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Mila

Camminavo nell'aria immota, l'atmosfera era accogliente, tutto intorno immobile e silenzioso. Le mani si riscaldavano nella tasche del cappotto, il respiro formava delle nuvolette di vapore. Ogni tanto la quiete veniva spezzata dal rumore delle macchine, a ogni minuto diventava sempre più persistente; significava che le persone stavano iniziando la loro giornata. Avrei voluto che il tempo si bloccasse, facevo di tutto per rimanere sola, poi i secondi passavano ed era impossibile trovare un modo per scappare dalla realtà.

Restai ferma, a pochi centimetri dal bordo del marciapiede, a guardare la strada e le auto. Mi ritrovai a osservare un punto fisso e immaginare cosa sarebbe potuto accadere se mi fossi posizionata proprio lì, in mezzo alla strada.

Se il guidatore casuale fosse stato attento, probabilmente si sarebbe fermato e avrebbe urlato impanicato e sarebbe uscito per controllare che stessi bene e tutte le macchine si sarebbero fermate a loro volta creando una coda, probabilmente.
Nel caso in cui il guidatore fosse stato distratto o non avesse avuto riflessi immediati, probabilmente sarei andata contro il paraurti finendo a terra e avrei sbattuto la testa e perso i sensi e il telefono sarebbe scivolato fuori dalla tasca con lo schermo rivolto verso l'alto a mostrare le notifiche, probabilmente. Un po' come accadeva nei film.
E magari quelle notifiche erano chiamate di mia madre. Se avessi avuto un incidente, lei sarebbe stata l'ultima persona a saperlo. Come lei, anche mio padre. Carol invece sarebbe stata distrutta, avrebbe pianto giorno e notte e potevo affermarlo perché era sensibile ed emotiva.

Nell'istante in cui pensai a lei il mio sguardo cadde a terra, sulla punta dei miei piedi, poi lo alzai continuando a sentire quella voce nella mia testa che faceva supposizioni. Mi parlava del futuro, cercava di spingermi a fare qualcosa: "Se corri verso la strada ti sentirai libera", "Prova a vedere cosa succede", "Chi saranno le persone a preoccuparsi?".
Scossi la testa, ma qualcosa mi costringeva a guardare la strada. I miei occhi erano fissi in un unico punto nonostante il movimento.

Sentii un rumore, poi di nuovo e solo la seconda volta, così come accade per la sveglia la mattina, realizzai che fosse il clacson di una macchina vicina che veniva in mia direzione attraversando la corsia opposta. Riuscii a distrarmi un attimo quando in testa si creò un po' di confusione. Qual era la necessità di Dan di avvicinarsi in quel modo?

Abbassò il finestrino per farsi riconoscere, anche se ricordavo la macchina, e mi guardò. Lo guardai anche io poi tornai a fissare la strada come se quel pensiero mi tormentasse e non volesse cedere.

"Vuoi entrare? Farai tardi a scuola" mi fece notare. Feci un cenno con la testa per acconsentire ed entrai silenziosamente senza riuscire nemmeno ad elaborare la situazione.

"Che c'è? Pensi a qualcosa?" continuò.

"Ogni tanto..." risposi fermandomi e facendo intendere altro.

"Intendevo in questo momento" precisò, continuai a pensare alla mia risposta.

"Ogni tanto mi blocco, sono in un posto e mi fermo, penso a qualcosa. Poi fisso un punto, mi è capitato di guardare un dirupo, il fuoco, la strada... e sentivo come se... c'era una forza che mi attraeva. Ti capita mai di pensare a cosa potrebbe succedere se facessi una determinata azione? Se mi buttasi giù, se bruciassi la mano, se corressi verso la strada... cosa succede poi? Lo faccio o lascio scorrere le vicende come da consuetudine?"

Si girò per comprendere le mie parole. "Sì, a volte mi capita. Vorrei fare qualcosa di estremo perché sono curioso di vedere come reagirebbero i miei genitori... si può arrivare a tanto solo per ottenere delle risposte?"

"Ma io non voglio risposte. No, non è questo il punto... Ho paura di cosa potrei fare un giorno, i miei pensieri mi fanno paura."

"Paura dei pensieri?" Si mise a ridere creandomi un leggero senso di fastidio.

"Tu non hai paura di niente?" chiesi così io.

Sì ammutolì. "Credo che non dovremmo avere paura di noi stessi, soprattutto dei nostri pensieri, perché se non lo vogliamo questi non si concretizzeranno."

Aveva ragione, anche se la mia attenzione era volta più alla domanda sviata che alla risposta data. Quella curiosità mi tormentò fino all'arrivo a scuola. Di solito conoscere una parte degli altri non era affar mio, in quel caso volevo però sapere se custodisse qualche paura. Restammo fianco a fianco lungo il percorso, anche dopo l'entrata, non capivo se ero io a mantenere il suo stesso passo o era lui, sembrava un movimento naturale. Dopo il lungo silenzio, ripresi il discorso, sentivo la necessità di confrontarmi, di parlare, di farmi capire.

"La chiamano appel du vide" dissi di punto in bianco sistemando i miei occhiali da vista.

Mi guardò confuso senza capire a cosa mi stessi riferendo. Ciò che volevo era catturare la sua attenzione, non tanto una comprensione immediata.

"Ho fatto delle ricerche. Quella forza che ti spinge verso il vuoto, la definiscono come appel du vide. Non riesco a capire se è la stessa sensazione, ma in qualche modo mi dà conforto sapere che non sono l'unica a provarla."

"Viviamo nel mondo, non siamo mai soli a fare o sentire qualcosa." Spostò lo sguardo verso il basso come se un pensiero gli avesse appena sfiorato la mente. "Dovresti cercare di essere distratta dal mondo, non nel mondo. Se pensassi ai problemi, non finirei di farlo, quindi penso sempre a tutto che si rivela essere niente, perché non continuo a pensarci. Ho solo pensieri passeggeri, niente ha una fine."

In quel momento mi resi conto di quanto fosse stato strano e non da me continuare a parlare, così restai in silenzio per un po' per poi dire: "Vado in classe."

"Ehy", mi fermò tenendomi il braccio, "qualcosa non va? Non hai più continuato a parlare."

"Pensavo fosse meglio così."

"Ecco il problema. Non pensare, sembra come se avessi paura di dire il tuo pensiero, di agire in modo sbagliato, ma anche di non agire. Ho deciso, d'ora in poi staremo insieme, considerale lezioni antipensieri!" concluse con un tono duro. Quando ci salutammo però e ci allontanammo, riuscii comunque a vedere un sorriso soddisfatto come se avesse finalmente avuto successo in qualcosa. Forse la considerava una piccola vittoria, non avevo nemmeno avuto il tempo di dire la mia. L'idea però non mi dispiaceva, mi sentivo già più libera dopo aver rivelato quella mia strana sensazione angosciante.

Arrivata alla porta della classe, mi accorsi di avere anch'io un leggero sorriso stampato sul volto e percepivo una sensazione strana e nuova. Per qualche secondo bloccai il passaggio ai miei compagni che volevano entrare, poi mi spostai e decisi di non fare lezione, o meglio, sapevo l'argomento che sarebbe stato spiegato, così l'avrei studiato da sola. Avevo bisogno della mia solitudine, tutte quelle presenze mi confondevano.

Mi sedetti appoggiata al muro del corridoio meno percorso e aprii il libro inziando a sottolineare a matita. Le parole del libro non sembravano catturare completamente la mia attenzione che dopo qualche riga ritornava su quelle di Dan. Considerale lezioni antipensiero, aveva detto. Perché voleva aiutarmi ad avere meno pensieri? Uno come lui avrebbe avuto ben altro da fare che sprecare il suo tempo con me, per cosa poi? Quali lezioni? Cosa può spiegarmi Dan?

Certo era che aveva scacciato quel richiamo del vuoto; credevo che avessi potuto fare un gesto sbagliato se non fosse arrivato, forse a quell'ora sarei stata distesa sul cemento circondata dalla gente che chiedeva soccorso. In tutto quello, i miei genitori sarebbero stati ignari a lungo, mentre perdevano la loro unica figlia.

Però ero ancora viva.

Il silenzio venuto a crearsi iniziò a sollevarsi come le nuvole nel cielo, spezzato da un leggero trambusto. Mi alzai per controllare quanto fosse distante quel brusio arrivando alla conclusione che lo era abbastanza per non avvicinarmi. Le persone ne combinavano troppe. Era sempre meglio stare alla larga dai loro problemi, non finivano che aumentare i propri.

Vidi di nuovo Dan e pensai fosse un'immagine creata dalla mia mente per quanto improbabile e strano. Poi però venne in mia direzione.

"Cosa ci fai qui?"

"Perché me lo chiedi?" domandai a mia volta.

Fece spallucce. "È che non mi aspettavo di trovarti qui fuori."

"Tu perché sei qui?" chiesi sostituendo le parole al solito silenzio.

"Ho chiesto di andare al bagno, ma in realtà volevo cercare Thomas, non vorrei che gli fosse successo qualcosa. Questa mattina l'ho visto" spiegò. "Ah eccolo."

Venne verso di noi con un'aria preoccupata. Sembrava che fosse lui a cercare Dan e non il contrario.

"Devi venire" esclamò con affanno.

"Cosa? Perché?" Lo sguardo di Dan mutò direttamente e iniziò subito a camminare come se avesse una minima percezione di cosa stesse accadendo.

Ciò che mi sorprese maggiormente fu che, nonostante lo scatto, fece in tempo ad afferrare la mia mano per portarmi con loro. Parve non farci molto caso, perché il gesto era così naturale che nemmeno se ne accorse. Ci avvicinammo a quel brusio che avevo voluto evitare e le voci si fecero più chiare e riconoscibili.

"Matthew! Nathan!" Cercò di separare il primo dal secondo che toccava ormai terra dolorante e rassegnato.

Osservavo la scena bloccandola in quell'istante. La rabbia di Matthew era visibile dai pugni saldi, le pupille dilatate e lo sguardo insistente su un punto fisso che non era necessariamente Nathan. L'arrivo di Dan lo aveva distratto, si era fermato, era rimasto in silenzio. Nessuna mossa, nessuna parola, era completamente perso. Sembrava che non capisse nemmeno dove si trovasse e perché, il vuoto lo circondava. Una luce di pentimento scintillò sul suo volto, o forse era confusione, tristezza, nostalgia. La sua parte irrazionale aveva valicato la ragione; la paura o le bugie o la mancanza lo avevano fatto agire.

Mentre le urla di Dan a rimproverarlo offuscarono quel dettaglio, spostai lo sguardo. Il dolore di quelle deboli ferite non era percebile quanto l'emozione che stava divorando Matthew. Non era lui il colpevole, ma la causa, e Nathan era preoccupato più per lui che per se stesso; cercò di farsi forza per alzarsi e, una volta in piedi, fece un cenno con la testa in direzione di Thomas e mi sorrise per assicurarci che stesse bene. Poi fece per allontanarsi, probabilmente per far tornare in qualche modo tutto alla tranquillità e non diventare un problema. Prima che se ne andasse però fu bloccato da Alis che sconvolta iniziò ad osservare il viso dell'amico e cercare delle spiegazioni, fino a che spostò lo sguardo su Matthew accorgendosi che qualcosa non andava. Per un momento ebbi l'impressione che tutta la sua rabbia sarebbe uscita sotto forma di parole dure, invece chiuse gli occhi, sospirò e quando li riaprì si avvicinò a lui. La scena poteva essere paragonata a una mia tipica lettura; quando un testo mi annoiava, scorrevo le pagine arrivando a delle situazioni del tutto nuove delle quali non riuscivo a comprendere come si fosse arrivati a quel punto. Ecco, il cambiamento di Alis dal punto di vista emotivo era stato pressoché simile: subitaneo e bizzarro.

Così, mentre iniziò a parlare con Matthew, cominciai a domandarmi su perché fosse arrivata lì proprio in quel momento. Fu lei a spiegarlo: "Volevo controllare che andasse tutto bene, ho fatto bene a uscire."

"Io torno, siamo in molti a non essere presenti in classe" disse Thomas siccome la situazione era sotto controllo ormai.

"Matt, usciamo prima da scuola?" tentò Alis.

Matthew era ancora particolarmente turbato e silenzioso. "No."

Lei provò di nuovo: "Usciamo."

Quella volta non rispose, pareva completamente spento ed Alis cercava di farlo riprendere. Sfiorò la sua mano e qualcosa in lui vibrò facendogli posare lo sguardo sui suoi occhi. Percepivo diverse emozioni, anche contrastanti. Alis si sforzava per convincerlo, aiutarlo, però qualcosa la limitava, forse un episodio passato; lui desiderava trascorrere del tempo con lei, ma era come se non si sentisse più adatto. Entrambi agivano controcorrente, per il bene dell'altro.
All'ultimo Matthew affermò deciso che non voleva andare, non con lei, e si avviò con lo zaino ancora in spalla, verso l'uscita. Dan le sussurò qualcosa, ma pareva non fosse nulla di nuovo, Alis se lo aspettava. Tornò in classe, rimanemmo di nuovo io e Dan.

Mi guardò come se solo in quel momento si fosse accorto che mi aveva portato lui fino a lì. Si destò facendo un lungo respiro e disse: "Meglio se torno in classe."

Confusa non replicai e continuai per la mia strada. La stranezza di quel ragazzo non era una novità.

Passate le ore a scuola tra i corridoi vuoti, subito dopo decisi di raggiungere la biblioteca. Carol era abituata a quelle mie scelte improvvise, tanto che non era necessario avvisarla.

Camminai seguendo la traccia di fango lasciata dalla ruota di una bici ed osservando le foglie variopinte cadute. Ne raccolsi una rossa poco prima di entrare nell'edificio.

Salutai la bibliotecaria che, nonostante non mi vedesse da settimane, mi riconobbe, e mi diressi verso il tavolo dove tempo prima ero solita sedermi. Aprii un quaderno e inserii la foglia tra le pagine bianche dove si sarebbe seccata. Poi controllai uno ad uno i libri posizionati sugli scaffali lì vicino. Una voce mi distraette, alzai lo sguardo spontaneamente notando che quella voce proveniva dalla persona che stava parlando con la bibliotecaria e non ci misi molto a scoprire di chi si trattava. Un ulteriore caratteristica strana. Non sembrava affatto un tipo da biblioteca. Quando finì la sua chiacchierata mi vide e fu sorpreso.

"Sei anche qui?" domandò, ma continuò la frase in autonomia. "Insomma, c'era da aspettarselo da una che legge anche la mattina presto. Mi chiedo perché non ti abbia mai vista prima."

"Sono settimane che non vengo qui. E ancora prima non penso mi avresti notata." La vera domanda era, perché lui si trovava lì?

"Strano... anche io mi sedevo qui" e così fece appoggiando lo zaino sopra il tavolo. Non capivo se fosse serio o stesse scherzando. "Perché non dici niente?"

"Fa strano sentirti dire che frequenti questo posto..."

"Fa strano dici? Beh, ognuno ha i suoi motivi." Rimase in silenzio aspettando forse che io replicassi chiedendogli il motivo, ma non lo feci. "Mi aiuta a distrarmi e allontanarmi dai pensieri negativi. Sai, con questa storia di Matt non so più come comportarmi."

"Non te l'ho chiesto" dissi confusa sentendo come se quell'informazione non mi appartenesse e gliel'avessi strappata dalle labbra io stessa.

"Lo so, ma volevo dirlo" precisò e poi continuò. Mi ritrassi impegnata nella lettura di un libro quando in realtà le mie orecchie lo ascoltavano e la mia mentre troppo coinvolta si dimenticava di essere credibile voltando pagina. "Matthew ha perso suo fratello, Joan. Tenevamo tutti molto a lui, ma non faceva parte del gruppo a pieno, a volte lo escludevamo, perché così voleva Matt. Ancora non si dà spiegazione all'accaduto e ciò ha inciso molto sul comportamento di Matthew, quel tassello incompleto lo tortura e rende incompleta la sua identità, il suo carattere... Io è da anni che lo conosco, so chi è il vero lui."

"Questo ha a che fare in qualche modo con questa mattina?" Alzai la testa. Ogni volta che mi interessavo alle vite altrui mi sembrava di invaderle.

Non parve sorpreso, come se avesse dato per scontato che io lo stessi ascoltando. "Nathan era il suo migliore amico al tempo e, per diverse questioni, ha attribuito tutte le colpe a lui per quella morte per darsi una spiegazione e non lasciare il tassello vuoto. Recentemente hanno ripreso i rapporti, causando uno squilibrio nella mente di Matt. Quel pensiero di Joan è costante e finché non troverà l'assassino, la rabbia persisterà."

"Alis lo sapeva... per questo esitava..." pensai a bassa voce, ma abbastanza alta da essere udita.

"A lei l'ho spiegato e vuole aiutarlo. Quei due sono legati e distanti nello stesso momento. I rapporti sono sempre difficili all'inizio, o alla fine. Non per me ovviamente." L'ultima frase stonava con il resto del discorso e mi turbò leggermente, perché non sapevo come interpretarla.

"Esistono eccezioni certo, ma non ce n'è mai una sola. O significa che nel tuo caso non prendi seriamente quel rapporto." Ripensando alle mie parole, fui insoddisfatta, erano totalmente incomprensibili. Cercavo sempre di spiegarmi riassumendo i concetti e ne veniva fuori un discorso di poco effetto.

Lui però si concentrò sull'ultima frase e subito ne formulò risposta. "Per chi non conosce il valore dei rapporti, non può crearne uno vero."

"Tu non lo conosci?"

"No."

"Già, nemmeno io."

"Cos'è che non capisci delle relazioni?" disse allora.

"Perché le persone si allontanano nonostante il rapporto."

"O perché le persone li creano questi rapporti." Il nostro dialogo confuso continuò, la nostra mente sembrava in sintonia, si capiva nonostante le parole che ne venivano fuori non fossero poi tanto decifrabili.

La mia pancia brontolò nel bel mezzo della pausa tra una replica e l'altra.

"Non hai pranzato?" chiese, scossi il capo. La biblioteca era stata la prima meta a cui avevo mirato dopo scuola. Sorrise, "Andiamo a prendere qualcosa."

Quando ci alzammo, ne approfittò per aggiungere un commento: "Senza volerlo, abbiamo trovato il posto per le nostre lezioni antipensiero!" E fece l'occhiolino.

ℳ𝒶𝒹 •𝒶𝓂

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