Capitolo 2

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Raise your hopeful voice

you have a choice

You've made it now

- Glenn Hansard  


Alec si chiuse la porta alle spalle, ma non si lasciò andare a un sospiro di sollievo. No, non c'era nulla per cui sentirsi sollevato: la sua vita era andata distrutta, gettata giù per una scala infinita e precipitata, gradino dopo gradino. Si ritrovò a chiedersi quando avrebbe toccato il fondo.

I suoi genitori erano letteralmente impazziti. Non aveva mai creduto che facessero sul serio con la storia dei matrimoni combinati: insomma, erano nel ventunesimo secolo e un'imposizione del genere era quasi perseguibile penalmente. Ma no, non poteva avere una famiglia degna di quel nome, né lui né sua sorella Iris. Loro dovevano "portare avanti l'imprenditoria come tutti i Callaway", a detta di sua madre Louise. Anche se "madre" era l'ultimo modo in cui gli veniva di chiamarla, visto l'andamento. Non che la donna avesse mai avuto uno spiccato istinto materno, ma ora si era trasformata in una vera e propria dittatrice, e la voce di Stephen, suo marito, contava poco e niente davanti alle sue decisioni.

Si guardò intorno, impedendo a sé stesso di compiacersi per il buongusto dell'arredo. In circostanze normali l'avrebbe apprezzata, ma non in quel caso, non quando quel posto avrebbe sostituito la sua amata camera della casa a Phoenix.

Doveva ammetterlo, lo spazio era molto ampio, persino più di quello a cui era abituato. I colori dell'ambiente si aggiravano attorno allo stesso bordeaux della sua vecchia stanza in uno sciocco tentativo di farlo sentire a casa, e varie console da gioco erano sistemate accanto a un televisore che, insieme a un guardaroba che poteva contenere più del doppio dei suoi abiti, occupava quasi interamente la parete di destra. Davanti a lui, una finestra illuminava l'ambiente, ma la maggior parte della luce veniva filtrata dalle tende rossastre. Si voltò a sinistra e notò una porta che, probabilmente, conduceva al bagno. Ad essa seguiva un letto a una piazza e mezza ricolmo di cuscini, affiancato da due graziosi comodini.

Aprì un'anta dell'armadio e trovò tutti i suoi vestiti impilati in un ordine a lui sconosciuto. Tirò fuori una camicia e un paio di jeans eleganti. Avrebbe desiderato qualcosa di più comodo, ma non gli andava di frugare troppo, e tutto era accettabile pur di togliersi di dosso quei capi da viaggio.

Aveva sempre cercato di essere efficiente, nonostante la limitazione che da dieci mesi lo affliggeva. Con i mesi aveva imparato a escludere l'aiuto di altri per qualsiasi cosa, non lo sopportava. Non era certo uno di quei ragazzi attaccati ai genitori come se fossero ancora in fasce.

Lui detestava Louise. Fin dall'incidente, non aveva fatto altro che compatirlo e trattarlo come se non fosse più in grado di gestirsi da solo. Ma, a quanto pareva, non le aveva fatto abbastanza pena da indurla a non portarlo lì, dai Brass. Alec avrebbe preferito di sì, tanto era consapevole che il loro rapporto era caduto così in basso da non poter essere recuperato, ormai.

Non erano mai stati così legati come capitava alle altre famiglie. Certo, Alec le voleva bene, e lei a lui, ma con la madre non percepiva la stessa vicinanza che invece provava verso sua sorella Iris. Dopo che era uscito dall'ospedale si erano ritrovati distanti come non mai: Alec si sentiva costantemente in tensione in sua presenza, e la donna sembrava non capire il bisogno di indipendenza che lui avvertiva. Anzi, dimostrava una certa tendenza a tenerlo sotto una campana di vetro, forse per preoccupazione, forse per senso del dovere, o forse semplicemente per controllarlo. Qualunque fosse la ragione, lui era assolutamente contrario.

Scosse la testa e si diede una mossa. Era indipendente, ma pur sempre lento. Si sostenne con le mani sul materasso e si issò sulle coperte scure senza troppa fatica. Ormai aveva sviluppato i muscoli delle braccia in modo che essi potessero sostituire in parte la mancanza delle gambe.

Trovò il letto incredibilmente comodo e la cosa lo infastidì. Non voleva scovare pregi in mezzo a tutto quel disastro nel quale era precipitata la sua vita.

Dopo essersi cambiato, si lasciò andare alla morbidezza che lo accoglieva e socchiuse gli occhi, senza riuscire tuttavia a dormire. Le lunghe notti di un sonno da almeno otto ore erano solo un ricordo per lui, che risaliva alla sua vita prima dell'incidente.

Passò gran parte del tardo pomeriggio in uno stato di dormiveglia carico d'ansia, finché due colpi secchi alla porta non lo ridestarono.

«Avanti» proclamò senza pensarci mentre si metteva seduto. Se ne pentì immediatamente: avrebbe potuto essere quella ragazzina viziata o, peggio ancora, sua madre. Non aveva voglia di vedere nessuno in quel momento. Sull'uscio, però, non comparve nemmeno uno dei volti che temeva.

C'era una donna sull'uscio che, a giudicare dai vestiti, Alec classificò come governante. Scosse la testa. Nonostante fossero ricchi, i Callaway non avevano mai preso una cameriera, era da snob! Al massimo uno chef.

«Io sono Miss Irina, signor Alec» si presentò chinando leggermente il capo. Una ciocca di capelli striati di grigio le cadde sulla fronte e lei se la scostò rapidamente con la mano.

Alec la fissò. Accennava a malapena un sorriso di circostanza e se ne stava in piedi ferma, forse attendendo qualcosa. Lui non replicò, così continuò.

«Sua madre l'aspetta per raggiungere i Brass a cena, al piano di sotto» lo informò, per poi sparire al di là della porta dopo aver ricevuto ancora silenzio come risposta. Alec apprezzò la sua scelta di non essere invadente.

Si guardò intorno, constatando che si era fatto tardi. Con un gemito di disapprovazione scese dal letto e si stropicciò le palpebre. Se la prese comoda perché voleva far aspettare la madre. Sarebbe stata la sua piccola vendetta per averlo condotto lì, la prima di una lunga serie, poiché a confronto non era nulla.

Quando aprì per uscire in corridoio, si ritrovò nuovamente una figura davanti. Non era il corpo minuto della governante, bensì uno dalle fattezze maschili, di gran lunga più elegante e sinuoso.

«Ehi» fu tutto ciò che disse il nuovo arrivato, lasciandolo perplesso per un attimo.

Il giovane dinnanzi a lui era magro ma atletico, impressione aumentata dalla sua altezza non trascurabile. I capelli neri gli ricadevano in alcune ciocche scurissime sulla fronte, carezzandogli quasi le ciglia. Due occhi di un azzurro intenso erano puntati su di lui, penetranti, addolciti però da un sorriso benevolo. Quest'ultimo gli creava una fossetta sulla guancia sinistra.

Alec puntò la vista verso il basso e trovò la mano dello sconosciuto protesa verso di lui per essere stretta. Digrignò i denti e tornò a fissarlo, adottando uno sguardo di sfida. Impossibile non riconoscere chi aveva davanti: Adam Brass, colui che, grazie ai giochetti dei loro genitori, avrebbe avuto la strada spianata con sua sorella Iris. Avrebbe poggiato le sue sporche grinfie su di lei, potendo fare ciò che gli pareva.

No. Alec avrebbe combattuto fino alla fine per evitare tutto ciò. Se a sua madre non interessava nulla della vita di Iris, ci avrebbe pensato lui a proteggerla, a qualsiasi costo.

Il ragazzo esitò, poi il suo sorriso tornò più ampio di prima e spinse la mano verso di lui con convinzione. «Sono Adam. Adam Brass» palesò, sfiorandogli il petto con le dita affusolate. Alec si ritrasse istintivamente, facendosi indietro con la sedia a rotelle.

«Non toccarmi» ordinò tra i denti.

L'altro alzò un sopracciglio con fare sorpreso e ritirò il braccio. Alec strinse i pugni. Avrebbe voluto spaccargli quella faccia d'angelo. L'avrebbe fatto, si disse. Ogni cosa a suo tempo.

«D'accordo. Come vuoi» si limitò Adam Brass Non sembrava per nulla offeso, solo leggermente perplesso. Ma fu un attimo, poi le emozioni sparirono dietro una maschera di cordialità.

«Andiamo. Ci stanno aspettando.»

La frase era stata pronunciata con garbo e allegria, ma Alec si sentì comunque in dovere di precisare: «Non prendo ordini da te.»

Adam fece spallucce. «È tua madre che mi ha chiesto di chiamarti. Ti attende da un po'.»

Alec non ribatté. Suo malgrado, iniziò a muoversi per seguirlo tra i corridoi fino alla discesa accanto alle scale. Quando l'aveva vista per salire, Alec si era quasi rifiutato. Era niente più che un mezzo per sottolineare la sua diversità agli occhi altrui. Alla fine però aveva mantenuto la bocca chiusa poiché quello era l'unico modo che gli avrebbe permesso di spostarsi tra i due piani, e una piccola parte di lui gli aveva suggerito che avrebbe dovuto essere grato per questo. Piccola, ma abbastanza influente da zittirlo.

Questa volta la osservò e poi spostò lo sguardo sul suo accompagnatore, il quale stava rallentando per aspettarlo. Alec superò il limite di sopportazione. Non importava quanto ci avesse provato, non era riuscito a tollerare quella finta espressione da bravo ragazzo che mirava a prenderlo in giro.

Si avvicinò a lui con uno scatto dei polsi e gli agguantò la polo bianca che indossava, tirandola a sé. Adam si sbilanciò, colto alla sprovvista, e si ritrovò faccia a faccia con Alec, a fissarlo attonito.

«Non m'interessa se mia madre è tanto insensibile verso il sangue del suo sangue da affidare Iris tra le mani di un approfittatore che non aspetta altro» ringhiò a denti stretti. «Io non te la lascerò sfiorare neanche con un dito. Se ci provi dovrai vedertela con me, e sappi che sono in grado di far soffrire molto più di quello che credi.»

Il silenzio calò su di loro, assordante dopo le parole pronunciate a voce più alta del normale. Minacce che risuonavano nell'aria, ma che Adam, per qualche ragione, pareva impossibilitato a cogliere. Glielo si leggeva in quell'espressione per nulla turbata.

Rimasero a guardarsi per alcuni istanti, nubi in tempesta contro mare calmo e cristallino, finché Adam non fece un gesto inaspettato. La sua mano strinse piano la base di quella di Alec, che stava ancora tenendo forte il tessuto della maglia. Il suo tocco era caldo contro la pelle infreddolita del ragazzo abituato alle alte temperature di Phoenix, e circondava interamente il suo polso ossuto. Alec si irrigidì per quel contatto improvviso e serrò ancor più il cotone tra le dita; tuttavia, Adam non si scostò, anzi si fece leggermente più vicino e scrutò nella sua confusione, continuando a intrappolare tra i polpastrelli i suoi brividi di freddo.

Alec non sapeva che cosa pensare. Dopo i suoi avvertimenti si sarebbe aspettato una reazione d'ira, fastidio, o anche remissione, ma non lo raggiungeva nulla di tutto ciò. Lo sconosciuto che gli stava a pochi centimetri dal viso sembrava solamente pacato e curioso.

«Non ho dubbi» rispose dopo un po', senza perdere la serenità che aveva mantenuto dall'inizio della sua apparizione. Si allontanò tornando in posizione eretta, e Alec poté finalmente respirare con più tranquillità. «Tuttavia, il tuo problema è un altro, ora; molto più imminente. Tua sorella arriverà tra parecchi giorni, ma nel frattempo le nostre madri ti staranno con il fiato sul collo, essendo tu il loro unico obiettivo.» Lo guardò senza comprendere bene dove volesse arrivare. «Potrei stare dalla tua parte e aiutarti, così come, ne sono sicuro, tu avresti aiutato me.» Pronunciò quel "ne sono sicuro" con esagerata enfasi, come per dimostrare che sapeva che non era così ma chiudeva comunque un occhio al riguardo... forse. Alec non lo capiva, e la cosa lo agitava più di quanto avrebbe voluto.

Adam annuì tra sé e sé con fare abbastanza teatrale, e poi concluse: «Sì, credo proprio che ti aiuterò, quando ti sarai scusato per la maleducazione.» Sfoggiò un sorriso vincente che mandò Alec su tutte le furie. Strinse i pugni senza farsi vedere e poi si avvicinò al ragazzo, che ormai l'aveva distanziato di qualche passo.

«Fottiti» fu tutto ciò che gli disse, questa volta moderando i toni.

Gli voltò le spalle e si diede la spinta necessaria per imboccare la rampa che l'avrebbe portato di sotto.

Il fatto che Adam lo seguisse senza aggiungere una parola e mantenesse il suo comportamento tranquillo lo fece imbestialire, ma cercò di trattenere l'ira. Già si prospettava una serata stressante anche senza di lui, non poteva permettersi di dare peso a quel tipo, per ora. Per quanto gli costasse, doveva ammettere che aveva ragione: il problema principale ricadeva su lui stesso, per preoccupazioni riguardo Iris ci sarebbe stato tempo.

*

A cena erano rimasti due posti liberi: uno accanto a sua madre e quello alla destra di Mya. Uno peggio dell'altro, rifletté Alec, ma poi realizzò che qualsiasi posto sarebbe stato un inferno.

Dopo che gli ospiti li ebbero accolti aggiungendo qualche esclamazione quasi spazientita, Adam si mosse sicuro per accomodarsi. Per arrivarci fece il giro della tavola e scostò la sedia vicino a Louise con noncuranza. Alec restò a osservarlo perplesso. La seduta in legno gli avrebbe dato impiccio giacché lui era già accomodato, ma perché si era preso il disturbo di aiutarlo quando nessuno ci aveva pensato?

Il ragazzo si voltò rapido verso di lui e gli fece un fugace occhiolino, per poi continuare il suo percorso e accomodarsi finalmente di fianco alla sorella. Solo in quel momento Alec si decise a raggiungere gli altri, fermandosi obbligatoriamente accanto alla madre. Schivò lo sguardo dei presenti, a disagio, e tentò invano di isolarsi dalle voci delle donne, le uniche che stavano parlando. Quelle due sembravano saperne una più del diavolo.

Dopo vari tentativi, si concentrò su ciò che aveva nel piatto, pur non trovandolo interessante. Non mangiava da ore, eppure l'appetito era solo un ricordo. Non voleva trovarsi lì, odiava quel posto.

«Potremmo andarci tutti insieme quando arriveranno Stephen e Iris!»

Al nome di sua sorella si ridestò, ma fu solo per un attimo. La confusione momentanea provata a causa di Adam lo lasciò completamente, sostituita dall'ira cieca scaturita dal suo essere impotente in quella situazione. E Adam, nel frattempo, se la rideva sussurrando qualcosa a Mya. Ma certo, era così facile per lui!

Alec strinse i pugni sul bordo del tavolo fino a far sbiancare le nocche. Giurò a sé stesso che l'avrebbe difesa, a costo di togliere di mezzo quell'approfittatore.

Spostò la sua attenzione su Mya e notò che lo fissava a intermittenza, alternando lo sguardo preoccupato verso sua madre. Si accorse che il silenzio era calato nella stanza, e solo allora degnò le donne di considerazione. Erano in attesa di qualcosa, e, quando rivolse loro un'espressione assente, Eleanor ripeté la domanda che non aveva sentito, che lo fece inorridire all'istante.

«Che ne dici, Alec? Domani potremmo lasciarvi una serata libera per una cena insieme, da soli.»

Alec diede una fugace occhiata a Mya e lesse sul suo viso lo stesso disagio che stava provando lui, solo che non aveva il coraggio di esternarlo, quella piccola figlia di papà. Lui non si sarebbe lasciato sottomettere in quel modo. Sua madre non aveva alcun diritto di organizzargli la vita così, era anche troppo il fatto che si trovasse lì contro la sua volontà.

«Sono qui perché non ho avuto scelta» esordì, grave, «ma sappi che non soddisfarò i giochetti fantasiosi e illeciti di una donna che è uscita fuori di testa!» disse riferendosi alla madre, anche se in realtà pensava la medesima cosa di Eleanor. Aveva ancora quel poco di buonsenso da impedire a sé stesso di insultare la sua ospite, per il momento.

Si scostò dalla tavola imbandita senza aver mangiato. «Con permesso» si congedò mentre la madre prendeva fiato per rispondere. Non la lasciò parlare, non voleva udire la sua voce un secondo di più. Si affrettò verso la porta e parole sussurrate gli arrivarono alle orecchie: «Mya, sbrigati! Va' con lui, digli qualcosa!» Era Eleanor.

«Se credi che davvero gli voglia andare dietro ti sbagli di grosso, mamma. Sarà anche un ragazzino viziato, impertinente e maleducato, ma ha ragione: state giocando con una cosa importante, e spero ve ne rendiate conto. Ora, se non vi dispiace...» Non proseguì ad ascoltare. Aveva intuito che la ragazza stava per uscire e volle allontanarsi il più possibile per non incontrarla.

Si morse il labbro e sentì il bisogno di muoversi, correre, faticare, qualsiasi cosa. Ma non poteva. Tutto ciò che era in grado di fare era muovere torso e braccia, e gli era bastato, una volta. A casa sua aveva una palestra attrezzata appositamente perché potesse sfogarsi. Villa Brass era molto più grande della sua abitazione a Phoenix, ma Mya non aveva accennato a un posto del genere lì dentro. Era anche vero, però, che gli aveva mostrato poco più di metà di quella immensa villa.

«Ehi, tu» chiamò una volta arrivato nei pressi della sua camera. Aveva visto una figura aggirarsi nei corridoi ormai adombrati e poteva giurare fosse la cameriera di prima.

La donna fece qualche passo indietro e si avvicinò a lui, mostrandogli di averci azzeccato. «Il mio nome è Irina, signor Callaway, mi auguro che lo ricordi in futuro» suggerì stizzita. Perfetto! Ci mancava solo la cameriera insolente.

«Irina» si sforzò a dire. Non aveva tempo per queste cose, doveva fare in fretta. Quel corridoio aveva varie stanze, se quelle di Mya e Adam erano lì, li avrebbe incontrati presto. «C'è mica una palestra qui dentro?»

La governante sorrise soddisfatta e assentì, spiegandogli poi dove si trovava la zona che gli interessava.

Alec la ringraziò, addirittura. Tutto sommato non gli dispiaceva quella donna, era rapida ed efficiente, al contrario della loro vecchia cuoca che non faceva altro che blaterare e rallentare il proprio lavoro.

Il ragazzo sorpassò corridoi lunghi e tetri respirando a fondo per la prima volta da quando era lì: era solo e non rischiava di essere disturbato.


(Revisionato)

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