Capitolo 4

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E la tua luce è morbida

La patina orrida ch'ora copre il cielo

Non compromette la vista ottima

La verità è una strada a doppio senso e ci s'invortica


L'idea di questa perfezione è dittatura cosmica

Le paranoie in testa fanno aerobica


Siamo nella stessa lacrima

Come un sole e una stella

- Rancore; Elisa (DOVETE sentirla)


Premette con forza le mani sulle ruote per arrestarsi quando trovò una novità inaspettata all'uscita, e la destra pulsò per le ferite ancora fresche. La gomma stridette contro le sue dita e gli causò piccole bruciature, le quali si sommarono ai calli generati da altre che in passato si era procurato allo stesso modo. Quando andava veloce era difficile frenarsi subito, ma a volte non poteva fare altrimenti.

Era abituato a fuggire dal loro autista privato e dalle insistenze sempre più labili di Adam, nascondersi alle ragazze e sgusciare via sul viale alberato che, con una lunga discesa, lo accompagnava in silenzio a casa ogni giorno. Ora, però, c'era un'anomalia, che stava mandando in palla il suo fragile sistema abitudinario. Ora, accanto al cancello in ferro battuto, non c'era Sam come al solito, ma i suoi genitori. Ed Eleanor.

Alzò un sopracciglio, girando la testa per scorgere Mya e Iris che si rivolgevano a vicenda sguardi interrogativi. Di Adam non c'era traccia.

«Grant» chiamò ad alta voce, dacché quello si era già allontanato per andarsene verso la sua auto.

Lo vide fermarsi e voltarsi con un'espressione che non gli aveva mai scorto in volto. Sembrava quasi fosse preoccupato per lui, anche se di un sentimento del genere non se ne faceva nulla.

«Dammi i tuoi guanti» ordinò. Non avrebbe potuto mostrarsi alla famiglia con le nocche distrutte. Un conto era passare quasi indisturbato davanti al salotto di sfuggita, tutt'altro paio di maniche sarebbe stato avere a che fare con loro faccia a faccia.

«Stai scherzando, amico? Me li ha regalati mia sorella nemmeno due settimane fa.»

Effettivamente il freddo iniziava a farsi sentire, ma nonostante non lo reggesse molto, lui non aveva mai sopportato i guanti: gli freddavano le dita ancora di più, inoltre perdeva attrito sulle ruote della sedia.

«Dammeli e basta, te li rendo domani, o al massimo li ricompro! Muoviti.» Mya e Iris erano già arrivate alla macchina, e stavano discutendo con i genitori. Doveva sbrigarsi.

Il ragazzone soppesò quella pretesa, poi assunse un'aria infastidita. «Non posso, non sarebbe lo stesso se li ricompri! Se me li perdi o rovini...»

«Ti prometto che non lo farò. Anche uno solo va bene, l'altro te lo lascio.»

Le sue parole parvero convincere un po' di più il compagno che, titubante, si sfilò un guanto e glielo porse come se si stesse separando da un cimelio inestimabile. Quasi gli venne da ridere davanti all'attaccamento infantile di quell'energumeno per la sorella. Ma non aveva tempo per prenderlo in giro, quindi afferrò la stoffa pesante e se la infilò per coprire le ferite sulla destra.

«Ti devo un favore» ringraziò prima di muoversi. Il cuore accelerò al pensiero che potesse essere successo qualcosa, e quasi s'incastrò in un'irregolarità del terreno nella fretta di ripartire.

Raggiunse la famiglia in un batter d'occhio.

«Alec!» Mya gli si avvicinò, e lui a malapena riuscì a ricordarsi di stringerle con la sinistra la mano che gli porgeva, distratto dai Callaway che gli sorridevano. Perlomeno non sembrava accaduto niente di grave, anche se il loro sorriso era un tantino esagerato.

«Cosa succede?»

«Pranzo con annesso pomeriggio in famiglia. E l'hanno deciso dieci minuti fa.»

Ci mise qualche istante a replicare, tanto fu spiazzato da quell'informazione. Di solito non pranzavano tutti insieme, né tantomeno erano mai andati a mangiare fuori o a condividere qualche ora all'aperto. No, loro non erano affatto così, quindi perché avevano organizzato tutto questo?

«Cosa c'è sotto?» domandò a voce bassa, in modo da essere sentito solo da Mya e Iris.

«Qualcosa non torna, suppongo lo scopriremo presto.»

Le obiezioni gli morirono in gola quando si rese conto che a parlare era stato Adam, spuntato fuori dal retro della macchina. Alec si interruppe all'improvviso e quasi soffocò con le sue stesse parole non pronunciate.

Tutto il resto avvenne molto rapidamente. Ebbe appena il tempo di incrociare gli occhi blu del ragazzo, tristi, che venne trascinato via e caricato in modo imbarazzante in quell'altrettanto imbarazzante Limousine che presto ospitò tutti. Non si diede nemmeno l'opportunità di protestare o informarsi sul programma della giornata.

Il tempo non era dei migliori, eppure i capifamiglia non desistettero dal portarli in un ristorante all'aperto per godersi l'aria fresca – fin troppo fredda in effetti, ma nessuno pareva farci caso –, nel quale Alec fu obbligato a ordinare qualcosa. Ignorò il fascino naturale del verde che lo circondava, a tratti dipinto come da mani esperte dei colori dell'arcobaleno, appartenenti a inaspettati fiori autunnali che profumavano il vento. Scelse un piatto a caso dal menù e si perse nel magenta delle dalie vicine finché non gli venne adagiata con eleganza l'ordinazione davanti da una sobria cameriera. Si permise una fugace occhiata agli altri, tutti entusiasti del cibo, prima di gettare una piccola parte del contenuto nel vaso accanto a sé. Mya e Iris sembravano essersi dimenticate del sospetto che tutti e quattro avevano nutrito inizialmente, distratte dall'aria allegra che passava tra loro. Come facevano a non sentire freddo?

Non ebbe il coraggio di voltarsi verso Adam, dall'altra parte del tavolo, alla sua sinistra, e passò i minuti a far finta di mangiare mentre gettava tra le piante un pezzo di carne alla volta. Strinse il naso in una smorfia, sebbene gli dispiacesse lo spreco. Come se avesse potuto ingerire quella roba. Come se avesse potuto ingerire qualsiasi cosa in una situazione del genere.

Alla fine, quasi per caso incrociò le iridi magnetiche di Adam, puntate su di lui come se fino a quel momento il non avessero guardato altro. Il disagio che già provava si estese al rimbombo delle parole che quella mattina aveva rivolto a quel ragazzo, e le nocche pizzicarono più del dovuto. Avrebbe voluto ritirare tutto, ma poi cosa avrebbe impedito al giovane Brass di avvicinarsi a lui? Di certo non lui stesso, non ne avrebbe più avuto la forza, non con quei zaffiri che, nonostante avesse incrociato già da un po', non smettevano di fissarlo mesti.

Accidenti, falla finita! pensò, indurendo lo sguardo come se attraverso di esso potesse trasmettere quella frase a Adam.

Quest'ultimo, tuttavia, continuò imperterrito finché non fu obbligato a volgere l'attenzione altrove perché era stato chiamato. Lo vide annuire, anche se si era perso l'eventuale domanda che gli era stata fatta per concentrarsi sul modo in cui il vento gli scompigliava i capelli e mostrava la fronte. Poco male, non doveva importargliene.

«E tu, Alec?»

«Uh?» Scese dalle nuvole, del tutto ignaro di quale fosse l'argomentazione di dialogo che aveva portato Stephen a involverlo.

Il padre non parve prendersela per aver parlato a vanvera, e come spesso faceva gli ripeté la questione. «Vuoi aiutarmi con il lavoro?»

Non seppe cosa rispondere. Non accadeva quasi mai che il signor Callaway discutesse dei suoi affari, figurarsi durante un pranzo di famiglia. «Adesso?»

D'istinto, guardò Louise aspettandosi di trovarla infastidita per quell'intromissione, invece lei lo sorprese con un cenno d'incoraggiamento.

Da strano ad ancora più strano. Che cosa stava accadendo?

«Che cosa ti serve?» chiese titubante, indeciso su come muoversi in una circostanza simile. Lanciò di sfuggita un'occhiata a Adam e capì dalla sua espressione che non ne sapeva più di lui. Iris dal suo posto seguiva tutta la scena con sguardo indagatore. A volte sua sorella gli metteva i brividi.

«Ah, niente di troppo complicato, avrei solo bisogno che voi ragazzi prendeste questi fogli e li organizzaste secondo il metodo che ritenete migliore.» Detto ciò, tirò fuori dalla sua ventiquattrore un plico di scartoffie.

«Perché noi?» Non riusciva a smettere di fare domande, ma la situazione non gli era chiara. Non aveva mai aiutato i suoi genitori con il lavoro, conosceva poco e niente in realtà di quello che facevano poiché non ne era interessato, sebbene loro volessero lasciargli in eredità l'imprenditoria.

Eredità... una lampadina si accese nella sua mente. Che stessero cercando di avvicinarlo a quel mondo dal momento che aveva deciso di sposare Mya? Ma Adam cosa c'entrava allora? Non si azzardò a chiedere anche quello quando la risposta alla precedente questione fu piuttosto striminzita.

«Perché noi abbiamo da fare altro. Vi è stato riservato un tavolo di proposito, per favore non mischiate i documenti a voi assegnati. Buona fortuna, io e Louise vi ringraziamo molto per l'aiuto.»

Stranito, tornò a prestare attenzione a Adam, che nel frattempo si era già alzato per dirigersi al posto indicato. Era distante almeno una decina di metri e più riparato dal vento cosicché non sarebbero volati pezzi di carta ovunque. Ciò fu la conferma che quell'azione era premeditata, ma non riuscì comunque a comprendere il motivo della presenza di Adam.

Seguì il giovane Brass e la brezza gli portò alle narici il suo profumo. Di male in peggio. Come avrebbe potuto stare da solo con quel ragazzo dopo ciò che era successo?

Quando si sedette, si accorse della privacy che una siepe offriva loro. Il tavolo su cui avevano mangiato si intravedeva soltanto, e fu quasi sicuro che nei coperti in cui si erano posizionati uno di fronte all'altro la famiglia non li scorgeva per intero.

Beh, se volevano che facesse quella roba da topo di biblioteca l'avrebbe fatto, che ci metteva a organizzare qualche foglio? Evitò di guardare Adam e si focalizzò su ciò che aveva davanti: montagne di appunti economici e finanziari su presunti acquisti o vendite o interessi di non-sapeva-nemmeno-cosa.

«Ma che roba è?» sussurrò, tuttavia Adam lo udì.

«Una gara.»

Finalmente alzò lo sguardo e quasi si sentì bruciare per la vicinanza dell'unica persona che non poteva permettersi di avere accanto. Adam leggeva quelle scartoffie come se queste per lui avessero davvero un senso, e ogni tanto annuiva tra sé e sé.

Alzò un sopracciglio, infastidito. «Come hai detto?»

L'altro alzò gli occhi e lo inchiodò sul posto con la profondità delle sue iridi. V'era ancora angoscia al loro interno, ma stavolta era celata sotto la serietà che aveva improvvisamente assunto. «Vogliono scoprire chi di noi due è più portato per diventare successore della famiglia Callaway.»

«Ehi, frena. Sto per sposarmi con Mya, e fin qui tutto ok.» Non tutto ok, ma facciamo finta di sì. «Ma tu cosa diavolo c'entri con me?»

«Non è molto elegante da parte tua usare simili parole.» Il giovane Brass divenne quasi gelido. «Tu vuoi sposarti con Mya come se di punto in bianco l'amassi.» Lasciò per un attimo la frase in sospeso, evidente frecciatina per comunicargli che lui non ci cascava. «Ma dimentichi che sono promesso a Iris.»

La risposta lo zittì. L'aveva pronunciata quasi come una minaccia o se l'era inventato?

Sbuffò e riprese i fogli, che sparpagliò nel suo spazio sul tavolo, deciso a vincere. Non si trattava solo di una questione di principio, lui non voleva che Adam sposasse Iris, quindi gli avrebbe rubato il posto come miglior amministratore di... di quella roba.

Pensare però non era facile come mettere in atto, perciò si ritrovò a confondersi tra un documento e l'altro poiché effettivamente sembravano tutti uguali.

Al diavolo! Alzò lo sguardo e colse Adam sbattere le scartoffie in verticale sul piano in legno per raggrupparle in una pila ordinata. Aveva l'aria soddisfatta di chi aveva già portato a termine il compito, e un istante dopo fece per alzarsi.

«Aspetta!» Senza nemmeno accorgersene, le sue dita corsero sul braccio del ragazzo per bloccarlo. Quando si rese conto di ciò che aveva appena fatto era già troppo tardi, e non poté impedire al vuoto nel petto di estendersi.

Adam si bloccò e lo fissò in attesa. Davanti a tutta quella severità, Alec non riuscì a trovare il coraggio per continuare ciò che aveva iniziato, quindi lo lasciò andare e si arrese alla sua sconfitta. «Non volevo trattenerti, scusami.»

Sospirò e si preparò a tornare ai propri fogli, ma in quel momento si sentì afferrare la mano; senza pensare alle conseguenze, tirò istintivamente l'atro indietro, lasciando il guanto nella stretta dell'altro.

«Che cosa hai fatto alla mano?»

Accidenti! Era stato scoperto. La fragile fasciatura che si era fatto con la sinistra era venuta via con il guanto, e ora le ferite erano esposte all'aria aperta e pulsavano più di prima. Con il passare del tempo sembravano addirittura peggiorate, e adesso le sue nocche erano gonfie e violacee, oltre che scorticate.

Provò a indietreggiare per sottrarsi a quello sguardo indagatore, ma Adam gli afferrò saldamente il polso prima che potesse riprenderselo e lo avvicinò a sé, obbligandolo a sporgersi in avanti. Il suo stomaco vuoto intruppò sul legno e gli inviò una fitta, ma lui non aveva attenzione che per il contatto pulsante tra il palmo caldo di Adam e la propria pelle gelida.

«Come ti sei procurato queste ferite?» Aveva parlato con tono piuttosto basso, forse per non insospettire il resto della famiglia, ma il disappunto era evidente anche così.

«Non sono fatti tuoi» gli rispose Alec, obbligato in quella posizione a fissarlo dritto in volto. Nonostante la situazione fosse a suo svantaggio, non fece altro che perdersi nella familiarità di quei lineamenti, che tanto avrebbe voluto sfiorare con le dita.

L'espressione severa di Adam tremolò e divenne più abbattuta, carica di angoscia. Quel ragazzo aveva sempre fatto di tutto per lui, lo aveva messo al primo posto in ogni occasione sebbene lui avesse cercato di non permetterglielo. E adesso, che davvero aveva chiuso ogni spiraglio verso di lui, Adam soffriva.

Non faccio altro che far soffrire le persone. Pareva quasi una maledizione, con l'unica differenza che se l'era imposta da solo.

«Non ferire te stesso in questo modo.» Lo sapeva, era ovvio che lo sapeva. Lo conosceva meglio di quanto si comprendesse da solo, e non gli ci era voluto che un battito di ciglia a capire cosa era successo.

Alec ritirò la mano con uno scatto repentino. Le nocche strusciarono sul palmo di Adam e lo sporcarono di sangue rappreso, ma il rimbombare rapido del cuore sovrastò il dolore.

«Non deve importartene» disse, mantenendo a sua volta un tono basso per non farsi sentire da nessun altro.

Adam corrucciò le sopracciglia. «Certo che mi importa, Alec! Sei come un fratello per me, anzi, qualcosa di più...»

Qualcosa di più. Forse Adam proseguì nel parlare, ma la mente di Alec rimase incastrata tra quelle parole.

«Desideri piacere da me quanto io desidero darlo a te.»

«Cosa?!» boccheggiò, prima di rendersi conto che non aveva davvero udito quella frase, che veniva solo dai suoi ricordi.

«Ti ho detto di darmi la mano. Ti sistemo la fasciatura, sempre se non vuoi che tutti vedano cos'hai fatto.»

Ancora confuso dalla propria memoria che gli giocava brutti scherzi, fece come gli era stato ordinato, suo malgrado. Adam lo afferrò gentilmente e il suo tocco gli fece quasi male, non a livello fisico, bensì più simile a una ferita psicologica. Era qualcosa di così familiare che non poteva sopportare di non riceverlo più.

Restò fermo, attonito, mentre il giovane Brass lo fasciava con gesti più esperti dei suoi, utilizzando la benda che aveva scorto all'interno del guanto. Quando ebbe finito, esaminò l'operato con occhio critico, ma il suo sguardo si ammorbidì un attimo dopo. Senza lasciarlo muovere via, portò due dita all'altezza dei polpastrelli di Alec, e con i propri li accarezzò così delicatamente che gli provocò solletico. Un solletico che gli increspò la pelle e gli mozzò il fiato.

Incapace di sostenere quella situazione oltre, Alec tirò a sé il braccio finché l'altro non lo lasciò andare. Puntò il viso verso i fogli nell'attesa che accadesse qualsiasi cosa che non li riguardasse così da vicino, e finalmente dopo qualche secondo Adam parlò. Sperò che gli dicesse che se ne sarebbe andato, ma udì qualcosa di molto peggio.

«Scusami. Non avrei dovuto. Ti ho fatto una promessa e la manterrò.»

Il buco al centro del suo petto si espanse ancora di più quando, detto ciò, lo sentì alzarsi. Rimase lì a fissare pezzi di carta privi per lui di senso alcuno, a domandarsi se mai quel fastidio che gli impediva di respirare si sarebbe alleviato. Se mai avrebbe smesso di percepire l'eco delle sue parole nella propria mente. Se mai avrebbe smesso di avvertire la sua mancanza.

*

Le dita gli facevano male a forza di pigiare sull'avorio, ma era un intorpidimento che accoglieva volentieri, esattamente come quello dei muscoli dopo la lunga nuotata di quel pomeriggio. Era da tanto tempo che non gli capitava di aver bisogno di immergersi così in qualcosa, eppure proprio ora, in un momento cruciale, il coinvolgimento veniva a mancare. Solo il fastidio fisico poteva intaccare, anche se solo di poco, quell'apatia psicologica, e in questo modo riusciva a malapena distrarsi.

La musica risuonava nell'aria, ma per Adam era quasi come non sentirla; il cervello dava l'impulso alle mani di premere la nota giusta, ma la cosa finiva lì: se anche l'orecchio captava il risultato finale di tale movimento, la mente troppo indaffarata non registrava l'armonia altalenante che nasceva dal semplice pigiare su quei tasti.

Ci mise un bel po' anche ad accorgersi che qualcuno stava bussando. Si interruppe di colpo quando udì i ticchetti secchi sulla porta, che aveva precedentemente chiuso a chiave per non essere disturbato.

Rimase fermo, la voce di Alec che scandiva con perfezione frasi esistenti solo nella sua testa. A ogni battito sul legno, una sillaba che componeva quel discorso senza senso.

Conosceva bene Alec, sapeva che nel pronunciare quelle parole, quella mattina, non vi aveva creduto nel profondo come invece gli sarebbe piaciuto dimostrare. Ciò non toglieva, però, che l'aveva fatto, aveva avuto il coraggio di dire tutto ciò senza batter ciglio. E quando l'aveva realizzato, aveva sentito qualcosa rompersi definitivamente tra loro.

Si passò le dita tra le ciocche scure e sospirò davanti all'insistenza di chiunque fosse al di là di quella porta. Gemette per la stanchezza dovuta al fatto di aver tirato troppo la corda in piscina e si alzò dalla sua postazione. Fece qualche passo e si decise a girare la chiave nella serratura, sicuro di scorgere il viso di Mya. Nessuno entrava nella stanza dei giochi ormai, e negli ultimi tempi solo loro due vi avevano messo piede.

«Musica degna di un pianista di successo, oserei dire.»

Fu perplesso di trovarsi davanti, al contrario di ogni aspettativa, la più giovane dei Callaway, che lo scrutava con aria di consapevolezza.

«Credevo che...» Si zittì, riflettendo sulle sue parole. Aveva suonato senza pensarci, come se fosse in una specie di trance. Non ricordava niente della melodia che era stata creata dalle sue mani, solo la malinconia che il suo cuore ci aveva messo dentro. «Quanto hai ascoltato?» Per un attimo si sentì esposto: aveva infuso in quella composizione tutto ciò che provava. Non sapeva nemmeno lui di preciso quale fosse stato il risultato, ma il semplice fatto che qualcuno l'avesse udito in un momento tanto intimo gli provocava imbarazzo. Non gli era mai capitato di sentirsi così fragile.

Senza attendere oltre, Iris entrò dal corridoio buio, e le luci provenienti dal lampadario carezzarono la sua chioma dorata. Era la prima volta che non l'aveva sistemata con un cerchietto o uno dei suoi soliti fiocchi. Aveva raccolto i capelli in una crocchia che la faceva sembrare più grande.

La vide muovere lo sguardo intorno a sé fino a poggiarlo sul maestoso pianoforte a coda che troneggiava nella sala svago. La superficie bianca e lucida rifletteva parte delle loro figure, più vicine di quanto Adam si fosse reso conto.

«Ho ascoltato abbastanza per provare ammirazione» rispose semplicemente la ragazza con un sorriso furbo, poi avanzò fino a sedersi sullo sgabello imbottito.

Adam la osservò mentre portava le dita sui tasti con lentezza per poi studiarli fino a sceglierne qualcuno, che premette in sequenza. Una sinfonia più semplice e allegra riempì la stanza, sorprendendolo. Non aveva solo scelto a caso, Iris sapeva cosa stava facendo.

La giovane si bloccò per voltarsi verso di lui e fargli cenno di posizionarsi accanto a lei, poi ricominciò con il motivetto di prima, formato da una decina di note a ripetizione.

Dopo qualche secondo di esitazione, Adam la raggiunse e sfiorò i tasti più a sinistra. Accompagnò così le note alte e pure di Iris con suoni più bassi e lugubri, dando vita a un duetto altalenante ma in qualche modo completo. Erano come due facce della stessa medaglia, il sole e la luna, la notte e il giorno, lo yin e lo yang. Si sconvolse così tanto a paragonare sé stesso all'oscurità e Iris alla luce che le sue mani si bloccarono sulla tastiera, creando una spiacevole interruzione. Lui era sempre stato il sole, la luce. Riflettendo da un punto di vista oggettivo, non si era mai lasciato andare a sentimenti come la malinconia, non aveva mai perso la capacità di sorridere, era colui che sorreggeva gli altri. E ora invece aveva Iris a sorreggere lui. Com'era potuto accadere tutto ciò? Come aveva permesso a qualcun altro di ridurlo in tali condizioni? No, non era di certo colpa degli altri: ognuno era artefice del proprio destino e della propria vita, e di questo era fermamente convinto. In definitiva, la questione esatta era: come aveva permesso a sé stesso di cadere in uno stato simile?

Gli ci volle un po' per accorgersi che anche Iris si era fermata, tanto era immerso in profondi ragionamenti. Quando riuscì finalmente a collegarsi in modo stabile con la realtà, si decise a chiedere: «Sto forse sbagliando qualcosa?»

Era una domanda diretta a nessuno in particolare, ma la ragazza lo sorprese comunque con una risposta, gli occhi verdazzurri puntati nei suoi come incoraggiamento. «Tutti sbagliano, altrimenti non saremmo umani.» Con una scrollata di spalle, sviò quel discorso come se non fosse significativo, e con esso ogni pensiero sconveniente di Adam. «L'importante è recuperare sempre la giusta strada» sorrise. Adam l'aveva vista sorridere in maniera genuina di rado. Sembrava quasi che nella famiglia Callaway i sorrisi costassero una consistente quantità di energia. Anche per quello quell'espressione affabile fu in grado di infondergli un po' di calore.

«Che cos'è successo, Adam?» Questa volta Iris fu più diretta. «Devo prendere Alec a calci?» Gli venne quasi da ridere quando la sua mente formulò l'immagine di Iris che picchiava qualcuno. Era così minuta che era impossibile pensare che potesse essere vero.

«Va tutto bene» mentì, anche se gli fu subito chiaro che lei non avrebbe abboccato alla sua solita pacatezza, quindi fu costretto ad aggiungere: «È solo un periodo un po' complicato, ho fatto qualcosa di cui dovrei pentirmi, eppure non posso, e so che per questo Alec non mi perdonerà.»

La minore dei Callaway rimase un attimo in silenzio a riflettere sulle sue parole, poi si alzò e tese una mano per farsi seguire. Quando Adam gliela porse, si sentì tirato verso la porta senza nemmeno poter risistemare il pianoforte.

«Mio fratello è cocciuto, testardo, maleducato, egoista a volte. Ma non è stupido. Se ciò che hai fatto l'hai fatto a fin di bene, sarà costretto ad ammettere anche lui che va bene così. E vedrai che lo farà, è solo lento di comprendonio.» Suo malgrado, si ritrovò a sorridere alla descrizione di Alec da parte della sorella.

Nessuno dei due proseguì la conversazione mentre i corridoi bui passavano sotto le suole delle loro scarpe. La casa sembrava deserta nonostante non fosse ancora tardi. Entrambe le famiglie andavano a dormire presto, e non era raro che passata l'ora di cena non sentisse neanche una mosca.

«Dove stiamo andando?» chiese Adam sottovoce quando imboccavano il corridoio che portava alla zona notte.

«C'è un solo modo per inculcare bene le cose in testa ad Alec: urlargliele nelle orecchie finché non le assimila per forza.» All'espressione spaesata che lui assunse, la ragazza rise e scosse il capo. «Scherzo. Devi parlargli e fargli capire le tue intenzioni. La sua tecnica è quella di allontanarti per impedirtelo, ma una volta superate le sue stupide difese non è difficile farsi sentire.»

«Aspetta, iris, non voglio peggiorare la situazione...»

La giovane emise una risata soddisfatta e lo tirò con più vigore mentre lui si lamentava.

«Fidati di me, non ne ho mai sbagliata una.»

Gli fece l'occhiolino e per un attimo credette davvero che sarebbe andato tutto bene. In fondo lui era il solito Adam, e non poteva essere accostato all'oscurità. Lui era il sole, era il giorno. E se non avesse funzionato pazienza, ci avrebbe riprovato e avrebbe continuato a mantenere la propria luce, perché niente e nessuno avrebbe potuto togliergliela.

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