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«È impossibile» Non potei fare a meno di ripetermi, costretta nel fisico bisogno di una totale autoconvinzione.
Non desideravo cedere alla realtΓ  che mi presentava l'immagine su cui si erano posate le mie iridi.

Osservai il gesto di un uomo, che gentilmente stava posando la propria giacca scura sulle spalle esili di una donna. Mi scosse nel profondo.

Lei aveva movenze delicate, gesti goffi delle mani mimando racconti frenetici. Le scarpe da tennis martellavano sul pavimento, quasi non sapesse stare ferma. La bocca arricciata, luccichii maliziosi.
Accettava la giacca ma non con fretta, nonostante si gelasse faceva la dura.

Lo sconvolgimento era dovuto all'effettiva identitΓ  di quella elegante figura. Rispondeva al nome Kate, mia madre.

Non avevo idea di chi fosse lui.
I due, a un ignaro osservatore sarebbero potuti sembrare una coppia affiatata.

Probabilmente avevano trovato riparo dall'umida pioggia scrosciante che aveva cominciato a cadere.
Si erano quindi riparati nel primo caldo locale trovato.

L'uomo, premuroso, guardava negli occhi di lei con tenerezza.
Si scuoteva via le goccioline, rimaste impigliate fra i castani capelli brizzolati. I gesti delle dita erano goffi e impacciati.

Una rada barba gli copriva le guance. Era attraente. Occhi decisi, sguardo sicuro e rispettoso, ma liquido.

Cessai di prestare attenzione ai richiami delle mie amiche.
Mi diressi verso la loro direzione.
Deglutii un groppo in gola.
Mi concessi la speranza di sbagliarmi.

Giunsi al loro fianco.
Vicino all'entrata, il gelo cominciΓ² ad arrampicarsi su per la mia pallida schiena. I refoli d'aria tagliente, flagello di chi non aveva casa, all'entrata e dall'uscita dei clienti, riuscivano a infiltrarsi fra le lievi fessure.
Rabbrividii.

Poi segnalai la mia presenza con un delicato colpo di tosse.
Incrociai le braccia, dopo aver steso pieghe della maglia grigia.
Un gesto automatico e protettivo.

Mia madre sussultΓ².
L'ambra nelle iridi del suo accompagnatore era tanto espressivo che mi mossi a disagio quando i suoi occhi scavarono un solco incandescente nel mio viso.

Lei si sforzΓ² di rivolgermi un vermiglio sorriso. I suoi occhi, tuttavia, la tradirono: si spalancarono.
Un muto stupore la fece boccheggiare. Mi rivelavano cosa pensava.

Β«Rose-Β».
CercΓ² di afferrare il mio braccio, contraendo le dita che perΓ² si strinsero nel vuoto a mezz'aria.
Il campanello della porta trillΓ², segnalando l'arrivo di un nuovo cliente, che sgusciΓ² verso i tavoli scontrandosi contro la mia spalla destra.

Rimasi con i piedi piantati nel pavimento. Non mi mossi di un millimetro e non lo guardai, ancora fissando mia madre, labbra schiuse.

La resa che sporcava la sua voce mi aveva tolto ogni residuo di dubbio.

Al suono soffocato del mio nome mormorato nell'aria, sotto il fischio del vento che batteva sui vetri, le iridi dell'uomo schioccarono da me a mia madre. La sua bocca screpolata guizzΓ², in un ricciolo quasi birichino, forse capendo la situazione.

Β«Io ho...Β» Biascicai, contraendo le dita attorno a una manica della mia maglia. Β«Bisogno di un momentoΒ».

Un battito di ciglia, un rimbombo nella cassa toracica ed ero fuori dalla porta. Scappai, come ero abituata a fare, da quei miei semplici problemi.

Che non erano neanche miei problemi in realtΓ . La codardia era sempre stata una mia caratteristica, sebbene tutti paressero avere grandi difficoltΓ  nell'individuarla e nel riconoscerla.

I miei stivali sguazzavano. Le pozzanghere piene di sporcizia li imbrattavano di fango.
La mia anima era allo stesso modo sporca di tristezza.

Mi schiacciava in una presa i polmoni, indispensabili per la respirazione.
Non ero arrabbiata, non ero delusa.

Ero per lo piΓΉ scioccata. E non perchΓ© non pensassi che mia madre potesse trovare qualcuno di suo interesse, ovviamente.

Era solo un problema psicologico. L'ultima volta che avevo visto mia madre con un uomo era stato in una foto incorniciata sopra il comodino.

Ero molto piccola. Non mi era rimasta memoria di quella foto. Ricordavo solo due pigri occhi azzurri e una mano sulla fronte a riparare lo sguardo dal sole.

Questo era mio padre per me: tanta barba e capelli, un naso aquilino e due occhi chiari.

Avevo poi rivisto quella foto nel bidone della spazzatura dietro casa. Il vetro era scheggiato e la cornice sbeccata.
PiΓΉ avanti sospettai mia madre avesse avuto un attacco di rabbia in mia assenza.

Sapevo che mia madre meritava qualcuno e di certo non mi sarei opposta. Ma lei non mi aveva detto nulla. Eravamo sempre state io e lei.

E certo era difficile immaginare un quadro diverso, ma se lei me ne avesse parlato, lo avrei capito.

Pian piano.

Però trovarmi gli occhi color whiskey di quell'uomo, così brucianti e sinceri era stato un colpo al cuore.
Il modo in cui aveva indugiato su di me, perfino la maniera un po' infantile in cui non era riuscito a trattenere un sorriso alla mia bocca spalancata.

Tutto di lui urlava sono una brava persona. Il che era positivo. Ma era stato troppo, troppo all'improvviso.

Lui, là in piedi come una sbavatura di inchiostro nelle pagine della mia vita che caldamente mi studiava. Mi comunicava che era lì per restare.

Da quando mia madre non mi diceva cose come quelle? Ricordavo distintamente giorni passati in casa a prendere in giro colleghi di lavoro con strani baffetti.

Non l'avrei giudicata. L'avevo forse trascurata? Aveva provato a dirmelo? Mi ero persa qualcosa?

Il brutto tempo mi turbava ancora di piΓΉ. Una lacrima mi rotolΓ² sulla guancia assieme all'acqua sporca.

Il naso era gelido di freddo, non potei fare a meno di arricciarlo all'odore pungente della pioggia.

L'imprevedibilitΓ  della prima primavera aveva deciso di non essere gentile. Forse anche lei mi stava suggerendo fosse il momento di affrontare le cose a testa alta.

Parlare con le persone dei loro segreti, invece che star ferma ad aspettare che venissero a raccontarmeli.

Infatti, se avevo reagito così male era anche colpa di Sebastian e dell' esasperazione a cui mi aveva portato.
Decisamente.

Lo stress.

Vagai a lungo. I miei sospiri rilasciavano nell' aria tetra nugoli di fumo. Il petto, ormai, si muoveva ad un ritmo irregolare, che rendeva il mio respiro estremamente affannoso.

Non seppi mai quanto, precisamente, fosse passato. A un tratto, volgendo il volto, poco carinamente conciato, al cielo, scorsi l'azzurro.
Non aveva piΓΉ la pallida tonalitΓ  di grigio di poco prima.

I raggi caldi del sole avevano ripreso ad infrangere quella pacifica distesa. Davano sollievo alla mia pelle. I vestiti zuppi si erano attaccati alla schiena.

Distratta da quella quieta visione, non prestai la dovuta attenzione al posizionamento dei miei piedi stanchi.
La mia caviglia si torse in un modo del tutto innaturale.

Con un gemito di dolore mi sedetti sulla piΓΉ vicina panchina in legno.
L'umiditΓ  ricopriva la dura superficie, scalfita dagli anni.
Per pura fortuna avevo raggiunto una fermata degli autobus.

Per un attimo la via mi parve smarrita, seppur non essendolo seriamente. Pensai di attendere pochi minuti.

Era accuratamente annotato sul bianco cartello ricoperto di plastica, in caratteri scuri e facilmente leggibili, che mancasse poco all'arrivo di uno dei mezzi che passavano di lì.
Sarei potuta andare da una qualche zia lontana, zitella e ossessionata dai gatti. Allontanarmi da Sebastian.

Nessun muscolo del mio corpo, tuttavia, rispose a quel mio fugace pensiero. Fuggire non era ciΓ² che volevo, nΓ© dimenticare tanto meno.

Anche se dimenticare che mia madre non aveva condiviso con me quella novitΓ  sarebbe stato un tangibile sollievo. Dimenticare le menzogne di Sebastian altrettanto.

Mi passarono un centinaio di ricordi per la testa. Per esempio quando, a undici anni, mia madre mi faceva le trecce. Mi tirava sempre troppo i capelli. Non era abituata ai ricci.

Pensai anche a un paio di strigliate, che quasi mai era riuscita a rendere serie. E no, capii che in ogni caso, per quanto volessi allontanarmi da tutto quel caos, mia madre non sarebbe mai stata disposta a fuggire.

E io non l'avrei mai lasciata lì.
Lei, con quegli occhi color smeraldo che quando si spalancavano le prendevano quasi tutto il viso.
Con lentiggini a malapena visibili che le conferivano tutt'ora l'aria di una bambina ribelle.

Mia madre se avesse saputo tutta la storia non si sarebbe affatto comportata come me. Piuttosto la morte. Lei era una guerriera.

C'era anche tanto altro che non potevo lasciarmi alle spalle chiaramente.

Come le amicizie. Anche loro erano parte di quell'accidentato tratto della strada della mia esistenza, quello incerto, pieno di buche.
Quello piΓΉ sorprendente.

Ma soprattutto, sfortunatamente quei sentimenti erano lì. Quelle iridi d'argento fuso me li avevano incastrati nello stomaco.

Il totale silenzio.
Eppure quella figura con sfrontata sicurezza si sedette al mio fianco sulla panchina con naturalezza.
Non gli concessi il mio sguardo.
Scorsi, con la coda dell'occhio, il suo strizzare gli occhi, ciglia a ombreggiare gli zigomi, denti nel labbro inferiore. Anche i suoi ricci parevano umidi.

Sebastian.

Β«PerchΓ© non me lo hai detto?Β» fui neutra, in quella solida domanda.
Rendendomi conto in anticipo della vaga risposta che stavo per ricevere, mi voltai. I capelli, bagnati e ispidi, mi frustarono il viso.
Mi finirono in bocca. Li scostai con stizza, posando poi le mani sui jeans chiari che mi fasciavano le gambe, tastandone la freddezza.

Β«So che lo sapevi. Per questo non volevi andassi in quel locale...Β» rimarcai, con piΓΉ veemenza.
Avevo gli occhi secchi, come la mia voce. Le lacrime non potevano essere versate.

Β«PerchΓ© non mi dici mai niente, non mi ritieni capace, forse pensi che io sia stupidaΒ» mormorai poi, rispondendo da me, a quella domanda pressante.

Β«NoΒ» la convinzione che macchiΓ² le sue parole mi fu di magro conforto.
Le sue mani si posarono, calde e confortanti, sulle mie spalle.
Una lieve pressione sulle clavicole.

Fui costretta a piantare i miei occhi nei suoi. Sapeva così bene distrarmi e ipnotizzarmi. Mi incantavo nelle sue iridi, nelle ombre che vi ballavano, ondeggianti, sinuose, allettanti.

Β«NoΒ» ripetΓ©, in una tonalitΓ  piΓΉ flebile. Β«Ho solo pensato che avrebbe dovuto essere tua madre a dirtelo.
Le devo molto, nel caso lo avessi scordato. Il mio silenzio su questo ha poco prezzo in confronto a ciΓ² che lei ha fatto per meΒ».

Le ultime parole gli vibrarono fra i denti serrati. La fronte era aggrottata, il labbro inferiore macchiato di sangue dallo scavare degli incisivi.
Β«E non Γ¨ solo per questo che non volevo che tu andassiΒ».

Mi convinsi che quella risposta fosse accettabile, e lo era.
Β«PerchΓ© non sei venuto a cercarmi prima?Β» proseguii allora.
Avevo cominciato a strofinare la manica della maglia umidiccia sul viso, cercando invano di ripulirlo dai residui secchi di fango e pioggia.

Β«PerchΓ© non volevi essere trovataΒ» rispose. Era la veritΓ .
Mi rendevo anche conto che, se fosse giunto a recuperarmi anche solo cinque minuti prima, avrei rischiato di prendermela proprio con lui, che non lo meritava. Β«E poi...Β» lo spinsi a continuare.

Β«E poiΒ» mi concesse, negli occhi lo sguardo di qualcuno che si sottopone a una mezza resa. Eppure io non conoscevo la sua guerra.
Aveva deciso di combattere per due, non rendendomi partecipe nemmeno di una singola battaglia.
Diceva, perΓ², di considerarmi una brava combattente Β«quando ti ho vista qui davanti...Β».

Compresi in fretta quale fosse il suo pensiero, come sempre facevo. I miei nervi, sotto la pelle candida, guizzarono, in rigida emozione.

Β«Volevi sapere quale sarebbe stata la mia sceltaΒ» rilevai.
Il mio cuore batteva, troppo in fretta, con troppa violenza i sentimenti mi stavano invadendo di nuovo, senza alcun permesso. Β«Non che comunque sarei potuta seriamente partire per sempreΒ».

Si limitΓ² ad annuire, ma non potevo accettare, non quella volta, una muta risposta di piΓΉ. I taciti sguardi non mi erano sufficienti, avevo bisogno della concretezza che solo le parole espresse a voce alta potevano darmi.

Β«Cosa avresti voluto che facessi?Β».
Il mio sguardo fu una trappola, un turbine soffocante di verde e di blu, non volevo lasciargli vie di fuga.
Nessuna finestra di vetro.

Quando fece per voltarsi dal lato opposto, fingendo cecitΓ , posai le mani sulle sue guance. Erano calde come tizzoni ardenti.
Avevo spesso desiderato farlo in differenti situazioni, con mio rammarico Β«Sei stato soddisfatto della mia decisione?Β».

Sentii chiaramente il soffio del suo sospiro infrangersi contro la mia pelle, tanto eravamo vicini.
Il suo calore stava riscaldando il mio corpo stremato, mi scioglieva le ossa.
I suoi occhi un distillato di energia che scoppiettava sotto l'epidermide.

La stanchezza mi annebbiΓ² in tal modo che quasi persi la sua successiva affermazione.
Depose le armi di fronte a un mostro di cui non conoscevo l'entità «Sì, ma avrei preferito soffrire».

Mai il mio battito, spesso irregolare, era stato così veloce. Mi mozzava il respiro. Rimbombava nelle orecchie. Sembrava volermi uscire dalla cassa toracica.

Faceva quasi male.
Un dolore sordo, spietato, una martellata sulle costole. Mi sembrava dovuto all'universo, un pagamento.

Quasi risi, il busto in avanti sulla panchina, i polpastrelli scavati nei suoi zigomi taglienti.
Β«Tu sei-Β» ronzai, la gola graffiante Β«un masochista. Decisamente autodistruttivoΒ».

Poi le mie labbra si scontrarono con le sue. Ingoiai un suo sospiro pesante, spostai una mano sulla sua schiena. Sentii le scapole guizzare.
Una contrazione, quasi rilassata.
Un verso di sorpresa nella gola.
Per un secondo mi lasciΓ² nel timore di un rifiuto. Strinsi in un pugno un lembo della sua maglia nera.

Tutto si sciolse in un attimo.
La sua reticenza, la mia razionalitΓ , la pioggia, la neve, la grandine.
Il tempo parve fermarsi in un istante di vita. Il tutto e il nulla si mescolarono nella forza di un amore che esprimeva la potenza di mille cuori che battono all'unisono.

Sentivo ogni centimetro della mia pelle andare a fuoco, per poi essere percorso da brividi violenti. Il sistema nervoso era in corto circuito.

Sotto le mie pallide dita tremanti la sua mascella si dischiuse. Sentii, strizzando le palpebre in un sussulto, la sua bocca strofinare contro la mia con morbidezza.
Graffiai il suo labbro inferiore con i denti. Deglutii un nugolo d'aria condensata uscita tra un ringhio e un movimento della sua mano. Premette sulla mia nuca, tra i ricci, con i polpastrelli, sprofondando nella mia bocca. Appropriandosene.

Le labbra erano soffici.
Il sapore di lui, della sua bocca, dei suoi baci: menta piperita e anice.
Così caldo e giusto, mi pervase.

La sua altra mano scivolò fra le mie scapole bianche e ben delineate, un brivido risalì la mia spina dorsale.
La sua pelle quando indugiava sulla mia, anche sopra la maglietta, pareva provocare l'esplosione di fuochi d'artificio.

Il sangue scoppiettava, stravolto da un eccitante formicolio.
Avvertii un tremito. L'intestino formicolΓ².
Il calore delle sue mani sopprimeva il freddo delle mie ossa, come la sua bocca annegava i miei sospiri.

Il desiderio era inebriante e incontrollato. Ne avvertivo il profumo, l'essenza. Appariva quasi innocente ai miei occhi, mi scavava nell'anima.

Mi strinsi maggiormente nelle sue braccia, alla ricerca di piΓΉ calore. Ne avevo bisogno. Come una droga, ne volevo di piΓΉ. PiΓΉ vicino.

Le mie gambe ormai erano raccolte sopra la panchina e Sebastian spingeva il mio capo in avanti. Saliva, denti intrappolavano la mia bocca.
La sua stretta non mi lasciava andare e io arruffavo i suoi ricci, graffiavo il cuoio capelluto, scavavo nella sua schiena.

Gli occhi chiusi e le mani affondate in un sogno. E il sogno ricambiava.

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