I. The 1.

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But we were something, don't you think so?
Roaring twenties, tossing pennies in the pool
And if my wishes came true
It would've been you
In my defense, I have none
For never leaving well enough alone
But it would've been fun
If you would've been the one.

- "the 1", Taylor Swift (folklore).

Era una mattina gelida come le altre.
Il bus diretto a Yale tardò, come sempre, per radunare ed ammassare la moltitudine di persone in attesa della fermata.

Una mattina come tante.

Charleston, il bulletto di fine anno, era lì ad importunare le solite vittime del suo raggio d'azione; Ophelia e Stacey a commentare l'ultima foto online della sfilata di Victoria's Secret.
Circondata dai soliti volti, dalla solita folla, dai soliti atteggiamenti.

Un anno.

Un solo anno mi separava da Yale e non avrei potuto chiedere di meglio.
Quell'ambiente era tossico, ai livelli più estremi. Se non eri figlia di un imprenditore internazionale e la tua unica amica per la vita era una borsa di studio che ti aveva rilegato lì, in breve tempo saresti caduta dalle nuvole... scontrandoti con l'acida realtà dell'adolescenza americana.

Il mio unico desiderio dell'epoca fu quello di sgombrare da lì il prima possibile.
Kourtney e Sam avrebbero seguito i miei stessi corsi post scuola; meno mancava dalla fine, più i nostri desideri acquisivano un nuovo volto.

Odiavo quella scuola.

Ma il destino, si sa, è come quel bulletto dal quale non riesci a separarti per tutta la durata del liceo: attacca quando vuole. E in quella mattina artica della stagione invernale ebbe un tempismo perfetto.

Per la prima volta in tutta la mia carriera scolastica, il bus anticipò. Lo persi.

Corsi a per di fiato dal tratto che separava i giardini della signora Smith alla fermata, ma invano. Troppo tardi.

Inveii contro il povero autista di turno, che non sentì. Tutta la folla che aspettava la seconda sosta mi squadrò, allibita.
E volevo crederci, una Chris del genere non si era mai vista!

Il ragazzo con le cuffiette, quella mattina, si voltò. I suoi occhi blu sembrarono anche più cristallini del solito, la solita felpa della squadra di basket di Yale in bella mostra e le ciocche bionde e scompigliate a farmi perdere la testa. La mascella squadrata si incurvò in un sorriso, mentre i passi aumentarono nella mia direzione.

Tolse una cuffietta di "Another Brick in the Wall", mi squadrò i lunghi capelli corvino e rise a fior di labbra. Il mio cuore perse mille battiti.

«James. James Carter.»

Il capitano di basket della Yale era lì. Davanti a me. A sorridermi come una statua greca.

Il ragazzo con le cuffiette, dopo infiniti giorni a fissarlo da lontano, mi rivolse la parola. Mi sentii onorata da chissà quale benedizione ultraterrena.

«Oh. Piacere, Chris.»
Furono le uniche parole ansimanti, prima che la gola potesse seccarsi.

«Hai perso la fermata, suppongo.»
Continuò.
Mi stava davvero rivolgendo la parola?

«Sì. L'avrai notato.
Sai, le urla... la mia figura di merda...»
Dannazione, Chris.
Saresti potuta star zitta, quel giorno?

«Sì. Ho notato.»
E quella risata. Dio, quella risata.
Pregai affinché non ricordassi un bulldog con la bava alla bocca.

«Posso darti un passaggio, se vuoi.»

Quel gesto fu l'inizio di tutto.

Le gambe mi tremarono e il cuore rimbalzò fuori dal petto. Temetti il peggio, data la mia vulnerabilità e impulsività.

«Umh no, tranquillo. Non potrei. Non vorrei disturbarti.»
Mi limitai ad arrossire e sbiancare allo stesso tempo, balbettando e gesticolando. Una cretina. L'ennesima polla che gli andava dietro, pensai.

«Sciocchezze! Sei della Yale, giusto?»

«S..sì.»
La mia risposta sembrò bastargli per convincerlo. Non che puntassi i piedi a terra per controbattere, precisiamolo.

In meno di qualche minuto, mi accomodai nella sua Lamborghini. Trevor, l'autista che avrei conosciuto con il passare dei mesi, salutò il ragazzo intimando di sederci sui sedili posteriori.

Per tutta la durata del viaggio, il ragazzo con le cuffiette mostrò tutta la sua loquacità.
Fantastico, qualcuno in grado di battermi, pensai. Io restai muta come un pesce, per l'imbarazzo del luogo e la compagnia di un Dio greco. A pochi centimetri di distanza.

Quel giorno non potevo immaginare minimamente come il nostro incontro avrebbe inciso sul resto della mia vita. Con il passare delle settimane, James veniva a cercarmi vicino agli armadietti della mia classe per invitarmi alle sue partite di basket, sotto lo sguardo incredulo delle mie amiche.

E fu alle sue partite che conobbi Alexis, la donna più spregevole e viziata della città.
Girava intorno a James come un cagnolino, di quelli che avevano bisogno del guinzaglio e della museruola un giorno sì e l'altro pure.

James iniziò a farmi entrare nella sua cerchia e, inspiegabilmente per una ragazza delle mie origini, in breve tempo divenni una di loro. Conobbi Michael, Zen, Samantha, Trisha. Persone che mi han dimostrato che la ricchezza non è una condanna, se sfruttata a parole. Amici deliziosi, fedeli, empatici, che custodisco tutt'oggi.

Se James ebbe la bontà di darmi quel passaggio, fu anche per l'influenza che il gruppetto vip - amavo chiamarlo così - gli esercitava da anni.
Se James, un tempo, fu quell'uomo, conoscevo il motivo.

Le sue vecchie amicizie mi piacevano, mi facevano sentire a mio agio. Mi fischiavano alle partite quando James mi dedicava i canestri, arrossivo e li maledicevo. Uscivamo insieme, facevano di tutto per farmi avvicinare a lui più del dovuto.

Tifavano per noi. Tifavano per me.

Un'altra pagina della mia vita venne scritta con l'incontro della famiglia Carter.
La famiglia più ricca del quartiere cambiò le carte in regola del mio destino. La signora Elene Carter è una delle mie più care amiche tutt'ora; il miliardario John Carter è la persona più spregevole, ipocrita, meschina e frivola che io abbia mai conosciuto in trent'anni di vita.

A lui non piacevo.
Non gli sarei mai piaciuta.

Dal primo brindisi di rosé nella villa, al primo party in piscina in occasione del compleanno di James.

A lui non ero gradita. Ed ebbe infiniti modi per dimostrarmelo, sotto gli sguardi accusatori della moglie.

Il limite lo raggiunse dopo che beccò me e James a quel party in suo onore.

Quella sera mi ubriacai tanto, sotto le attenzioni premurose di James che non mi mollò per un secondo. Quando tutti lasciarono la festa, probabilmente le bollicine alcoliche mi arrivarono al cervello. Oh sì, completamente.

Iniziai a lanciare monetine nella piscina della villa, urlando il nome di James e intonando la musichetta dell'altare. Il tutto ballando ubriaca.

James rideva, rideva come se non ci fosse stato un domani. Tentò di afferrarmi, mentre volteggiavo felice sui bordi.
In meno di un minuto, la sbronza mi fece crollare a peso morto nell'acqua, afferrandomi al suo braccio ed inzuppandomi con lui.

Ci sbellicammo per minuti. James mi confidò di essersi lasciato andare dopo anni. All'epoca continuai a ridere come una tonta, non capii. Non intuii che per lui, il mio arrivo nella sua vita, fu cruciale.

Fui la sua salvezza. La sua distrazione dalle grinfie di un padre che gli aveva programmato ogni singolo dettaglio.

Quella sera ci baciammo. Ubriaca, fradici, avvolti in un abbraccio. Io, lui, una piscina e mille sogni nel cassetto. Avrei voluto che quell'istante fosse durato per l'eternità.

Tornammo alla realtà quando la famiglia ci trovò e dovetti lasciare il posto, per non inaugurare una rissa tra lui e il signor John.
James mi accompagnò a casa, si scusò mille volte; sulla porta d'ingresso, mi limitai a baciarlo.

Lo implorai di rimanere da me, quella sera. Fu così. Ricordo la nostra prima volta come l'ultima in cui ho vissuto davvero. La sua premura, il suo tocco soffice sulla mia pelle; le sue scuse, le mie unghie conficcate nelle sue spalle possenti.

Tutto ciò che la ragazzina della periferia, ammirando il suo eroe, non avrebbe mai potuto immaginare.

Né avrebbe potuto ipotizzare che, la mattina seguente, sarebbe stata l'ultima a svegliarsi in sua compagnia.

Il signor Carter entrò prepotentemente nella vita del figlio. La fine della scuola si avvicinava, i sogni che aveva per lui con essa.

Alexis, la bastarda del gruppetto vip, era della famiglia più vicina agli interessi del signor Carter: i due padri erano amici per la pelle, avevano organizzato il loro fidanzamento ufficiale sin dalla loro nascita.

James, il mio James, il mio ragazzo con le cuffiette, cambiò. Lo persi.
Per sempre.

Finito il college, non ebbe il tempo di scusarsi e asciugare le mie lacrime: il padre trasferì la famiglia a New York, i sogni che ebbe per il figlio si realizzarono con la velocità tripla di una Mercedes.

Fece in modo di tagliarmi ogni contatto con il figlio. Evitò ogni mia lettera, ogni mio modo di vederlo.

Lo persi.
Lo persi per sempre.

Me lo strapparono via.
Con la stessa velocità con cui un giorno, sotto un cielo stellato, correvamo a piedi nudi sul terreno di un bosco che conosceva soltanto lui. La stessa notte in cui, distesi e sfiniti, ci giurammo eterno amore.

Qualsiasi strada le nostre vite avrebbero intrapreso, giurammo di amarci in eterno. Contro ogni ostacolo. Contro ogni ceto sociale che ci separasse.

-

A trent'anni, realizzata e a dirigere la mia azienda di moda milionaria, pensai al passato con fierezza.

Pensai a cos'ero prima di lui, a cosa diventai dopo, all'impatto che ebbe quella relazione sul mio essere.

Mi fece crescere, maturare.
Il ricordo mi consumò, vederlo in tv fu la goccia che fece traboccare il vaso. Mi servì ad incollare pezzi della mia vita.

A trent'anni, seduta nel  mio ufficio, ricordai quelle emozioni come un piacevole ricordo di un'adolescenza consumata nel migliore dei modi.

Alla nostra foto sulla scrivania, domanda snervante di ogni cliente, sorridevo con orgoglio. Pensavo alle albe delle domeniche passate insieme, ai film mai visti, alle mattine svegliata da sola.

Pensavo a tutto ciò che eravamo stati.
E non mi pentivo di nulla.

-

L'ennesimo giorno di lavoro, ricevetti un cliente. Uno strano cliente.
La mia segretaria me lo presentò come l'astro nascente dell'alta società.

Lo invitai ad entrare nello studio.
Mentre sistemavo i cassetti, mi alzai.
Incrociai il suo sguardo.
Quello sguardo.

Quegli occhi di un blu oltreoceano, con due nuove cuffiette alle orecchie e un lago di caffè rovesciato ai suoi piedi.

Non parlammo per minuti.
Ci limitammo ad osservarci.

Eravamo due mondi opposti, entrambi realizzati. Lui era stato consumato dalle compagnie superficiali del mondo di suo padre; io dirigevo l'azienda che il signor John bramava da anni e non avrebbe mai avuto.

Ma quel dì non discutemmo.
Non più.

Il mio cuore si arrese.
Si arrese all'idea che, per quanto il destino potesse ostacolare due anime, esse avrebbero trovato sempre il modo per rifugiarsi l'un l'altro.

Per quanto ci provasse, la sorte sarebbe rimasta sempre la bastarda che una mattina, al freddo della sosta scolastica, anticipò il mio bus. Scrivendo la mia storia.

«Eravamo qualcosa, non credi?»
Furono le uniche parole, al di fuori del colloquio lavorativo, che sentii mie quel mattino.

Le uniche che, malinconica, tatuai su un braccio.

Perché lui fu l'unico.
L'unico uomo che amai.
L'unico ricordo indelebile.
E sarebbe stato così.

Per l'eternità.

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