sui seni dondolanti. Andrea chiuse gli occhi mentre il respiro diventava sempre più affannoso. Il viso di Veronica apparve nella sua mente, insieme al pensiero che lei potesse vederli in quel momento. Ma sparì tutto quando Camilla si chinò, schiacciando le tette sul suo petto, infilandogli la lingua nella bocca e aumentando il ritmo dei colpi. Vennero insieme, ansimando e baciandosi, restando per un minuto abbracciati, sdraiati nudi nella polvere e nel caldo, sporchi e sudati fradici. Ma quando Andrea aprì gli occhi, vide il corpicino insanguinato di Marta e lo sguardo gonfio di pianto di Laura; ma soprattutto vide il volto di Veronica, sentì tra le dita la sensazione provata ad accarezzarle i capelli e nelle narici aveva solo il suo odore. In quel momento, l'amore che provava per la sua ragazza, se mai fosse possibile, crebbe a dismisura. Avrebbe voluto averla lì, con lui, al posto di Camilla; una voglia irresistibile che gli pungeva il cuore, tanto da fargli male. E provando i più profondi sensi di colpa della sua vita, si sentì un verme!

«Dobbiamo andare.» disse spostandola bruscamente, mettendosi a sedere e cominciando a rivestirsi.

«Che c'è?» chiese lei.

«Nulla! È che una bambina è ferita e noi stiamo qui a scopare.» Andrea si alzò, allacciandosi il bottone dei pantaloni.

Camilla si infilò le mutandine e i pantaloncini. «Era solo questo per te? Una scopata?» Si alzò anche lei, rimettendosi la maglietta. «Quindi?»

«Non lo so, Camilla. Ora non lo so. Come va la ferita sulla spalla?» Lei lo guardò in silenzio per un momento. «Non mi fa male...» rispose seccamente. Avrebbe voluto aggiungere che provava dolore al cuore invece, per come la stava trattando. Ma le circostanze le imposero di tacere.

«Andiamo adesso, per favore.» aggiunse Andrea. Camilla raccolse il fucile, ma lui glielo strappò di mano. «Lo tengo io questo, se non ti dispiace.» Si sentì un po' ferita, ma non disse nulla. Era passata da un quasi suicidio a fare l'amore col ragazzo che amava, tutto in meno di dieci minuti. Erano insieme, da soli, senza Veronica. Per il momento andava bene così. Andrea si avviò verso la casa di Bito e lei lo seguì. Ma quando giunsero non c'era più nessuno. La SAAB era sparita. Andrea diede un calcio di rabbia a un sasso che rotolò sulla strada, rimbalzò e finì nell'erba dall'altra parte. «Cazzo! Cazzo! CAZZO!» urlò.

Camilla taceva, un po' spaventata nel vederlo in quello stato, con la paura che le addossasse la colpa di aver perso le altre donne e che la piantasse nuovamente.

«Cha facciamo adesso?» disse Andrea, camminando nervosamente avanti e indietro.

«Non sai dove possono essere andate?» arrischiò a chiedere Camilla.

Lui la fissò e sembrò illuminarsi. «Laura parlava di ospedale. Diceva che lei è un dottore e poteva curare la bambina. Dai, vieni. Corriamo alla macchina.»

Si precipitò sulla strada e in un balzo era già sul sentiero che passava tra le case.

Lei gli tenne dietro. «Ma in quale ospedale andranno?» gli gridò, ansimando per la fatica. «Il più vicino è il Bellaria. Dici che stanno andando lì?»

«Probabile, se è il più vicino!» rispose.

Arrivarono alla Polo e Andrea si arrestò di colpo. «Cazzo! Chi guida? Io non sono capace.»

Lei sorrise, lo baciò sulla guancia e aprì lo sportello dalla parte del guidatore, sedendosi al volante. «Mio papà aveva iniziato a darmi qualche lezione. Il prossimo anno avrei dovuto prendere la patente.» disse, con un tono amaro nella voce. «Non sono Schumacher, ma credo di potercela fare.»

«Dici sul serio?»

«Sono abbastanza portata! Col traffico non guiderei mai, ovviamente. Ma adesso è diverso...»

Sfilò dalla tasca le chiavi e le inserì nell'apposito foro. Sorrise e mise in moto l'auto.

«Metto il fucile nel bagagliaio.» disse Andrea, aprendo il vano posteriore e notando le sporte di viveri che avevano portato dai "Ginepri". Ripose l'arma, richiuse e si sedette a fianco di Camilla. La ragazza infilò la marcia e mollò la frizione. L'auto scattò in avanti e si spense. Andrea la fissò.

«Tranquillo! Devo solo prenderci la mano e ricordarmi gli insegnamenti di papà.»

Riprovò. Stavolta dosò meglio frizione e acceleratore, e la Polo si mosse. Girò la macchina a fatica, poi, sobbalzando un po', lasciarono gli "Olmi".


Ismel era uscito dalla bolla. Camminava completamente nudo tra le macerie di Bologna che diminuivano man mano si allontanava dalla sua cupola. Cercava dei "vestiti", come venivano chiamati su quel pianeta. A quanto pareva andare in giro senza, era una cosa parecchio strana, e faticava a capirne il motivo. Ricordava le sensazioni che aveva provato appena arrivato, poco prima di entrare nella grotta: aveva avuto "freddo", aveva provato "vergogna" e un profondo senso di "disagio". Ora non sentiva niente. L'enorme quantità di energia assimilata l'aveva cambiato. Ma aveva dei piani e per metterli in pratica al meglio, doveva apparire normale. E andare in giro nudo non lo era. Non c'era nessuno in giro, a parte una donna che aveva incontrato e che gli si era avvicinata, chiedendo se avesse bisogno d'aiuto, mentre lo fissava interessata in mezzo alle gambe. L'aveva presa per il collo senza darle il tempo di rendersene conto, le aveva estratto l'energia in un attimo e lasciata inerme sull'asfalto. «Servite solo a questo!» aveva detto al corpo esanime, sotto di lui, con tono sprezzante.

Il sole picchiava forte sulla sua pelle e le pietre su cui poggiava i piedi erano roventi. Ma stava bene. Non aveva caldo, non stava sudando e non si stava bruciando, né il corpo, nè le piante. Era rivestito da una leggera patina arancione perfettamente mischiata alla sua pelle, tanto da scurire leggermente l'epidermide, appena visibile, ma sufficiente a proteggerlo. Sorrise. Non l'aveva prodotta lui, ma si era manifestata autonomamente, non appena aveva iniziato a sentire fastidio. Era fantastico. Poteva controllare l'energia quando voleva, ma, allo stesso tempo, lei controllava lui, proteggendolo e facendo in modo che non gli capitasse nulla, quando lui non avvertiva subito un pericolo. Si sentiva bene, quasi completo, e vedeva la fine della missione vicina. Non vedeva l'ora. Avrebbe significato diventare l'essere più potente dell'Universo e tornare a casa sua; o crearne una nuova e migliore, nel caso quella vecchia non esistesse più. Ma, soprattutto, lasciare quel postaccio per sempre. Lo disgustava e intimoriva allo stesso tempo. Solo qualche giorno prima, "finire la missione" aveva significato accaparrarsi tutta l'energia disponibile, anche quella di piante e animali. Era il legittimo proprietario anche di quella e questo continuava a pensarlo. Ma non gliene fregava più nulla! Per scovare, imprigionare e svuotare quasi tutte le persone, le sue sentinelle avevano impiegato due giorni, più di quello che si aspettava. Con le bestie ci sarebbe voluto molto, molto di più. Voleva andarsene, perché quella "Terra" si stava appiccicando addosso a lui; più volte si era ritrovato a pensare e ad agire come loro e c'era il serio rischio di perdere il potere e restare imprigionati lì, per sempre, come "essere normale". Rabbrividì. E, proprio per non correre questo rischio, aveva deciso che non doveva assolutamente scontrarsi con quegli individui, portatori dell'energia di sua sorella. Doveva eliminarli, in modo che di lei non rimanesse più traccia. Ma come fare? Gli umani a cui si era affidato erano stati tutti un'immensa delusione. Uno era morto, gli altri due si erano neutralizzati a vicenda e l'ultima, quella che era andata più vicina al successo, non era riuscita a centrare il bersaglio da un metro. Ma gli aveva inaspettatamente dato un'informazione preziosissima. Se quelli "integri" erano stati un fallimento, quelli "svuotati" non lo sarebbero stati. I primi si erano rivelati disubbidienti, distratti, inclini a seguire le proprie emozioni, belle o brutte, troppo "umani", per così dire. Si era chiesto perché. Perché non era riuscito a imporre il proprio volere in tutto e per tutto? La risposta era facile, molto facile, talmente facile che non gli era arrivata subito: l'energia. La loro essenza li rendeva... loro. E non quello che voleva lui. Ma, se privati di tutto questo, allora il discorso cambiava. Se il guscio fosse stato vuoto avrebbe potuto riempirlo con quello che voleva. E di gusci vuoti ce n'erano finché ne voleva. Bastava cercare quelli giusti, quelli che si sarebbero potuti avvicinare ai suoi obiettivi con molta facilità. E la ragazza gli aveva, involontariamente, rivelato dove poteva trovarli.

Giunse in una di quelle che loro chiamavano "piazza", dove uno dei suoi soldati aveva allestito la bolla. Cercò tra i corpi immobili a terra, finché non trovò la persona giusta (o forse fu l'energia a farlo). Era un uomo di mezz'età, alto e magro come lui. Indossava una maglietta arancione con uno strano... "coccodrillo" incollato sopra, un paio di "jeans" strappati al ginocchio e delle scarpe coi lacci. Gli tolse tutto e si vestì, lasciandogli solo le mutande nere, disgustato all'idea di indossarle. Ora pareva proprio uno di loro! "Ma solo esternamente." pensò, quasi scusandosi con sé stesso, mentre cominciava a librarsi in aria.


Atterrò in un giardino disseminato di corpi e si guardò intorno. Non sapeva che aspetto aveva chi stava cercando, ma non era un problema. Glieli avrebbe indicati la ragazzina, senza sapere d'averlo fatto. Notò subito, infatti, una grossa chiazza di energia residua in un punto, uno spiazzo insolitamente vuoto tra i corpi inermi. Si avvicinò timoroso pur sapendo che era solo l'ombra del potere della sorella, e non poteva fargli niente. Da quel punto partiva una debole scia che entrava in uno dei palazzi. S'accostò all'ingresso e vide due persone, un uomo e una donna, seduti contro il muro, appoggiati l'uno all'altra. Sorrise ed entrò. Si chinò davanti a loro e pose le mani sulle due teste, chiudendo gli occhi. Tutto l'androne risplendette di un'accecante luce arancione, abbagliante come un lampo di notte fissato nel cielo. La luce brillò per circa dieci secondi, poi cominciò ad affievolirsi, fino a spegnersi del tutto.

Lina e Riccardo avevano gli occhi aperti. Si stiracchiarono entrambi, facendo schioccare più di una giuntura; poi si alzarono, tenendosi per mano. Fissavano l'uomo davanti a loro che li fissava a loro volta, sorridendo. Finché anche loro, dopo essersi scambiati un fugace sguardo, risposero al sorriso.

(continua)

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