II. Cardigan.

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But I knew you
Dancin' in your Levi's
Drunk under a streetlight
I, I knew you
Hand under my sweatshirt
Baby, kiss it better, right
And when I felt like I was an old cardigan
Under someone's bed
You put me on and said I was your favorite.

- "cardigan", Taylor Swift (folklore).

«Skylounge Rooftop Bar.
Che ne dici?»

L'entusiasmo rovente nella voce di Clarice fece distogliere il mio sguardo dalle pagine ingiallite del manoscritto musicale.

«Puoi smetterla di ripassare? Andrai benissimo! Ascoltami per un minuto!»

La pianista dai capelli d'oro.
È così che amavo chiamarla.
Un sorriso contagioso, una chioma caotica tanto quanto la sua personalità.

Era una delle mie più care amiche al corso di perfezionamento invernale della Guildhall School.

Mi trasferii a Londra non meno di cinque anni fa, nel post laurea newyorkese. Un master in pianoforte ad una delle migliori scuole d'arte del Regno Unito fu il regalo migliore che la vita potesse farmi.

Oggi sono un'insegnante affermata in una delle scuole private più prestigiose di New York... ma all'epoca, ero solo una ragazzina.

Quando sei giovane, presumono che tu non sappia nulla. Eppure il destino, riuscì a mettermi a dura prova. Molte volte.

Conservo quel giorno come un ricordo tutt'altro che sbiadito: ogni dettaglio, ogni emozione. Ogni supplica logorroica di Clarice, ogni informazione sul luogo.

Tentennai per secondi, forse per minuti.
Infine, la bionda riuscì inspiegabilmente a convincermi e ciò lacera i miei pensieri ancora oggi. A distanza di anni, riesco ancora a maledire quegli istanti. Quelle sensazioni.

Quello che fu il più grande errore della mia vita.
Ma soprattutto, quello che lui fu per me.

-

In una fredda serata di ottobre, danzavano le foglie ambrate della stagione autunnale, agglomerandosi nell'erba essiccata dei silenziosi parchi londinesi. Il cielo era una tela d'arancio sbiadita, in contrasto al luccichio dorato delle illuminazioni cittadine.

Il vento soffiò prepotentemente sugli abiti che io e Clarice optammo per l'occasione: un vestito rosato per la sua vivacità e un tocco perlaceo sul suo sguardo; un tubino nero in pailettes e un rossetto nero per me.

La scomodità dei miei tacchi venne a galla nel momento in cui attraversammo i ciottoli che ci separavano dall'entrata del luogo, sotto le risate di Clarice nelle sue comode ballerine.

All'entrata fummo accolte da un personale gentile che ci accompagnò fino al piano del Double Tree, zona del rooftop. La nostra serata si sarebbe svolta lì, tra cocktail e serate.

Nel tragitto, scrutai minuziosamente ogni particolare: l'arredamento minimal, le sale piene di vetrate e, infine, la terrazza esterna in cui era possibile ammirare il panorama della città: la Torre di Londra, il The Shard, il Tamigi, la cupola di St. Paul.

Una città ai miei piedi, con la musica di sottofondo a farmi piombare nella realtà.

Fu in quegli istanti, in una frazione di secondi, che la mia vita cambiò.

Comodo su un divano in similpelle, a scherzare con gli amici, un ragazzo dalle iridi azzurre e le ciocche bionde e disordinate catturò la mia attenzione.

Iniziò a scrutarmi, si isolò dalle chiacchiere dei compagni per rinchiudersi nella stessa bolla in cui ero ormai sprofondata anch'io.

Clarice diventò un sussurro, la musica inesistente: tutto ciò che il mio cuore desiderava quel giorno, era lì. A mani incrociate, bevendo un cocktail sotto le luci dei grattacieli di Londra.

Dovetti rendermene conto da quel giorno che il modo in cui ci conoscemmo, sarebbe stata la mia condanna: dopo un'eternità di sguardi, fu il suo amico a chiedermi di avvicinarmi alla loro postazione.

Le gambe mi tremarono come la peggiore delle danzatrici di un'opera; nascosi l'imbarazzo dietro un sorriso innocuo e avvolgendo tra le dita delle ciocche ondulate ai lati del volto.

«Evan. Evan Peters.
Ci conosciamo?
Non credo di aver mai visto una ragazza così bella nei paraggi della Guildhall School.»

«Madison. Madison Brooks.
No, non credo.»

La maglietta bruna, sottile e tipicamente vintage, il fisico prorompente e un'altezza che non potei ipotizzare, un ciuffo distratto a svelare parte dell'iride azzurra e un telefono nuovo di zecca tra le mani.

Era un componente della Guildhall School.
A tutti gli effetti.
E come la metà delle persone di quel posto affollato.

La stretta di mano, il drink che seguì, le risate e i discorsi. Fu quella la sera che segnò la mia intera esistenza. Ma all'epoca, fui troppo giovane per comprenderlo.

Fui troppo ingenua per poter schivare quel salto nel vuoto.

Con il passare dei mesi, Evan diventò una costante delle mie giornate londinesi. La Guillard iniziò a organizzare serate per gli studenti, e le uscite a quattro con Clarice e il suo nuovo ragazzo finivano tutte in un unico modo: lui a ballare nelle sue Levi's, ubriaco sotto un lampione ad aspettare il tram che mi avrebbe accompagnato a casa.

Un'infinità di baci, carezze, risate e sussurri, riscaldando la stagione artica che ci circondò per mesi.

Fu, infatti, il turno dell'inverno: il romanticismo inglese lasciò spazio al periodo dell'anno in cui Londra giaceva in silenzio, sommersa dalla neve.

Nei corridoi della scuola, Evan mi rubava baci, occhiate furtive in compagnia del gruppo e occhiolini al volo: la nostra relazione alla luce del sole fu sostanzialmente questa. Per mesi.
Fu come giocare a nascondino, uscendo allo scoperto soltanto nei bar e nelle auto delle nostre serate fuori.

E dovetti capirlo, ma il sentimento di quegli anni colpì più forte di qualsiasi arma.

Dovetti capirlo. Aveva un'altra.

Il giorno in cui lo scoprii, fu per una vecchia foto stropicciata nel suo armadietto: giurò, mi implorò con tutte le forze di credere che quella relazione fosse finita da un pezzo, come suggerivano le condizioni di quel reperto.

Ma che sarebbe stato più cauto per entrambi nasconderci agli occhi di lei, poiché bramava vendetta. Me la descrisse come la peggiore delle serpi, e io ci credetti.

Dovetti capirlo. Ma il pugnale dell'amore era troppo forte, troppo profondo.

Iniziai ad allontanarmi: tutta quella situazione mi consumava, mi deconcentrava dalle lezioni per gli esami di pianoforte e agitava le mie notti insonni.

Evan cercò di farsi perdonare nel migliore dei modi possibili: organizzò un viaggio nella mia città natale, New York.

Un weekend romantico sulla High Line, i nostri battiti cardiaci, le mani intrecciate, le promesse sussurrate: era tutto ciò di cui ebbi bisogno.

Tutto ciò che servì per dargli una seconda possibilità.

Le mani sotto la mia felpa, i baci tra le coperte, i cerchi e le stelle disegnati con le dita sulle mie cicatrici: quella notte fu il mio perdono. E per una sera, mi sentii rinata.

Promisi di fidarmi.
Di non dubitarne mai più.

Ma un amico di tutti è un amico di nessuno.

Al nostro ritorno a Londra, l'alone di magia di quei giorni svanì: l'ex ragazza di cui giurava di essersene liberato continuò a girargli intorno con ostinazione.

Dovetti capirlo.

Era un maledetto segnale, ma ne fui cieca fino all'ultimo: soltanto grazie all'aiuto di Markus, il suo migliore amico, scoprii il tradimento.

Non l'aveva mai lasciata.
Era stato in grado di nasconderlo ad entrambe, in un modo impercettibile.

E d'improvviso, il pugnale di cui non riuscivo a separarmi mi colpì più forte. Fino a farmi sprofondare nell'abisso del dolore.

Per tutto quel tempo. Per tutto quell'anno.
Non fece altro che mentirmi, tradirmi, seppellirmi.

Ma inseguendo due ragazze, perse quella giusta.

L'unica per cui sarebbe valsa la pena lottare, come il destino ebbe modo di dimostrargli più avanti.

L'inverno voltò pagina, la primavera iniziò un nuovo capitolo: il treno verso la città di Manchester, diretto all'aeroporto della partenza, cancellò tutte le speranze. Tutti i miei sogni.

Il corso era andato a buon fine: una prestigiosa scuola newyorkese mi assunse a tempo indeterminato per una cattedra di pianoforte e teoria del suono.

Tornai alle origini, ma senza una meta.
Tutto ciò per cui avevo lottato, rimase per sempre nel cuore di Londra.

Con la pioggia battente ad accompagnare quelle ore, accovacciata al finestrino dell'ultimo treno pensai a quanto la sua vigliaccheria non fu in grado di abbandonarlo nemmeno per un istante: non venne a salutarmi. Non ci fu mai un addio.

Mi sentii come un vecchio cardigan sotto il letto di qualcuno: mi aveva messo addosso, mi aveva detto che ero la sua preferita.

Ed era finita così. In un battito di ciglia.

In aeroporto provai a chiamarlo, ma anche quel segno di coraggio fu invano: fino all'ultimo, con tutte le mie forze, tentai di cambiare il finale... finché non riuscii a metabolizzarlo, una volta per tutte.

Peter aveva perso Wendy.

Avrei dovuto saperlo.
Avrei dovuto smascherare la sua anima dal giorno zero.

Sapevo che avrebbe perseguitato tutti i miei "se", tutti i miei "ma", nelle giornate a consumarmi nel dolore.

Ero conscia che l'avrei maledetto per anni, inseguendo le ombre in fila al supermercato.

Ma in cuor mio, più di ogni altra cosa sapevo che gli sarei mancata una volta finito il brivido.

Egli tornò.

A New York.
Sulla nostra High Line, in pieno giorno,
con un mazzo di rose tra le mani, il volto rigido e le iridi di cui mi ero così innamorata tre anni prima.

In quel momento, capì.
Capì ogni errore.
Ogni coccola consumata, ogni bacio perso, ogni saluto mancato.
Capì tutto.

Mi presentai con Luke, il mio nuovo ragazzo. Un'anima buona, sensibile, vera: tutta la serenità e la libertà che Evan non era mai riuscito a donarmi.

La vita, quel giorno, gli regalò una lezione.

E io, imparai la mia:
quando sei giovane, tutti presumono che tu non sappia nulla. Dell'amore, dell'amicizia, della vita.
Tutti ti sottovalutano.

Ma sono gli errori a farti crescere.
Il dolore a farti cambiare.
La felicità a farti restare.

Lui era il peccato di cui avevo bisogno, il pugnale da cui rinascere.

E come un vecchio cardigan, molto tardi, fui in grado di capirlo.

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