𝕮'𝖊̀ 𝖚𝖓 𝖙𝖊𝖒𝖕𝖔

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Uscendo dal negozio espirai una pesante boccata d’aria fresca. L’improvviso manto di vento pungente che mi investì fu piacevole, come un formicolio che sfrigola nelle ossa. 

Strinsi fra le dita i manici delle sei buste di plastica con stampato sopra il marchio del supermercato, di cui tre erano appese alla mia mano sinistra e altre tre arrotolate attorno al mio braccio destro.
Mi muovevo con un precario equilibrio di piedi che si intrecciano in maniera goffa sulla linea del brecciolino.  

Eleonor aveva accettato che fossi io a trasportare tutta la spesa solamente perché ero stata già precedentemente costretta a farmi andare bene il fatto che sarebbe stata lei a guidare.

Vedere quella donna su strada, con le mani avvolte attorno al volante di un'automobile e un profondo cipiglio concentrato e un po’ intimidatorio sul viso avrebbe dovuto essere illegale. Probabilmente lo era, ma quando mai ciò avrebbe fermato Eleonor? 

Due bambini, rincorrendosi per la strada al ritmo di risatine sdentate, la madre al seguito con un fiatone non indifferente e una mano sul petto, mi si ruzzolarono addosso, per poi spolverarsi e ripartire come nulla fosse accaduto.
La madre mi rivolse un cenno di scuse con il capo inclinato, i capelli sudati le scivolarono sulle spalle, e sbraitò qualcosa contro la bambina, che si limitò ad aggrapparsi a un braccio del bambino e lanciare alla donna una linguaccia impertinente, rigettandosi poi di nuovo a capofitto nel mare del mondo. 

Ingoiai un sorriso, scambiando uno sguardo perplesso con Eleonor, e insieme guardammo la donna filare via.

Per qualche motivo quella visione mi fece ripensare a mia madre. Non era molto che ci trovavamo ad Ashland e lei già mi mancava nonostante la chiamassi tutte le sere e lei sembrasse sempre impaziente di liberarsi dagli impegni lavorativi e raggiungerci il prima possibile.
Mi mancava il suo non salutarmi quando tornavo a casa da scuola la mattina, mi mancavano le lotte con i cuscini nel salone e gli sguardi complici, mi mancava il suo profumo di pulito e i suoi occhi verdi come smeraldi, che spesso scintillavano guardando me e Sebastian, ma soprattutto mi mancavano i suoi rimproveri.

Sapevo che, se ci fosse stata lei, il mio rapporto con Sebastian non si sarebbe mai incrinato come aveva fatto, lei lo avrebbe impedito, a costo di schiaffeggiare entrambi. Anzi... Quella sarebbe stata la sua parte preferita probabilmente. 

Ero già rannicchiata in macchina, con la testa accostata al finestrino, quando Eleonor mi risvegliò dai miei pensieri, consapevolmente preoccupata, come io ero preoccupata che lei non notasse i bidoni della spazzatura all’angolo della strada e facessimo un incidente. 

«Sei silenziosa, cara» rilevò, lanciandomi un’occhiata attraverso lo specchietto retrovisore «Qualcosa ti turba?» Le sue labbra si curvarono in un sorriso bonario, come se conoscesse esattamente cosa mi turbava.
Mi domandai distrattamente quando Eleonor fosse diventata la mia analista. 

«Nulla d’importante» borbottai, avvolgendo un lembo del cappotto bianco attorno alle dita «Pensavo semplicemente a mia madre» mi morsi le labbra, chiedendomi come lei facesse a non vedermi solo come una piagnucolona depressa. 

«Mi sembra molto importante, invece» replicò Eleonor, lasciandosi sfuggire un sospiro pensieroso, le spalle basse contro il sedile grigio scuro «Kate è molto importante anche per me, ma soprattutto anche per Sebastian, lo sai. Sarà qui il prima possibile».  

«Già, lo so» borbottai, sprofondando nella stoffa del cappotto e premendo le labbra assieme, poiché era proprio così, conoscevo la verità dietro le sue parole, specialmente per quanto riguardava Sebastian.  

Lui aveva sempre voluto molto bene a mia madre. A partire da quando lei gli infilava di nascosto caramelle al limone nello zaino, da bambini, nei giorni in cui Sebastian mi veniva a prendere per andare a scuola, fino ad arrivare ai momenti in cui mia madre era andata a ripescarlo dagli anfratti più oscuri della sua stanza, sfondando la porta con l’affetto, e l’aveva trascinato alle cene di famiglia più imbarazzanti della storia. 

Il resto del viaggio proseguì in un silenzio alquanto confortevole. Quando la macchina si parcheggiò nella stradina, di fronte al familiare giardino di rose, lillà e garofani, ormai ghiacciato e bluastro, aprii lo sportello e posai le scarpe da ginnastica nel terreno sgranchendomi lentamente le ossa e mi affrettai a tirar fuori le buste dal portabagagli.
Tuttavia, feci a malapena in tempo a raggiungere il cancelletto di ferro battuto, aspettando che Eleonor trovasse le chiavi nella sua borsa alla Mary Poppins, prima di avvertire il peso della spesa venirmi strappato dalle dita. 

Terrorizzata dall’idea di aver fatto cadere a terra la nostra cena, mi voltai di scatto, solo per scontrare lo sguardo con quello di Sebastian.  

Lui si limitò a fissarmi, le labbra piegate in una strana espressione, il capo inclinato verso destra e gli occhi grigi come tempesta, riccioli neri gli ricadevano sulla fronte, stranamente scompigliati per i suoi standard.
Le maniche di una stropicciata giacca nera gli avvolgevano gli avambracci e la sua schiena era premuta contro il muro. Aveva le mie sei buste in una mano. 

Chiudendo gli occhi e strizzando le palpebre, mi massaggiai le tempie con le dita oramai libere, passando poi la mano sul viso, incredula, tirai indietro dei riccioli ribelli. «Sei tornato» mi limitai a sospirare. 

«Da un po’» dichiarò, con totale disinteresse, le sue iridi, come rugiada d’argento intessuta su ragnatele di fumo, mi intrappolarono, squadrarono il mio profilo dalla testa ai piedi «In che supermercato siete andate?».
Lo chiese con un tono che mi fece venire voglia di passargli sopra un piede con un camion e stavo probabilmente per rispondere con un’affermazione non adatta ai bambini, quando Eleonor riuscì finalmente a estrarre le chiavi dalla borsa di Gucci. 

L’anziana donna si infilò coraggiosamente tra di noi, facendosi strada quasi a spallate verso il cancello e prese a fischiettare, sbloccando la serratura. 

«Non preoccuparti, caro» canticchiò tranquillamente, ravvivando una rosa ancora miracolosamente in vita, in un vaso sotto il portico, con colpetti gentili delle dita «Nessuno morirà avvelenato, non scelgo mica supermercati scadenti, io» tagliò corto, e ci invitò a entrare con un luccichio negli scintillanti occhi azzurri. 

Sebastian fissò la schiena di sua nonna come se volesse strangolarla, ma si limitò a passare una mano fra i ricci scuri e scuotere la testa bonariamente «Avresti dovuto evitare di allontanarti troppo da casa» aggiunse comunque, quasi non potesse evitarlo. Eleonor non si degnò neppure di rispondergli.  

Io, invece, sbuffai, strappandogli nuovamente le buste di mano e lanciandomi in cucina per svuotarle sopra al tavolo e cominciare a sistemarne il contenuto, dopo essermi sfilata il cappotto. 

Con la testa rivolta verso la credenza e gli occhi saettanti, alla ricerca di una distrazione, lo percepii raggiungermi e sedersi sulla sedia più vicina, ma finsi totale indifferenza. Eleonor probabilmente si rintanò in camera sua, visto che era quasi l’ora della sua soap opera preferita. 

«E’ quasi Natale» dichiarai, senza una vera e propria ragione, riponendo, infine, il centesimo barattolo di frutta candita sulla mensola e voltandomi verso di lui con le mani sui fianchi. 

Mi fissò fra le ciglia scure, sorpreso dal mio improvviso desiderio di intrattenere una conversazione, forse, e rizzò la schiena, sistemandosi sulla sedia di legno. «Sì», concordò, apparendo quasi diffidente, le pupille strette come punte di spillo. Intrecciai l’orlo della mia maglietta grigia di cotone con le dita.  

«Non dovremmo litigare per nemmeno io so cosa» chiarii, scrollando le spalle, conscia che ci sarebbero stati altri momenti per odiare Sebastian a causa del carattere che aveva sempre avuto «Siamo venuti qui, in mezzo al gelo, per divertirci, in fondo, non per azzannarci». 

Inarcò un sopracciglio corvino, non gradendo la battuta, e io scrollai le spalle, sorridendogli innocentemente, poi abbandonai ogni remora, spolverandomi le mani sui Jeans, e abbandonai il bancone della cucina. 

Lo abbracciai, inclinandomi verso la sedia, stringendolo e dimenticando anche perché fossi stata tanto nervosa e agitata fino a poco prima.
Lo abbracciai, vibrando del suo stesso calore, che risuonava nelle corde del mio cuore. Sebastian nascose un sorriso fra i miei riccioli, affondando delicatamente la testa nella mia spalla. «Non preoccuparti, Ro» borbottò pacatamente. Gli scompigliai ulteriormente i capelli con una mano. 

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𝔈 𝔞𝔡𝔢𝔰𝔰𝔬 𝔰𝔬𝔩𝔬 𝔪𝔢!!!
𝙵𝚘𝚛𝚜𝚎 𝚞𝚗 𝚙𝚘' 𝚒𝚗 𝚛𝚒𝚝𝚊𝚛𝚍𝚘, 𝚖𝚊 𝚗𝚘𝚗 𝚟𝚒 𝚑𝚘 𝚊𝚋𝚋𝚊𝚗𝚍𝚘𝚗𝚊𝚝𝚘, 𝚎𝚌𝚌𝚘𝚖𝚒 𝚚𝚞𝚒 𝚌𝚘𝚗 𝚞𝚗 𝚗𝚞𝚘𝚟𝚘 𝚌𝚊𝚙𝚒𝚝𝚘𝚕𝚘.
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